mercoledì 23 luglio 2014

E l’uomo «senza Dio» disse: non ho tempo.

Fonte: Avvenire

Sperimentare lo scorrere del tempo significa «fare esperienza di una grande debolezza. Abbiamo paura di dimenticare, perdendo così la nostra identità e quella dei nostri cari. Oppure temiamo il presente che sfugge o il futuro incerto, in cui può accadere il peggio. Ecco perché ci viene il desiderio di isolarci dal tempo: lo vediamo come una forza distruttiva». Invitano a fermarsi, per riflettere, le pagine del volume Teologia del tempo. Saggio sulla memoria, la promessa e la fecondità, pubblicato dalle Edizioni Dehoniane di Bologna (pagine 352, euro 33,00) e scritto da padre José Granados García, docente di Teologia dogmatica e patristica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Roma e professore invitato alla Gregoriana. Perché è un libro che coniuga ragionamento teologico ed esperienza quotidiana in modo puntuale, con un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori.

Nella società occidentale i ritmi di vita sono frenetici e il tempo viene centellinato nei rapporti umani ma riempito di impegni lavorativi.
«Viviamo una crisi nel modo di vivere il tempo, collegata al rifiuto postmoderno dei grandi racconti. Il passato si è allontanato sempre di più come realtà fuori moda; il futuro si è aperto senza misura, pieno di paure e minacce. Ci resta l’istante presente, sempre scarso. Ecco perché è così frequente dire: “Non ho tempo”. Questa crisi appare nell’esperienza della noia e, allo stesso tempo, in quella della fretta. In ambedue i casi il tempo perde la sua armonia, non c’è più collegamento tra un momento e l’altro. Come uscirne? Non basta modificare il modo in cui investiamo il tempo. La soluzione è cambiare il nostro modo di viverlo, recuperandone una visione che intreccia intreccia la nostra vita con quella degli altri tramite ricordi e speranze. Non si tratta dunque, di avere “tempo” per coltivare i rapporti umani, ma di capire che proprio nelle relazioni il tempo si genera».

Cosa dà senso, davvero, al tempo che scorre, passa e sembra dissolversi?
«Pensiamo, ad esempio, al nostro passato: prigione che ci lega, memoria pesante o paura di dimenticare? Ma avere un passato vuol dire anche riconoscere un’origine, confessare che qualcuno ci ha dato la vita, appartenere a una famiglia, alla storia del nostro Paese... Tutto questo non è oppressione e limite, ma liberazione e pienezza. E il tempo rende possibile quest’appartenenza, rivelando il senso della comunione, dello scambio mutuo nell’amore».

Come verificare se si ha un rapporto equilibrato con il tempo?
«La paura a vivere nel tempo è molto legata all’individualismo. Accettare il tempo significa accogliere la differenza, l’alterità, quello che non è sotto il nostro controllo. Nel libro propongo tre coordinate per misurare la pienezza del tempo: il passato come memoria filiale, riconoscendo l’origine che ci ha generato; il presente come tempo della fedeltà alla promessa di vita con altri e per altri; il futuro con il volto della fecondità. In questi rapporti la vita si apre anche verso Dio e il mistero».

Esiste dunque una teologia del tempo?
«Certamente, è il grande segreto che il tempo nasconde: Dio si rivela proprio in esso. Questa esperienza era molto viva in Israele: Dio si è rivelato nella storia liberando il suo popolo. Come dimenticare un evento, se è la sua manifestazione? La memoria è il modo di capire chi è Dio. E i sacramenti sono solenni momenti di memoria, segni di una promessa, anticipo di una fecondità più grande».

Quale peso ha la memoria in una visione cristiana del tempo? 
«La memoria è decisiva perché ci parla dell’origine: chi la riconosce può anche assumere le difficoltà della memoria, quando il passato nasconde un’offesa subita o il ricordo di una colpa. Ma se c’è una memoria fondante e indimenticabile – quella del dono della vita –, allora può rigenerare anche il male che ci opprime. Gesù ha assunto quest’esperienza del suo popolo; come Figlio, era esperto in gratitudine verso il Padre e ci dona la possibilità di partecipare alla sua memoria nell’Eucaristia». 

Come valorizzare il passato in un’epoca che polverizza i ricordi?
«Per custodire questa visione viva del passato è essenziale pensare alla promessa filiale che Dio ci ha fatto, intrecciando i momenti dispersi della vita. Nel matrimonio, ad esempio, anzitutto c’è una promessa originaria che Dio fa agli sposi: potranno rimanere uniti perché la ricorderanno, sigillandola nel loro amore».

In una cultura individualista, come recuperare la consapevolezza che la storia di ogni persona è intrecciata con quelle altrui? 
«Papa Francesco ci ha invitato a non aver paura del tempo. La famiglia, ad esempio, possiede il tempo nuovo e pieno e per questo può collegare le generazioni, curarsi degli anziani e dei giovani, essere luogo di tradizioni e anche del vero progresso, perché trasmette il grande dono della vita».

Nella logica dominante dell’hic et nunc, come riscoprire la speranza nella vita eterna? 
«A volte pensiamo che l’eternità sia la negazione del tempo. Ma Dio è il Signore del tempo. Ci aiuta la dimensione del frutto: se generiamo un amore più pieno, l’annuncio di una parola di vita che illumina gli altri, il figlio nella sua nascita ed educazione, stiamo partecipando all’eternità. In paradiso ci sarà anche il frutto. Fare del nostro tempo il tempo del frutto, del generare vita negli altri, è il nostro modo di iniziare la vita eterna. Il segreto del tempo è, in fondo, un segreto di fecondità».
Laura Badaracchi
22 luglio 2014

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