Nel segno della speranza.
La Chiesa e i divorziati risposati: molti ne parlano ma pochi conoscono la vera dottrina cattolica sull’argomento. Il Timone ristabilisce in questo articolo tutta la verità, senza scorciatoie. Ma anche senza disperazione.
di Mario Palmaro, da Il Timone (05/2010)
La posizione della Chiesa nei confronti dei fedeli divorziati è molto chiara. Ma quanti la conoscono veramente? Basta ascoltare i discorsi della gente per accorgersi che equivoci, fraintendimenti ed errori clamorosi sono assai diffusi: si confondono situazioni oggettivamente molto diverse tra loro, in un tripudio di luoghi comuni e di nozioni raccogliticce orecchiate dalla Tv o spigolate su qualche giornale sfogliato dal parrucchiere. Questa situazione dipende certamente da una diffusa superficialità in materia di fede e di morale, alla quale non sono estranei gli stessi credenti. Ma è anche conseguenza di colpevoli omissioni da parte di coloro che nella Chiesa hanno il compito di insegnare e di “pascere” il gregge affidato da Gesù. Non è raro infatti sentirsi dire che “queste cose ormai si sanno”, e che – per ragioni pastorali, per carità, per rispetto umano – “è meglio non parlare di queste cose nelle prediche o nella catechesi”. Il risultato è che i fedeli in realtà “queste cose non le sanno”, o le sanno in modo approssimativo, ignorando le precise indicazioni del Magistero e soprattutto le ragioni che stanno alla base di questo rigoroso insegnamento.
Il fatto è reso ancor più grave dalla enorme diffusione del divorzio nella nostra società, al punto che quasi tutti ormai hanno almeno un parente o un amico o un collega che vive un fallimento matrimoniale e che, come si usa dire, “si rifà una vita” con un altro partner. È dunque ancora più urgente sapere che cosa la Chiesa dice esattamente, anche per poter fare davvero del bene a coloro che si trovano in questa profonda sofferenza umana e spirituale. Anche per questi fratelli, infatti, Cristo ha parole di speranza. Anche per loro il bene proposto dal Vangelo è possibile.
Luoghi comuni e mala fede
La gente sa in maniera assai vaga che se sei divorziato non puoi ricevere la Comunione. Così capita che ci siano dei divorziati erroneamente convinti di essere colpiti da questa preclusione, mentre in realtà il divieto si riferisce ai divorziati risposati, cioè a coloro che hanno contratto matrimonio civile dopo aver celebrato un precedente matrimonio valido. E ancora: la maggior parte delle persone non sa che anche ai divorziati risposati la Chiesa offre una strada per ritornare alla Comunione. Di più: in alcune parrocchie si va diffondendo l’idea che ogni divorziato risposato decide in coscienza se vuole fare la Comunione, e che nessuno, tanto meno il sacerdote, può interferire in questa scelta. Altri pensano che i divorziati risposati siano degli scomunicati. E in generale si ritiene che la Chiesa escluda questi fedeli dall’eucarestia con un intento punitivo. Come vedremo in questo articolo, tutti questi luoghi comuni sono davvero molto lontani dalla verità. Sono lontani dal vero anche quei cattolici che inveiscono contro la Chiesa, colpevole di “discriminare” i fedeli divorziati. Un atteggiamento di ribellione davvero singolare, soprattutto se assunto da coloro che magari per anni hanno snobbato la vita cristiana, la Messa domenicale, la confessione, le devozioni, e che improvvisamente “riscoprono” una sospetta “fame eucaristica” proprio nel momento in cui – per loro libera scelta – si sono messi in una condizione irregolare.
L’atteggiamento della Chiesa
I divorziati risposati possono pensare che la Chiesa provi nei loro confronti disprezzo. Nulla di più falso: i pastori sono chiamati ad accogliere questi fedeli «con carità e amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio». Sono le parole testuali dell’autorevolissima Congregazione per la Dottrina della Fede, che nel 1994 ha inviato a tutti i vescovi del mondo un documento sulla materia. La Congregazione – allora guidata dal Cardinal Ratzinger – aggiunge che i pastori devono suggerire a questi fedeli «con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione». In queste parole c’è tutto il Magistero: la carità di Cristo, la maternità della Chiesa, la possibilità di lasciare alla spalle il male per fare il bene.
Il giudizio della Chiesa
Comprendere non significa però giustificare. La misericordia è autentica solo quando procede insieme alla verità. Ed è per questo che vescovi e sacerdoti hanno il dovere (non quindi una generica possibilità discrezionale) di richiamare ai fedeli divorziati la dottrina della Chiesa, in particolare sulla ricezione dell’Eucarestia. Qual è questa dottrina? Eccola: «Fedele alla parola di Gesù Cristo, la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura questa situazione».
Una punizione?
Qualcuno può pensare che questa norma contenga una pena, inflitta ai divorziati per sanzionare la loro condotta. Non è così. Nella Familiaris consortio (1982) Giovanni Paolo II spiega limpidamente che il rifiuto della Comunione deriva da due fondamentali ragioni: la prima, che consiste nella oggettiva condizione in cui si trovano questi fedeli, che non sono in grazia di Dio; la seconda, che é di ordine pastorale, perché se queste persone fossero ammesse all’eucarestia ne deriverebbe una grave confusione per i fedeli, indotti in errore circa la dottrina della Chiesa sulla indissolubilità del matrimonio. I vescovi e i sacerdoti dovranno inoltre compiere ogni sforzo affinché venga compreso bene che questa disciplina è frutto «soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo».
Chi decide?
Secondo qualche sacerdote, la disciplina della Chiesa su questa materia si risolverebbe in una classica questione di coscienza. Poiché valutare la giusta disposizione d’animo a ricevere l’eucarestia spetta normalmente al singolo fedele, anche in questo caso sarebbe il divorziato risposato a dover decidere che fare. Con la conseguenza pratica che, sempre secondo taluni sacerdoti, «se un fedele si presenta a fare la comunione, io ho il dovere di dargliela in ogni caso, anche se so che è un divorziato risposato». Questa posizione non è conforme all’insegnamento della Chiesa, che impone un “grave dovere a tutti i pastori”. Qual è questo obbligo grave? Quando qualcuno, convivendo more uxorio con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, giudicasse possibile ricevere la Comunione, allora vescovi e sacerdoti – in particolare nel ruolo di confessori – «hanno il grave dovere di ammonire che tale giudizio è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa». Questa dottrina dovrà essere ricordata «anche nell’insegnamento a tutti i fedeli». Dunque ai sacerdoti è richiesta una specifica vigilanza, rispetto ad altri peccati, e la ragione è evidente: il matrimonio è essenzialmente una realtà pubblica.
Nemmeno in certi casi?
Secondo alcuni, in svariati casi bisognerebbe eliminare il divieto di accesso alla Comunione. Tali situazioni particolari sono state evocate dallo stesso documento della Congregazione per la Dottrina della Fede: a. Quando il divorziato risposato era stato abbandonato ingiustamente dal coniuge, pur cercando in ogni modo di salvare il matrimonio; b. Quando il divorziato risposato è convinto in coscienza che il precedente matrimonio sia nullo, pur non potendolo dimostrare nel foro esterno; c. Quando il divorziato risposato si è sottoposto a un lungo cammino di penitenza, ed è assistito da un sacerdote prudente ed esperto. Nel n. 84 della Familiaris Consortio Giovanni Paolo II esorta i pastori a tenere in considerazione queste situazioni, distinguendole da atteggiamenti colpevoli. D’altra parte, il n. 4 del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede usa parole inequivocabili, che non lasciano scampo a interpretazioni lassiste. Anche in questi casi molto particolari, l’accesso alla Comunione non può essere consentito.
Esiste una via di uscita?
A questo punto, i divorziati risposati potrebbero sembrare dei condannati a una sorta di “ergastolo morale”, una gabbia senza scampo. Ma non è così. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede è anche qui molto preciso: «Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l’acceso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall’assoluzione sacramentale». E a chi può essere data tale assoluzione? «Solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». In concreto ciò significa che i due hanno l’obbligo di separarsi. Ma qualora i due non possono più separarsi, perché ad esempio devono educare i figli, assumeranno «l’obbligo di vivere in piena continenza, astenendosi dagli atti propri dei coniugi». Quindi, due divorziati che vivano “come fratello e sorella” possono accedere alla Comunione «fermo restando l’obbligo di evitare lo scandalo», ad esempio ricevendo l’eucarestia in una chiesa diversa da quella della propria comunità.
La Chiesa potrà cambiare la sua posizione?
No. La prassi di escludere i divorziati risposati dalla Comunione è costante e universale, ed è fondata sulla Sacra Scrittura. Questa prassi è vincolante, e «non può essere modificata in base alle diverse situazioni», poiché «agendo in tal modo la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità».
Due scomunicati?
I divorziati risposati non sono affatto degli “scomunicati”. Questo significa che non sono colpiti da una sanzione grave da parte della Chiesa – come avviene ad esempio nei confronti di chi ha commesso il peccato di aborto volontario – e significa anche che essi devono essere incoraggiati a partecipare alla vita cristiana. In particolare, la Chiesa li incoraggia a non abbandonare la pratica della Messa, anche quando fossero impossibilitati a ricevere la Comunione, perché questa loro partecipazione al sacrificio di Cristo non è senza valore e senza significato. La Congregazione per la Dottrina della Fede nel documento del 1994 li esorta «ad approfondire il valore della comunione spirituale», a pregare, a educare i figli nella fede cristiana, a impegnarsi in opere di carità.
Segnali di speranza
Non ci sono dubbi: un cattolico sincero, trovandosi nella condizione di divorziato risposato, vive nella sua coscienza una sofferenza molto profonda. Le motivazioni umane che lo hanno spinto verso certe decisioni, la forza coinvolgente degli affetti umani, le conseguenze talvolta irrimediabili degli errori, lo avviluppano da ogni parte. È proprio in questa dura prova che il divorziato risposato dovrà resistere ad alcune tentazioni: ribellarsi alla Chiesa; abbandonare la vita cristiana; perdere ogni speranza. Per quanto grave sia la nostra colpa, per quanto ardua sia la strada da percorrere, con l’aiuto di Dio tutto è possibile. Realmente tutto.
****
Né Comunione né scomunica
Monsignor Luigi Negri spiega: il primo dovere della Chiesa è difendere i diritti di Dio, mentre non esiste per nessuno un “diritto ai sacramenti”. I divorziati risposati esclusi dalla vita cristiana? È una menzogna frutto della mentalità laicista e terroristica.
di Roberto Beretta, da Il Timone (09/01/2010)
I giornali lo cercano spesso perché, in genere, le sue parole sono piuttosto lontane dalle maniere moderate e clericali tipiche di tanti altri suoi colleghi e – dunque – «fanno notizia». In effetti a volte le dichiarazioni di monsignor Luigi Negri – teologo e vescovo di San Marino Montefeltro – risultano spigolose, persino rudi; ma di sicuro hanno il pregio di una chiarezza quasi didascalica. E riservano quasi sempre qualche sorpresa anche agli habitués.
Monsignor Negri, cominciamo subito dall’obiezione più comune, fors’anche qualunquista ma con una certa presa pure tra i cattolici: perché tanta intransigenza della Chiesa verso i divorziati non sposati, tanto da essere ritenuta più severa nei loro riguardi che verso altre categorie di peccatori, per esempio i ladri o i disonesti?
Dato e non concesso che sia vera la seconda parte della domanda, e cioè che la Chiesa non usi una bilancia corretta per la gravità dei peccati, non si tratta tanto di intransigenza verso i divorziati, quanto di un dovere nei confronti di Dio. La prima difesa che la Chiesa deve mettere in pratica è infatti quella dei diritti di Dio. La fedeltà e l’unità degli sposi si radicano nella fedeltà di Dio, il matrimonio è un sacramento di Cristo e la Chiesa deve rispettare quanto le è affidato non perché venga manipolato, ma perché si resti il più possibile fedeli al messaggio originario. Bisogna poi dire una cosa molto chiara: sostenere che i divorziati risposati sono esclusi dalla vita cristiana è sbagliato, è il frutto di una mentalità laicista e terroristica; ogni fedele vive nella Chiesa secondo la sua capacità e non è detto che la partecipazione alla vita ecclesiale si debba livellare sulla pratica dell’eucaristia: c’è tutta una gradualità di posizioni, che rispondono a casi in cui ci si può trovare anche per propria volontà. Non possiamo dunque ragionare solo nell’ottica delle condizioni individuali, in quanto c’è pure un coinvolgimento della libertà personale nella scelta di mettersi in una certa situazione; e ognuno deve assumersi le responsabilità delle decisioni che prende. Verso i divorziati che non passano a nuove nozze, difatti, la Chiesa si è ben guardata dal praticare una cosiddetta intransigenza.
Altra accusa ricorrente: il processo di annullamento dei matrimoni cattolici costa molto, è lungo, ottiene esito positivo solo per chi ha conoscenze altolocate e in fondo è solo un “trucchetto” per concedere il divorzio ai soliti privilegiati… Come smentire?
Queste affermazioni fanno parte di una classica “leggenda nera” che va decisamente smontata. La Chiesa è estremamente garantista, conduce processi in cui tutti i fattori vengono tenuti presenti, senza pregiudizio verso nessuna parte. La questione economica poi non si pone proprio: addirittura, a volte è la diocesi che offre il patrocinio d’ufficio e si può fare tutto senza spendere praticamente niente. Il problema è semmai un altro: anche a detta dei due ultimi Papi, nei loro discorsi ai tribunali ecclesiastici, si verifica una certa disinvoltura nella concessione delle nullità matrimoniali. Credo in effetti che ci sia il pericolo che la Chiesa ceda qualche volta con una certa facilità a pressioni massmediatiche o alla mentalità comune. Ma questo va esattamente in senso opposto all’obiezione da cui siamo partiti.
A proposito del divieto di comunicarsi per i divorziati risposati, lei ha scritto: «I sacramenti non sono un diritto acquisito. Nella mentalità di tanti cristiani, a volte, si insinua invece un’idea di rivendicazione sindacale». Certo, si può vivere ed essere cristiani anche senza avere l’eucaristia; però è bello che si aspiri al massimo della comunione, no?
È vero che l’eucaristia è il culmine della vita cristiana. Ma, se mi sono messo consapevolmente e liberamente nelle condizioni di non arrivare su tale vetta, non posso pretendere di farlo a tutti i costi… Nessuno ha diritto a nessun sacramento, tutti sono frutto della grazia di Cristo. E la privazione della pratica sacramentale non è come ad esempio la scomunica latae sententiae per chi fa l’aborto: non esclude la possibilità di fare un’esperienza di Chiesa, pur senza giungere al vertice. D’altra parte nessuno ha costretto questi fratelli a divorziare, tanto meno la Chiesa. E arrivare al punto massimo della liturgia non è un assoluto. Bisogna saper tradurre questo desiderio in preghiera e in sacrificio: la comunione di desiderio, come si diceva una volta.
Dunque per i divorziati risposati non c’è, diciamo così, alcuna scorciatoia.
Devono rimuovere la condizione di irregolarità in cui si sono messi: la nuova situazione affettiva, la cosiddetta nuova famiglia, il matrimonio civile che rende impossibile la partecipazione piena alla vita alla Chiesa; ma non da oggi: da sempre! E dunque la verità è che, in ogni caso, si deve mettere in conto un sacrificio. Per il resto, ribadisco che nella vita della Chiesa esiste una bellissima articolazione di carismi e di possibilità: chi impedisce, per esempio, ai divorziati risposati di vivere in ogni caso un’intensa vita di carità o di preghiera?
Ben detto! La Comunione, lo dice la parola stessa, è intima unione col Signore e come ciò potrebbe avvenire in una situazione di peccato, ed anche grave? Siamo noi che dobbiamo conformarci, per amore, a Dio ed ai suoi insegnamenti e non cercare di piegare Dio ai nostri desideri e la Santa Chiesa non può agire diversamente! Essa non è un'istituzione che elargisce a piacimento dei fedeli i sacramenti. Lo capiremo una volta per tutte?
RispondiElimina