domenica 23 agosto 2009

La profonda ragione della devozione al Sacro Cuore


Il culto del Sacro Cuore di Gesù non è affatto secondario nella fede cristiana, né tanto meno una forma di superstizione, come i suoi avversari, specie i giansenisti, sostenevano. Al contrario, esso è stato voluto e stabilito da Cristo stesso, che ha ad esso legato dodici promesse e un valore di portata non solo teologica ma anche sociale.



Il Cristianesimo afferma che la salvezza è nell’adesione del cuore. Per il Cristianesimo la conoscenza è importante ma non determinante, nel senso che essa svolge una funzione ausiliare per l’esercizio della virtù ma non costituisce il criterio della salvezza.
Il Cristianesimo non è una religione gnostica, ovvero una religione che fa della conoscenza l’unico criterio della salvezza: chi conosce si salva, chi non conosce non si salva.



Il significato teologico

Che il criterio cristiano della salvezza non sia nella conoscenza ma nell’adesione del cuore, è esito del fatto che il Dio cristiano ha creato per amore e che per amore ha deciso d’incarnarsi, di fare esperienza della sofferenza e della morte.



Nel XVII secolo nacque e iniziò a diffondersi l’eresia giansenista, che si basava prevalentemente su due punti. Primo: il peccato originale ha talmente rovinato l’uomo che questi, senza la Grazia, non può fare il bene, neanche occasionalmente. Secondo: Dio ha già deciso chi deve essere salvato e chi dannato indipendentemente dai meriti e dai demeriti; insomma, una predestinazione in senso calvinista.



Dunque quella del giansenismo era una concezione antropologica dichiaratamente pessimistica e, nello stesso tempo, una concezione di Dio rigoristica ed angosciante. Il Sacro Cuore appare a santa Margherita Maria Alacoque affermando, invece, che bisogna abbandonarsi al suo Amore, indicando cioè il suo Cuore come criterio di vincolo a Lui e anche come criterio di comprensione (per quanto possibile) della sua tenerezza per l’uomo stesso.
In una delle rivelazioni a santa Margherita il Sacro Cuore disse: «Ecco quel Cuore che ha talmente amato gli uomini da non aver risparmiato nulla, fino ad esaurirsi e consumarsi per testimoniare a loro il proprio amore».



Dunque, con la devozione al Sacro Cuore, Gesù ricorda il suo immenso amore e la sua immensa misericordia per l’uomo. Un ricordo non astratto ma volto a far capire concretamente quanto la vita dell’uomo stesso possa cambiare abbandonandosi all’amore di Gesù. Egli rivelò a santa Margherita ben dodici promesse di una indiscutibile concretezza. Leggiamole.



1. Ai devoti del mio Sacro Cuore darò tutte le grazie e gli aiuti necessari al loro stato. 2. Stabilirò e manterrò la pace in tutte le loro famiglie. 3. Li consolerò in tutte le loro afflizioni. 4. Sarò per loro sicuro rifugio in vita e soprattutto nell’ora della morte. 5. Spargerò abbondanti benedizioni su tutte le loro fatiche e imprese. 6. I peccatori troveranno nel mio Cuore un’inesauribile fonte di misericordia. 7. Le anime tiepide diventeranno ferventi con la pratica di questa devozione. 8. Le anime ferventi saliranno rapidamente ad un’alta perfezione. 9. La mia benedizione rimarrà nei luoghi in cui verrà esposta e venerata l’immagine del Sacro Cuore. 10. A tutti coloro che opereranno per la salvezza delle anime, darò grazie per poter convertire i cuori più induriti. 11. Le persone che diffonderanno questa devozione avranno i loro nomi scritti per sempre nel mio Cuore. 12. A tutti coloro che si comunicheranno nei primi venerdì di nove mesi consecutivi, darò la grazia della perseveranza finale e della salvezza eterna.



A proposito della devozione al Sacro Cuore di Gesù, Pio XI al paragrafo 4 della Miserentissimus Redemptor, dell’8 maggio 1928, dice che «essa è non soltanto il simbolo, ma anche, per così dire, la sintesi di tutto il mistero della Redenzione (…) la più completa professione della Religione cristiana».



Il significato sociale



Se teologicamente la devozione al Sacro Cuore è una risposta al giansenismo, socialmente è una risposta prima di tutto all’assolutismo politico, uno dei tratti tipici della modernità.

Il XVII è proprio il secolo dell’assolutismo politico che affonda le sue radici nella concezione, tipicamente umanistico-rinasacimentale, di un potere non organicamente legato al Vero e al Giudizio morale (e quindi a Dio) ma che deve trovare il proprio fondamento in se stesso, cioè nel puro esercizio del potere. Insomma, un’autorità politica non più come manifestazione di servizio, ma, per l’appunto, come pura manifestazione di potere. Una concezione pertanto machiavellica e post-machiavellica.



Il Sacro Cuore, attraverso santa Margherita, rivolse delle precise richieste al Re di Francia Luigi XIV. Eccole: 1. Il Re deve consacrarsi con la sua famiglia al Sacro Cuore e offrirgli pubblici omaggi. 2. Egli deve chiedere ufficialmente alla Santa Sede di autorizzare la Messa del Sacro Cuore e di concedere privilegi per l’universale diffusione di questa devozione. 3. Egli deve far costruire una basilica dedicata al culto del Sacro Cuore. 4. Egli deve porre la Francia sotto la protezione del Sacro Cuore, raffigurandolo sugli stendardi e sulle armi del Regno. 5. Egli deve promuovere nell’intera Europa i diritti di Gesù Cristo come Re dei re e Sovrano dei sovrani.



Le richieste non furono esaudite e la Francia, da baluardo del Cattolicesimo che doveva essere, divenne la culla dei più gravi errori. Luigi XVI ne pagò le conseguenze. Nel 1792, mentre era prigioniero dei rivoluzionari, si ricordò delle promesse del Sacro Cuore alla Corona di Francia e promise che, se fosse scampato alla morte e tornato sul trono, avrebbe consacrato se stesso e la Francia al Sacro Cuore. Ma Gesù stesso (più di un secolo dopo) dirà a suor Lucia di Fatima che fu troppo tardi.



Dunque, la devozione al Sacro Cuore è anche un richiamo di carattere sociale, un richiamo cioè a concepire l’autorità politica come modello di servizio e di sacrificio in cui gli elementi della donazione, dell’oblazione e dell’amore diventano fondamentali nell’esercizio di tale autorità.
Insomma, il modello di ogni autorità politica è la regalità di Cristo e del suo amore immenso per ogni uomo.



L’enciclica Annum sacrum di Leone XIII, del 25 maggio 1899, afferma che la devozione al Sacro Cuore ha la sua ragione teologica proprio nella regalità sociale di Cristo. Infatti, il coronamento del culto pubblico al Sacro Cuore fu l’istituzione della festa liturgica di Cristo Re.
Nel 1925, Pio XI stabilì che questa festa venisse celebrata l’ultima domenica di ottobre. E in tale giorno bisognava anche rinnovare la consacrazione dell’umanità intera al Cuore di Gesù. Leggiamo alcune parole tratte dalla Quas primas, l’enciclica di Pio XI, dell’11 dicembre 1925, che istituisce la Festa di Cristo Re:



«Chi non vede che, fin dagli ultimi anni del secolo precedente, in modo ammirevole andava preparandosi il cammino per l’istituzione di questa festa? Tutti sanno che l’autorità e la regalità di Cristo sono stati già riconosciuti dalla pia pratica delle consacrazioni e omaggi al Sacro Cuore di Gesù rivoltigli da innumerevoli famiglie, e non solo da famiglie, ma anche da Stati e Regni, che hanno compiuto lo stesso atto. (…) Il diluvio di mali sull’universo proviene dal fatto che la maggior parte degli uomini ha respinto Gesù Cristo e la sua sacrosanta Legge, sia dalla vita privata che da quella pubblica. Non vi sarà certa speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni si ostineranno a negare e rifiutare l’imperio del Salvatore».

C’è sicuramente una speranza, quella che la devozione al Sacro Cuore costituisca l’“occasione” per far ritornare questo mondo alla “giovinezza” della Verità. Un episodio alimenta questa speranza.



Santa Gertrude (1256-1302) ebbe una visione in cui chiese a san Giovanni evangelista perché, nel suo Vangelo e nelle sue Lettere, aveva fatto solo intravedere quei misteri pieni di amore che aveva ricevuto dal Sacro Cuore. L’Apostolo le rispose:



«Il mio ministero doveva limitarsi a rivelare sul Verbo increato, eterno Figlio del Padre, alcune parole feconde, sulle quali l’intelligenza degli uomini meditasse continuamente, senza poter mai esaurirne le ricchezze. Ma agli ultimi tempi è riservata la grazia di udire l’eloquente voce delle pulsazioni del Cuore di Gesù. Nell’udire questa voce, l’invecchiato mondo ringiovanirà dal suo torpore e il calore del divino amore lo infiammerà un’ultima volta».


(Fonte: Radici Cristiane - RC n. 35 - Giugno 2008)







giovedì 20 agosto 2009

San Leopoldo Mandic




San Leopoldo Mandic
(12/05/1866 - 30/07/1942)






Confessarsi da lui era cosa breve. Anzi brevissima. Non si dilungava mai in parole, spiegazioni, discorsi. Aveva imparato dal Catechismo di san Pio X che la brevità è una delle caratteristiche di una buona confessione. Eppure il suo confessionale è stato per più di quarant'anni una specie di porto di mare per le anime. Tanti erano quelli che andavano, che assiduamente lo frequentavano. Padre Leopoldo era sempre lì, dodici, tredici, quindici ore al giorno. Confessava e assolveva oves et boves, cioè tutti. E di quella sua amabile delicatezza, di quell’umiltà semplicissima, fiduciosa nell’infinita misericordia di Dio e nell'azione della grazia che opera attraverso i sacramenti, sono testimoni quanti lo conobbero. La sua celletta confessionale è rimasta com’era, lì dove tuttora si trova, accanto alla chiesa di Santa Croce, nel convento dei frati Cappuccini a Padova. Una piccola stanza con tutte le poche cose che hanno fatto la sua vita: un inginocchiatoio, un crocifisso, un’immagine della Madonna, la stola, la sedia. Neanche la furia dei bombardamenti, che nel maggio del 1944 rasero al suolo la chiesa e il convento, è riuscita a demolirla. Da tanta distruzione solo quel confessionale rimase miracolosamente illeso. Due anni prima della sua morte, avvenuta il 30 luglio 1942, padre Leopoldo, confidandosi con un amico, aveva predetto i bombardamenti che avrebbero colpito Padova. «E questo convento?», chiese quel signore; «padre, anche questo convento sarà colpito?». «Purtroppo, anche il nostro convento sarà duramente colpito» rispose con un filo di voce padre Leopoldo. «... Ma questa celletta no, questa no. Qui il Padrone Iddio ha usato tanta misericordia alle anime... deve restare a monumento della Sua bontà». Leopoldo Mandic è stato proclamato santo il 16 ottobre 1983.



Elevato vox populi agli onori degli altari.



Dalla morte alla canonizzazione sono trascorsi solo quarantun anni: una delle canonizzazioni più rapide del nostro secolo.

Di nobile stirpe bosniaca Nato nel 1866 in Dalmazia, a Castelnuovo di Cattaro, Adeodato Mandic era di nobile stirpe bosniaca. Prese nome di fra Leopoldo entrando nel seminario dei frati Cappuccini a Bassano del Grappa.



A ventiquattro anni è ordinato sacerdote e da questo momento in poi, prima a Venezia, poi a Bassano, Thiene e dal 1909 stabilmente a Padova, non fa altro che attendere al sacramento della penitenza.



Per i suoi superiori non poteva fare altro: statura un metro e trentotto, costituzione debolissima, stentato e un po’ goffo nel camminare... Fisicamente era un nulla e per di più anche impacciato nella lingua poiché aveva lo “sdrùcciolo”, cioè mangiava le parole, e questo difetto si sentiva soprattutto quando pregava o doveva ripetere le formule a memoria, tanto che in pubblico non poteva dire neanche un «oremus».



Cosa non da poco in un ordine di predicatori qual è quello dei Cappuccini! «Tante volte» ricordò al processo un suo confratello «si meravigliava egli stesso che professori universitari, uomini importanti, persone molto qualificate venissero proprio da lui, “povero frate”; e tutto egli, con grande umiltà, attribuiva alla grazia del Signore che per mezzo suo, “meschino ministro pieno di difetti”, si degnava di fare del bene alle anime».



Tutti quelli che lo hanno conosciuto ricordano questa sua umiltà sincera, piena di riconoscenza e gratitudine.



A Padova, a tarda sera di un giorno di Pasqua, un giovane sacerdote incontrò padre Leopoldo che quasi non si teneva in piedi dalla stanchezza per le tante ore passate in confessionale. Con tono di filiale compassione gli disse: «Padre, quanto sarà stanco...»; «e quanto contento...», riprese lui con dolcezza. «Ringraziamo il Signore e domandiamogli perdono, perché si è degnato di permettere che la nostra miseria venisse a contatto con i tesori della sua grazia».



Davanti alla porticina del suo confessionale ogni giorno un folto gruppo di persone di tutte le classi sociali era lì ad attenderlo. Analfabeti e rozzi contadini, professionisti, sacerdoti e religiosi, magnati dell’industria e professori, tutti aspettavano in silenzio il loro turno e tutti padre Leopoldo accoglieva sempre con la stessa premura, la stessa delicata discrezione, specialmente chi si riavvicinava alla confessione dopo tanto tempo. «Eccomi, entri pure, s’accomodi... l’aspettavo sa... » si sentì dire un signore di Padova che da molti anni non si accostava ai sacramenti. E tanto era impacciato e confuso che, entrato nel confessionale, invece di mettersi in ginocchio andò a sedersi sulla sedia del prete; padre Leopoldo non disse niente, si mise lui in ginocchio al posto del penitente e ascoltò così la sua confessione. Ed era, la sua, una delicatezza attenta a non umiliare inutilmente, comprensiva della fragilità umana: «Non abbia riguardo, veda, anch’io, benché frate e sacerdote, sono tanto misero» disse a un altro. «Se il Padrone Iddio non mi tenesse per la briglia farei peggio degli altri ... Non abbia nessun timore». E a quel tale che aveva grosse colpe da confessare e a cui costava molto vuotare il sacco, dire certe miserie: «Siamo tutti poveri peccatori: Dio abbia pietà di noi...». Glielo diceva con un tono tale che quell'uomo si sentì immediatamente incoraggiato ad accusarsi con sincerità. Spesso ripeteva ai penitenti: «La misericordia di Dio è superiore a ogni aspettativa», «Dio preferisce il difetto che porta all'umiliazione piuttosto che la correttezza orgogliosa». «Non roviniamo con le nostre spiegazioni ciò che il Signore opera»



Credendo fermamente nell'efficacia della grazia che il Signore stesso comunica attraverso i sacramenti, padre Leopoldo su di un punto solo fu costantemente irremovibile: la brevità della confessione. Delle volte, è vero, nei giorni di scarso concorso, si intratteneva con una persona magari mezz’ora, o perché s’interessava dei suoi studi o del suo ufficio o per intrattenersi con quei chierici o quelle anime che lo chiedevano come guida spirituale. Ma la confessione, come tale, era sempre breve. E i penitenti testimoniano questa sua brevità e semplicità di parole. Scrive un monsignore di Padova: «La confessione con il padre Leopoldo era ordinariamente brevissima. Egli ascoltava, perdonava, non molte parole, spesso anche in dialetto quando si rivolgeva a persone non istruite, qualche motto, uno sguardo al crocifisso, talvolta un sospiro. Sapeva che in via ordinaria le confessioni lunghe sono a scapito del dolore, e sono, il più delle volte, accontentamento di amor proprio, pertanto sulla modalità della confessione si atteneva a quanto indicato nel catechismo della dottrina cristiana». In una lettera indirizzata a un sacerdote, padre Leopoldo scrive: «Mi perdoni padre, mi perdoni se mi permetto... ma vede, noi, nel confessionale, non dobbiamo fare sfoggio di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alla capacità delle singole anime, né dobbiamo dilungarci in spiegazioni, altrimenti, con la nostra imprudenza, roviniamo quello che il Signore va in esse operando. È Dio, Dio solo che opera nelle anime! Noi dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento nelle misteriose vie della loro salvezza e santificazione».



Sempre esortava i suoi penitenti ad avere fede, a pregare, ad accostarsi frequentemente ai sacramenti. Ma il piccolo frate, nelle penitenze, inutile dirlo, era magnanimo e diceva a chi gli obiettava di darle facili: «Oh è vero... e bisogna che dopo soddisfi io... ma è sempre meglio il purgatorio che l’inferno. Se chi viene da noi a confessarsi, col dargli poca penitenza deve poi andare in purgatorio, dandogliela grave non c’è pericolo che si disgusti e vada a finire all'inferno?». E così ordinariamente dava tre Ave Maria e tre Gloria Patri. Poco dava ai laici lontani dalla vita della Chiesa e poco dava anche alle anime che per loro vocazione hanno tante preghiere da dire ogni giorno.



Un sacerdote un giorno gli chiese se non fosse il caso di assecondare il desiderio di una brava figliola di portare addosso qualche strumento di penitenza. Il buon padre subito rispose che non era affatto un desiderio da assecondare. «Ma scusi, padre, lei non la conosce: non è un’anima qualunque, è un'anima d'oro, seria...». E padre Leopoldo rimaneva ancora più deciso nel rifiuto. E l’altro insisteva. Allora il prudente confessore fece questa domanda: «Mi permetta, mi permetta: lei porta il cilicio?». «No!». «E allora? Caro padre, abituiamo i penitenti a ubbidire ai comandamenti di Dio e al loro dovere. Ce n’è abbastanza, ce n’è abbastanza! E i grilli via!». Magnanimo, padre Leopoldo, lo era anche nell’assoluzione: non la negava davvero a nessuno. E di quelle rarissime volte che l’ebbe fatto si pentì sempre. Alcuni giorni prima di morire un sacerdote gli chiese: «Padre, c’è stata qualche cosa che vi ha procurato tanto dispiacere?». Egli rispose: «Oh! Sì... purtroppo sì. Quando ero giovane, nei primi anni di sacerdozio, ho negato tre o quattro volte l’assoluzione». «Che riposino... lo farò io per loro»



Tutti lo conoscevano per la sua bontà: el padre Leopoldo, o benedeto! Queo sì ch’el xe bon! L’è un santo diceva la gente. Tanto che quando nel 1923 i superiori lo trasferirono a Fiume, per i padovani fu lutto cittadino. Ma tanto fecero, tanto insistettero che i superiori dovettero ritornare sulle decisioni prese e rimandarlo dopo breve tempo a Padova. Anche i giovani chierici gli volevano bene. Nel 1910, l’anno seguente al suo arrivo a Padova, padre Leopoldo fu infatti nominato direttore dei chierici del seminario maggiore dei Cappuccini. Incarico dal quale fu poi presto esonerato.



Racconta un suo confratello: «Per i seminaristi nutriva un grande affetto e si mostrava assai paterno con loro e li incoraggiava sempre sollecitandoli nella speranza. La nostra regola era molto austera. All’una di notte ci si alzava per la recita del mattutino e d'inverno, col freddo rigido, costava assai... E lui pensava a quei giovani poverini... Più di una volta ricordo che padre Leopoldo andava dal padre superiore perché anticipasse la recita del mattutino alla sera: “Superiore, guardi che stanotte farà freddo...”. “Ma padre, la temperatura non è scesa sotto lo zero”. “Oh, ma questa notte lo farà...”. “Lasciamoli dormire”, diceva al superiore, “che riposino... lo farò io per loro”.



E si curava che stessero in salute, che mangiassero bene, che non fossero ripresi dai superiori per qualche manchevolezza durante il pranzo, com’era costume fare». Scrive l'allora superiore generale dei Cappuccini: «Sapendo egli quanto bene gli volevo, aveva in me grande confidenza e spesso mi diceva: “Padre provinciale, se mi permette, veda di non gravare la coscienza dei frati, soprattutto dei giovani frati, con prescrizioni che non siano proprio necessarie, perché, vede, poi bisogna osservarle le prescrizioni dei superiori. Se non sono proprio necessarie sono un laccio per i deboli... Mi perdoni sa, mi perdoni...”».



Di quanta misericordia, di quanto amore fosse capace il cuore del piccolo frate, anche per coloro che non lo meritavano, lo dice questa dolorosa circostanza che riguarda un chierico espulso bruscamente dal convento per aver compiuto deliberatamente atti gravissimi. A raccontarla è un sacerdote: «Portatomi in convento, incontrai padre Leopoldo che era appena uscito dall'ospedale. Mi chiamò nel suo confessionale e mi scongiurò, in nome di Dio, di accogliere quel “poveretto” e di pregare il superiore della casa di trattarlo bene per salvare in lui almeno la fede. Piangendo mi disse più volte: “Si salvi la fede, si salvi la fede!”. Poi, inceppandosi ogni tanto per l’emozione, continuò: “Dica, dica a quel poveretto che io pregherò per lui. Gli dica che domani nella santa messa mi ricorderò di lui, anzi... anzi gli dirà che la celebrerò tutta proprio per lui e lo benedirò sempre. Gli dirà che padre Leopoldo gli vuol sempre bene!...”. Rimasi commosso anch’io al sentire un cuore così ripieno di evangelica carità. Solo le madri trovano espressioni così accorate quando un figlio degenere si allontana da loro». Ma a qualcuno intanto, questa bontà senza misura, cominciò a sembrare eccessiva accondiscendenza, e iniziò a storcere il naso. «Paron benedeto, questo cattivo esempio me l’avete dato voi»



Cominciarono così le critiche per la larghezza con cui trattava i penitenti, anche i più recidivi nella colpa, per la generosità del perdono. Lo rimproveravano di essere troppo sbrigativo contentandosi persino di sommaria accusa, tanto da tacciarlo di lassismo di principi morali. Ai chierici venne perciò sconsigliato apertamente di confessarsi da lui. Le critiche giunsero all’orecchio del piccolo frate e un giorno un sacerdote gli disse: «Padre, ma lei è troppo buono... ne renderà conto al Signore!... Non teme che Iddio le chieda ragione di eccessiva larghezza?». E padre Leopoldo indicando il crocifisso: «Ci ha dato l’esempio Lui! Non siamo stati noi a morire per le anime, ma ha sparso Lui il Suo sangue divino. Dobbiamo quindi trattare le anime come ci ha insegnato Lui col Suo esempio. Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?». E allargando le braccia aggiunse: «E se il Signore mi rimproverasse di troppa larghezza potrei dirgli: “Paron benedeto, questo cattivo esempio me l’avete dato voi, morendo sulla croce per le anime, mosso dalla vostra divina carità”». «Mi dicono che sono troppo buono» scrive a un sacerdote suo amico «ma se qualcuno viene a inginocchiarsi davanti a me, non è questa sufficiente prova che vuole avere il perdono di Dio?». Le critiche furono ben presto spazzate via.



L’allora canonico teologo di Padova monsignor Guido Bellincini inviò subito una lettera al convento di padre Leopoldo: «Grande larghezza di cuore la vostra, carissimo padre, che non è lassitudine di principi morali, ma comprensione dell’umana fragilità e fiducia negli inesauribili tesori della grazia: che non è acquiescenza o indifferenza alle colpe, ma longanimità concessa al peccatore, perché non disperi delle sue possibilità di ricupero e si rassodi nei buoni propositi. Ringraziamo Iddio che fa le cose giuste: ha voluto che fosse confessore e giudice un semplice uomo e non un Angelo del cielo. Guai a noi se il confessore fosse un Angelo: quanto sarebbe rigoroso e terribile! L’uomo invece capisce l'uomo, e i sacramenti sono per gli uomini!».



Nel maggio del ’35 padre Leopoldo festeggia il suo cinquantesimo anno di vita religiosa. Inutile dire quante le manifestazioni di affetto ricevute in quel giorno. Mai si pensava di esser trattato così, lui che era la discrezione in persona. Honor sequitur fugientes! Mai infatti, né in vita né dopo la morte, la diffusa fama di santità suscitò attorno alla sua figura chiassosa pubblicità o fanatismo. E i doni straordinari e le grandi opere che per suo mezzo il Signore si è degnato di compiere, accadevano nel silenzio, senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Tanto che molti dei suoi stessi confratelli, come testimoniarono al processo, se ne accorsero solo dopo la morte: «Io stesso non avrei mai creduto, perché durante la sua vita non mi risultava nulla di straordinario.



Padre Leopoldo appariva un frate esemplare, ma nulla di più». Per quel «nulla di più» quanti ottennero da lui, anche quando era in vita, grazie e miracoli, quanti “pesci grossi” il pentimento fino al dono delle lacrime, quanti innominati entrarono per quella porticina del suo confessionale... Quanti ricorderanno per tutta la vita quell’abbraccio, quello sguardo... E lui tutti affidava a Maria, colei a cui tutto è stato perdonato in anticipo.



Quante ore della notte passò pregando per quelle anime? Quante volte il padre guardiano lo aveva trovato prima dell’alba in ginocchio per terra, nella penombra della cappella davanti alla statua della Madonna? Per lei aveva gesti di tenerezza infantile e la baciava e l’implorava con le lacrime agli occhi, come un bambino.



Negli ultimi tempi, malato di cancro all’esofago, le preghiere alla sua «cara Parona celeste» sono ancora più piene di commovente tenerezza: «Ho estremo bisogno» scrive a un amico «che Lei, la mia dolcissima Madre celeste, si degni di avere pietà di me. Il Suo cuore di madre si degni di guardare a questo povero me; si degni di avere pietà di me».



E ai suoi confidenti chiedeva che la pregassero perché la sofferenza provocata dal male non fosse d’impedimento per attendere alle confessioni: «E La supplichi», chiedeva «supplichi il Suo cuore di madre ch’io possa servire umilmente Cristo Signore secondo la natura del mio ministero fino alla fine... Tutto, tutto per la salvezza delle anime... Tutto a gloria di Dio!».



All’alba di quel 30 luglio volle celebrare la messa ma per la debolezza venne riportato a letto. Sentendo venir meno le sue forze chiese ai suoi confratelli di intonare il Salve Regina. Ai versi finali si sollevò con gli occhi pieni di lacrime... Dulcis Virgo Maria, oh dolce Vergine Maria. Fu questo l’ultimo suo respiro. La sera prima aveva confessato cinquanta persone! L’ultima a mezzanotte.

Stefania Falasca

domenica 16 agosto 2009

LA PERDONANZA CELESTINIANA

A L’Aquila il 28 agosto per la 715a edizione della

PERDONANZA CELESTINIANA

PIETRO Angelerio, un eremita benedettino, nato probabilmente nel 1215, fondatore dell’ordine dei Celestini, noto come Pietro del Morrone, all’età di 79 anni, dopo 27 mesi di conclave, venne eletto 192° successore di Pietro col nome di Celestino V. A L’Aquila con la Curia Papale, il 29 settembre 1294, volle concedere un dono straordinario alla città ed a tutti gli uomini: la prima indulgenza plenaria particolare della storia cattolica.

"Quanti confessati e sinceramente pentiti, dai vespri del 28 agosto fino ai vespri del giorno 29, festa di san Giovanni Battista, avessero visitato devotamente la basilica di Collemaggio, avrebbero ricevuto contemporaneamente la remissione dei peccati e l’assoluzione dalla pena."

L’intendimento era di concedere ai poveri ed agli indigenti, una indulgenza che allora era oggetto di lucro, per lenire le loro difficoltà materiali, con un prezioso dono spirituale. Come previsto nella bolla, per ottenere l’indulgenza, o Perdonanza, è necessario entrare nella basilica di Santa Maria di Collemaggio in L’Aquila, tra l’imbrunire del 28 agosto ed il tramonto del 29 agosto di ogni anno, giorno dedicato alla decollazione di San Giovanni Battista, essendo sinceramente pentiti e confessati.

L'Aquila - San Celestino V, Pietro del Morrone e la Basilica di Santa Maria in Collemaggio (XIII sec.).


L’Aquila - San Celestino V, Pietro del Morrone e la Basilica di Santa Maria in Collemaggio (XIII sec.).

L’Aquila si appresta, pertanto, tramite il cardinale Tarcisio Bertone, il prossimo 28 agosto a celebrare la 715a edizione della Perdonanza Celestiniana, con l’apertura della Porta Santa, unica fuori Roma, a dare inizio alla ricorrenza. Migliaia di fedeli, come ogni anno, entreranno dalla Porta Santa, che simboleggia il Cristo che è la Via, la Verità e la Vita, ansiosi di riconciliarsi con Dio. Otterranno così la remissione dai peccati dinanzi a Dio, con l’assoluzione dalla colpa a seguito del sacramento della penitenza e la cancellazione della pena.

Per 24 ore la Basilica aquilana rimarrà aperta e saranno continuamente a disposizione sacerdoti di diverse lingue per le confessioni, con Messe ad ogni ora e Veglia di preghiera nella notte animata dai giovani.

Antonio Ruzza

Per informazioni: www.perdonanza-celestiniana.it



Glorificazione di Maria Santissima Assunta in Cielo




COSTITUZIONE APOSTOLICA


MUNIFICENTISSIMUS DEUS


LA GLORIFICAZIONE DI MARIA
CON L'ASSUNZIONE AL CIELO
IN ANIMA E CORPO


Mercoledì, 1° novembre 1950




La solenne definizione:


«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo».



Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica.



Affinché poi questa Nostra definizione dell'assunzione corporea di Maria vergine al cielo sia portata a conoscenza della chiesa universale, abbiamo voluto che stesse a perpetua memoria questa Nostra lettera apostolica; comandando che alle sue copie o esemplari anche stampati, sottoscritti dalla mano di qualche pubblico notaio e muniti del sigillo di qualche persona costituita in dignità ecclesiastica, si presti assolutamente da tutti la stessa fede; che si presterebbe alla presente, se fosse esibita o mostrata.



A nessuno dunque sia lecito infrangere questa Nostra dichiarazione, proclamazione e definizione, o ad essa opporsi e contravvenire. Se alcuno invece ardisse di tentarlo, sappia che incorrerà nell'indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo.


Dato a Roma, presso S. Pietro, nell'anno del massimo giubileo 1950, 1° novembre, festa di tutti i santi, nell'anno dodicesimo del Nostro pontificato.


Noi PIO, vescovo della chiesa cattolica,
così definendo abbiamo sottoscritto

Il segno e significato dell'Assunzione di Maria


venerdì 14 agosto 2009

di Salvatore Perrella

L'attuale concezione del mondo è fortemente contrassegnata dalla dimensione escatologica, perché si vuole edificare, costruire un futuro che dia un senso globale all'esistenza umana. La cultura contemporanea, nonostante fenomeni contraddittori frutto della posterità nichilista e relativista, è anche contraddistinta da un pressante interrogativo escatologico, come osservava sin dal 1977 A. Giudici: "Essendo ogni giorno sempre più possibile modificare il futuro, esso è diventato un problema e una domanda. Questa domanda è al centro della cultura, dell'autocomprensione dell'uomo e costituisce oggi la domanda ultima o religiosa". Il nostro tempo tecnologizzato e sempre più globalizzato nei suoi interessi ma anche aporie economiche e sociali è quindi caratterizzato, da un lato, dall'angoscia della mancanza di significato e dall'altro dal profondo bisogno di avere risposte sul senso globale del futuro. L'ambito in cui è possibile trovare pareri cogenti e convincenti è quello della trascendenza dell'uomo, ossia il luogo dove l'uomo, uscendo dalla propria angoscia - lo ricorda Benedetto XVI nella Spe salvi - si apre a Qualcuno che sta oltre lui stesso e la sua storia.
A un'analisi superficiale potrebbe anche sfuggire l'esigenza di un senso totale della vita presente nel nostro convulso periodo storico, così contraddittoriamente immerso nel presentismo, nel passatismo, nel terrenismo, nel consumismo esasperato, cioè nelle forme mutevoli del nichilismo, con le tragiche conseguenze della degradazione umana e della violenza o della indifferenza verso la persona umana.
Ma volendo indagare in modo più serio, minuzioso, attento e radicale su alcuni fenomeni diffusi sul mondo d'oggi (come la mistica orientale, le pratiche yoga, lo spiritismo, il satanismo, la parapsicologia, la droga, la new age con i suoi instabili ma continui derivati), non si può non avvertire ch'essi denunciano in qualche modo, magari oscuro e confuso, l'enorme insoddisfazione dell'uomo e della donna contemporanei.
I suddetti fenomeni denotano in qualche modo l'attesa spasmodica di qualcosa che rompa le barriere del mondo materiale; che forzi "la prigione del terrenismo", per aprirsi a prospettive esaltanti quali la dimensione spirituale dell'esistenza, estesa oltre i limiti angusti della semplice sfera sensibile della vita, per trovare un senso totale e trascendente alla vita umana, per soddisfare il bisogno insopprimibile e urgente di natura escatologica sempre più presente.
Dinanzi all'enigma-mistero della morte, l'unico "caso serio" indilazionabile e inesorabile, sorgente perenne di indagini, di tristezze e di paure, il discepolo del Crocifisso-Risorto non è nel buio completo, anzi, per essere in linea colla fede che professa, "deve comunicare le conoscenze che ha della morte, poiché in tal caso può portare agli uomini una buona novella.
Questo dovere di carità gli si impone con maggiore urgenza ai nostri giorni, nei quali molti dei nostri contemporanei ignorano il messaggio di Cristo risuscitato e cercano di esorcizzare la paura della morte ricorrendo a quelle che san Paolo chiamava "vane filosofie" (F. X. Durrwell).
Purtroppo anche nel popolo cristiano si osserva un certo disorientamento riguardo alla materia escatologica, oltre che una certa conflittualità connotante la vita di tanti fedeli. Da un lato il credente sembra rinunciare a riflettere sul "dopo la morte" per paura di dover rispondere ad alcuni permanenti interrogativi: esiste qualcosa al di là della morte? sussiste qualche cosa di noi stessi dopo questa morte? non sarà il nulla che ci attende?
A nostro conforto risponde, ancora una volta, l'insegnamento della Chiesa che interpella e motiva la fede e la speranza: "Per il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un andare verso di lui ed entrare nella vita eterna". Per cui "vivere in cielo è "essere con Cristo". Gli eletti vivono "in lui", ma conservando la loro vera identità, il loro proprio nome".
E, aggiunge ancora la Chiesa: "Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione".
Questi brani del catechismo, esprimenti la fede, rimandano il credente a fidarsi completamente all'amore di Dio, il quale mai si separerà da noi; Egli è, infatti, irrimediabilmente versato alla comunione.
Perciò, scrive san Paolo: "Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui". Qui sta la novità radicale ed essenziale della morte cristiana.
D'altro canto il cristiano degli ultimi anni del secolo xx e dei primi del xxi ravvisa l'urgenza di avere chiare risposte in questa materia, per dare un senso a tutta la sua vita; un'esistenza credente, se è vera, consapevole e consequenziale, è fondata sulla speranza escatologico-evangelica, cioè sulla certezza della vita eterna.
Speranza che si radica nella fede nella risurrezione di Gesù Cristo, "veramente risorto dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti". La morte non è più la stessa dopo che Gesù l'ha affrontata, attraversata e vinta; il credente non deve né dimenticare né minimizzare le parole del Risorto: "Io sono la resurrezione e la vita. Chi vive e crede in me, anche se morto vivrà".
Il Nuovo Testamento completa queste essenziali affermazioni sulla resurrezione di Gesù parlando del fatto che "egli è vivo", sta alla "destra" di Dio; "entrò" o "fu assunto nella gloria". L'affermazione primaria del Nuovo Testamento riguarda comunque il destino vivente e glorioso di Gesù dopo la morte.
Credere che Cristo è risorto dai morti ed ora e nei secoli è, rimane, e sarà sempre il "Vivente", oltre a impegnare nella vita di ogni giorno a rendere conto della speranza che è in noi, ci obbliga a rendere testimonianza sulla realtà e dono escatologico da lui ricevuto per puro dono mediante la fede. Cristo è il "nostro futuro eterno": da sempre la Chiesa, seppur con modi e mezzi diversi, proclama questa ferma speranza.
Rimane innegabile, a livello teologico, teologale ed esistenziale, il grande richiamo e il grande fascino dell'evento dell'Assunta ai valori della trascendenza, della bellezza e della trasfigurazione dell'uomo creato a immagine di Cristo e destinato a ricongiungersi eternamente a lui nella santità e nell'amore che non conosce tentennamenti e tramonto.
Possiamo ben dire che l'assunzione di Maria è per la Chiesa, il credente e per ogni uomo e ogni donna di buona volontà, che cercano senso e meta non illusori ma definitivi, dopo aver per molto tempo e ancor oggi "sperato nel tragico nulla": - un segno di sicura speranza - un segno di un destino di gloria; - un segno del valore del corpo; - un segno dell'inconfondibile "stile" di Dio; - la primizia ed immagine escatologica della Chiesa; - il segno della presenza dell'Unitrino e della Donna della Speranza che non svanisce.
Il fatto e il "caso serio" dell'assunzione di Maria è un fatto emblematico dell'agire divino: Santa Maria, creatura insignificante agli occhi del mondo, è divenuta per Grazia la persona dopo Cristo più significativa nella storia e nella gloria. Per cui l'evento salvifico integrale della sua assunzione al cielo in anima e corpo, in definitiva, diviene chiave interpretativa di tutto il mistero di Maria, e, per complementare reciprocità, dell'intero mistero della Chiesa, nonché del mistero dell'uomo
.
È su questo tenue ma resistente residuo di speranza che trova il suo punto di contatto il nostro discorso cristiano sul futuro ultimo in Dio, impersonato in una donna, Maria di Nazaret, la cui esistenza gloriosa dalla soglia escatologica si fa modello, esempio e paradigma di vita per l'"oggi" della Chiesa e del mondo.
Cristo è veramente risorto; egli è il Vivente, che elargisce a ogni creatura il dono della risurrezione per la vita eterna. L'Assunta è il compimento anticipato di tale promessa; è "il segno della trasformazione finale del mondo" (A. Carr). Maria già possiede "lo splendore dei corpi celesti".

(©L'Osservatore Romano - 15 agosto 2009)

martedì 11 agosto 2009

Santa Chiara di Assisi - La pianticella di Francesco


La pianticella di Francesco

Chiara nasce in Assisi nel 1194. Dicono che la sua famiglia fosse di quelle tra le più nobili e che sua madre, Ortolana, prossima a partorire, pregasse intensamente il Signore perché la salvasse dai pericoli del parto. E una voce la rassicurò: non temere, darai al mondo una luce che aggiungerà chiarore alla luce stessa, Illuminata da questa profezia, volle che la bimba si chiamasse Chiara.
Il padre era Favarone di Offreduccio e morì quando Chiara era ancora bambina. Aveva anche due sorelle: Beatrice e Caterina.
La premature morte del padre, la fuga a Perugia e alcune difficoltà economiche contribuirono a formare in Chiara un carattere deciso e temprato. Tutto le sarebbe stato necessario per la vita evangelica nella quale sarebbe entrata più tardi.
Se la giovinezza di Francesco fu piuttosto movimentata, quella di Chiara invece fu condotta in modo lineare e trasparente.
A soli 13 anni volle far pervenire degli aiuti a dei poveri che lavoravano per restaurare la chiesetta della Poziuncola, forse senza sapere che Francesco stava con loro. Quell’elemosina poté essere il primo anello dell’accostamento decisivo tra Francesco e Chiara.
Nel 1211 i parenti stavano per programmare il suo matrimonio, ma la giovane non acconsentì: in questo suo gesto risoluto non possiamo escludere una sua ricerca attiva per situarsi nel mondo in una forma particolare.
Le cose cominciarono a prendere una direzione diversa quando Francesco irruppe nella vita di Chiara. O meglio era Chiara ad essere attratta da Francesco e dal suo stile di vita, e desiderava stare con lui frequentemente.
Secondo la sua amica Bona di Guelfuccio, che l’accompagnava spesso, il tema di quegli incontri era la maniera di vivere la sequela di Cristo.
La notte della domenica della Palme, 18 marzo 1212, Chiara uscì di casa per andare alla Porziuncola dove, dopo una breve preghiera, si consacrò a Dio con il taglio dei capelli.
Notte decisiva e che lascia il segno nella vita di una donna che si orientava in maniera definitiva e irrevocabile all’avventura evangelica.
La reazione dei parenti non si fece aspettare: irruppero nel monastero di San Paolo di Bastia, dove Francesco l’aveva condotta dopo quella notte. Non ottennero il loro scopo, perché Chiara si era assoggettata al diritto ecclesiastico facendosi tonsurare. Poche settimane dopo anche la sorella Caterina la raggiunse, volendo porsi senza riserve al servizio di Dio. Il padre Francesco, di sua mano, le tagliò i capelli consacrandola al Signore con il nuovo nome di Agnese e preparò per loro una specie di alloggio annesso alla chiesetta di San Damiano.
Dopo Agnese vennero Pacifica, Balvina, Filippa e Bonaventura…
Francesco scrisse per Chiara e le sue sorelle una forma di vita indicando la povertà come scelta prioritaria.
Nel 1216, volendo che la sua famiglia religiosa si nominasse con il nome della povertà, Chiara chiese al papa Innocenzo III il Privilegio della povertà, cioè il privilegio di non possedere nulla.
La lotta per la povertà è stato senza dubbio ciò che maggiormente ha caratterizzato la vita di Chiara e delle sue sorelle.
Chiara per anni e anni fu un’ammalata cronica. Dal suo povero giaciglio fui l’anima di San Damiano e del centinaio di monasteri che Dio aveva fatto via via germogliare prodigiosamente da quel seme primitivo: più di sessanta in Italia e una quarantina nelle altre nazioni europee.
Gli stessi frati più fedeli all’ideale puro di Francesco, orfani ormai di padre e sottoposti al susseguirsi ad una fase di grande crisi istituzionale, andavano a visitarla per cercare in lei chiarezza e forza.
Morì l’11 agosto 1253 lodando il Signore con le parole “Sii benedetto, Tu che mi hai creata”.
Due anni dopo, 1255, papa Alessandro IV la proclamò santa.
Prima di essere collocata nell’attuale basilica a lei dedicata, fu sepolta in Assisi nella chiesa di san Giorgio dove, per alcuni anni, era stato deposto il corpo di San Francesco.

(fonte: http://www.sanfrancescoassisi.org/SANFRA_CHIARA.htm)

lunedì 10 agosto 2009

RU486 - Bisogna chiamare le cose con il loro nome.


RU486/ L'aborto facile che seppellisce il femminismo nella società delle scappatoie.




lunedì 3 agosto 2009


In Italia diventa possibile l’aborto chimico, e questo genera preoccupazione certo per il fatto in sé; ma c’è altro ed è questo “altro” che bisogna finalmente affrontare. Già, perché magari saremo miopi, ma ci sembra che si discuta - e tanto -sulle forme per ottenere l’aborto, e non si discute - se non marginalmente - su come evitarlo. Perché?

Dite quante pagine di giornali avete visto che tendono a spiegare la realtà dell’interruzione di gravidanza, nel senso dell’inoppugnabile arresto della vita di un bambino non ancora nato, cui spesso (almeno dalla 7°-8° settimana) già batte il cuore. Dite quante risorse sono spese per valorizzare attività come quelle dei Centri di Aiuto alla Vita, o, se non piacessero per qualche motivo come sono organizzati, per crearne altri con modalità alternative.

Questo è il vero dramma, e guardate quanti esempi analoghi! Si discute tanto su come e se permettere le decisioni su come finire la vita dei malati, ma si discute poco su come rendere la vita di chi soffre meno faticosa. Si discute tanto su come e se liberalizzare la droga, ma pochissimo sui motivi che portano tantissimi giovani a drogarsi. Pagine e pagine sono dedicate a come arginare l’alcolismo soprattutto tra gli adolescenti, ma nulla su come superare il disagio giovanile. Fiumi di inchiostro per la diffusione di anticoncezionali, ma nemmeno una pagina su come permettere di fare tanti figli. Perché?

Probabilmente perché la nostra è una società delle scappatoie, in cui la parola d’ordine è che chi ha un problema deve essere aiutato a schivarlo, sfuggirlo, nasconderlo, censurarlo ma non a vincerlo, perché per vincere un problema bisogna chiamarlo per nome e per far questo bisogna avere la certezza che esiste da qualche parte una verità e una risposta. Probabilmente tra poco diventerà reato quello del poliziotto o del pompiere che cercherà di dissuadere una persona dal suicidio, perché – si dirà – è una libera scelta del fidanzato deluso che si sporge dal ponte o della ragazza che si avvelena.

Bisogna riprendere a chiamare le cose col loro nome, a chiamare “bambino” un bambino anche se ancora non è nato. E a trattarlo di conseguenza. E’ uno sforzo educativo di rispetto alla verità, che deve iniziare dai banchi di scuola, e che invece trova spesso o il silenzio o il “panem et circenses”, cioè la parola d’ordine imperante oggi: “spassatela!”. Che poi vale solo per chi può permetterselo: non per chi è povero, né per chi è malato o disabile. Né per chi vive il dramma del divorzio (che in TV sembra troppo spesso una passeggiata) o di un figlio drogato o di un parente malato.

Arriva l’aborto chimico, mentre stiamo raccogliendo una petizione di firme per l’attuazione di leggi già esistenti per permettere – come già possibile in Francia - che la donna che ha un aborto (spontaneo o no) possa avere le spoglie del bambino, seppellirlo, dargli un nome, per poter avere il diritto di elaborare il lutto. Se lo vuole. Non ci sembra di chiedere tanto, e tantissime donne, con associazioni di medici e genitori (“La Quercia Millenaria”, “Ciao Lapo”, “Come-Te Contro l’Handifobia”, “Giovanni XXIII”) reclamano questo diritto. Per inciso, ricordo che si può aderire online al sito: http://firmiamo.it/sepolture .

Dunque si tratta di educare a non fuggire, di chiamare le cose col loro nome e mostrare come sia più bello, anche se apparentemente più duro, affermare la vita, cioè usare la ragione, dare i giusti nomi alle cose; per non avere traumi peggiori di quelli che si vorrebbero evitare.

“La cultura dominante di oggi – scriveva Luigi Giussani - ha rinunciato alla ragione come conoscenza. L’uomo non accetta la realtà come appare, e vuole inventarla come vuole lui, vuole definirla come vuole lui, vuole darle il volto che vuole” (Realtà e giovinezza- La sfida, 1995).

Ma la realtà è testarda e mostra il suo volto duro anche quando lo si vuole ignorare o ridipingere artificialmente. E la realtà è che le donne che abortiscono volontariamente hanno rischi di disagi psicologici (Nursing Times, 13 gennaio 2009) e disagi addirittura maggiori di quelle che perdono il figlio non volontariamente (BMC Medicine, 15 dicembre 2005); e, paradosso, questi rischi non sono minori di quelli che si hanno se si fa nascere il figlio “non programmato” invece di abortirlo (Lancet 23 agosto 2008).

L’introduzione di una nuova modalità di aborto ci richiama dunque a ritrovare dove sia il vero interesse delle donne, se nell’incontrare una società che di fronte al loro disagio le lascia sole con la sola alternativa dell’aborto (chimico o meccanico che sia), o nello scoprire come un frutto duro da ottenere, ma gustoso, la responsabilità di un nuovo femminismo e un nuovo diritto alla maternità che non deve essere necessariamente – come impone il costume imperante - rimandata ai 30-35 anni con la prospettiva limitata rispetto alle sue attese e possibilità morali del figlio “unico e perfetto”.
Carlo Bellieni

A Maria





O Maria, Vergine potente,

Tu grande illustre presidio della Chiesa;

Tu aiuto meraviglioso dei Cristiani;

Tu terribile come esercito schierato a battaglia;

Tu sola hai distrutto ogni eresia in tutto il mondo;

Tu nelle angustie, nelle lotte, nelle strettezzedifendici dal nemico

e nell'ora della morteaccogli l'anima nostra in Paradiso!

Amen
(San Giovanni Bosco)

venerdì 7 agosto 2009

Qualcuno ci guidava



Non ti pare meraviglioso?
Io non ti conoscevo,
tu ignoravi la mia esistenza.
Pensa; e se le strade della vita
sulle quali noi camminiamo
non si fossero mai incontrate?
Una inezia, un ostacolo qualunque,
e noi saremmo rimasti lontani,
non ci saremmo conosciuti mai.
Sono talmente convinto
che era necessario che noi ci incontrassimo
che questo pensiero mi fa paura.
Dovevamo incontrarci,
perché Qualcuno ci guidava.

(Pieter Van Der Meer)

martedì 4 agosto 2009

Santa Messa in Rito Antico




Ritempriamoci le forze considerando il miracolo di Dio che si fa Cibo di Vita eterna per amore degli uomini...

lunedì 3 agosto 2009

A CHI SERVE LA CROCIATA PER LA RU486








A proposito dell’immissione in commercio della pillola abortiva Ru486, approvata dall’Agenzia del Farmaco, bisogna dire subito una cosa, e dirla chiaramente: si è realizzata un’alleanza stretta tra gli interessi economici di chi la pillola la produce; la posizione ideologica di chi questa pillola la vuole, come ulteriore passo verso una fantomatica liberazione ed autodeterminazione della donna, e la voglia matta di molti medici abortisti che non vedono l’ora di deresponsabilizzarsi di fronte all’intervento di interruzione della gravidanza.Diciamolo meglio: si è trattato di una vera e propria crociata in favore di una pillola che “non offre particolari vantaggi rispetto all’alternativa chirurgica”, parola di Guido Rasi, Direttore generale dell’Agenzia che ha adottato il provvedimento. La pillola, stando al Rasi, rappresenta solo un’opzione per quelle donne che non possono sopportare un’anestesia.E’ noto come questo piccolo, limitatissimo vantaggio, va a scontrarsi contro una serie di controindicazioni:Questa pillola fa male, come ammette a denti stretti la stessa casa produttrice, e pare che abbia già provocato la morte di 29 donne.Questa pillola contravviene alla stessa legge 194, che vuole che l’aborto venga espletato in ospedale. Rasi sostiene che la Ru846 dovrà essere usata solo all’interno di quanto previsto dalla 194, quindi che la donna non potrà andare a completare l’aborto a casa sua, ma che sarà dimessa dall’ospedale solo ad aborto avvenuto. Ed ammette che “non è un vantaggio dal lato economico”. L’ospedalizzazione costa, e la degenza di almeno quattro giorni sarà a carico dei contribuenti. In altre parole, l’aborto con la pillola costerà allo comunità più dell’aborto chirurgico.Come spiega Assuntina Morresi, “i farmaci che si utilizzano per l’aborto medico – Ru486 e prostaglandina – possono essere teratogeni, cioè causare malformazioni all’embrione che sopravvivesse all’aborto. Poiché la procedura abortiva dura almeno quindici giorni, può succedere – sono fatti già accaduti e documentati – che in questo lungo periodo di tempo la donna ci ripensi, soprattutto quando la procedura fallisce e dopo quindici giorni l’embrione è ancora vivo, e decida di continuare la gravidanza. A quel punto, però, se ci ripensa corre il rischio di avere un figlio malformato. Per evitare questo, l’unica possibilità è ricorrere all’aborto chirurgico”. Un circolo vizioso, come si vede.A fronte di queste indiscutibili verità, fa veramente tristezza la dichiarazione rilasciata dalla cattolica adulta Livia Turco, che si è data molto da fare, al tempo dello sciagurato governo Prodi, per giungere a questo risultato: «Finalmente anche nel nostro paese si rispettano i ruoli della politica che fa la sua parte, e gli organismi tecnico scientifici che fanno la loro. Sono contenta di poter rivendicare di aver dato da ministro della Sanità il mio contributo al raggiungimento di questo risultato. Spero che adesso finisca la crociata contro un farmaco che in realtà era una crociata contro le donne e i medici».E’ evidente, invece, che la crociata l’ha fatta lei e quelli come lei e che l’Italia poteva fare benissimo a meno della pillola Ru486. Di più: con l’immissione in commercio di questa pillola non si fa altro che dare un ulteriore incentivo alla pratica abortiva, sia a livello di cultura e di mentalità diffusa, sia a livello di opportunità pratica. Si sta cercando di far diventare l’aborto un fatto del tutto privato, una questione esclusiva della donna che se la vede da sola col proprio corpo e col proprio feto. Il medico non s’insanguinerà più le mani, si limiterà a prescrivere una pillola. Il resto toccherà alla donna, nella triste solitudine della propria camera.Il vincolare l’utilizzo del farmaco a quanto previsto dalla 194 è solo un modo per aggirare momentaneamente l’ostacolo, pur di introdurre in commercio la pillola. Non ci facciamo illusioni: è sempre la Morresi a ricordare che “in Emilia Romagna l’aborto medico, praticato dal 2005 importando direttamente dalla Francia la Ru486, avviene in regime di day hospital, e dall’ultima relazione al parlamento risulta che solo una donna su 563 è stata ricoverata in regime ordinario, nel 2007, con questa procedura abortiva”. Insomma, sono già quattro anni che in Italia le donne vanno in ospedale solo per assumere la pillola e poi abortiscono a casa loro. Questo perché quella pillola è nata con l’obiettivo di diffondere una specie di “aborto fai da te”. Non si vede perché in Italia debbano aver successo le complicazioni escogitate dall’Aifa.Nessun vantaggio concreto, dunque, anzi, molti svantaggi. Almeno per le donne (che non sono affatto sicure con questo farmaco) e per il contribuente, che continua a finanziare, contro coscienza, un sempre più oneroso ricorso all’aborto. E questo senza nemmeno toccare l’aspetto etico della questione.

Complimenti!




Gianluca Zappa