venerdì 26 febbraio 2010

“Il padrone del mondo” di R. H. Benson


Un libro del 1907 che sembra parlare di oggi.

Comunicazioni istantanee in tutto il mondo, con autostrade a quattro corsie e trasporti aerei e sotterranei. Un unico Parlamento europeo. Le minacce di attentati politici e di una guerra mondiale tra Occidente e Oriente, con ordigni che da soli possono distruggere in un colpo solo un’intera città. Eutanasia legalizzata e assistita. E poi la crisi delle religioni, sotto l’avanzare di una nuova filantropia universale somigliante alla New Age. Sacerdoti e credenti che abiurano sempre più numerosi la propria fede cristiana, mentre un nuovo ordine di consacrati tenta di contrastare questo processo andando in missione per il mondo senza divise né distintivi. La graduale affermazione di una sorta di “Grande Fratello” intenzionato a governare su scala mondiale. Tutto questo – e altro ancora – costituisce l’ambiente in cui si sviluppa la storia raccontata ne Il padrone del mondo dell’inglese Robert Hugh Benson.

Ci si può chiedere: che c’è di strano? Si tratta davvero di cose assolutamente nuove? Ovviamente no: molto di ciò che vi viene descritto fa già parte – pur manifestandosi in modi e misure leggermente diversi – del mondo in cui viviamo.


Il fatto davvero sorprendente è che un simile romanzo sia stato scritto nel 1907, quando cioè era quasi impossibile prevedere la comparsa di simili fenomeni esattamente 100 anni dopo.

Ma, si sa, a volte le riflessioni di alcuni intellettuali geniali acquistano un valore quasi profetico.

Leggere oggi Il padrone del mondo può quindi risultare davvero interessante:
davanti al susseguirsi dei fatti narrati, e all’ideologia che li determina, si può cogliere una grande affinità con il “pensare comune” che ritroviamo oggi in molti discorsi pubblici e privati, come anche in tanti progetti sociali mossi in apparenza da un giusto desiderio di promuovere il bene dell’umanità. Nel racconto, infatti, si vedono personaggi che inseguono con estrema radicalità la perfezione totale di sé e della propria società. Ma pure che, ritenendosi padroni assoluti della propria vita, pretendono di decidere da sé cosa sia bene e cosa sia male, rifiutando per questo ogni ipotesi di un Dio creatore. Tra loro l’esoterismo dilaga, e favorisce la nascita di un nuovo culto: svuotate le chiese, si impone la religione del cuore. Ora non è più Dio al centro dell’esistenza, ma l’umanità: l’unica vera divinità diventa così l’uomo che cammina nella storia, morendo e risorgendo attraverso ogni nuovo nato, in un flusso continuo di vita anonima e impersonale. In tutto il mondo si afferma, insomma, un nuovo tipo di ordine sociale, fatto di democratica filantropia, di materialismo e di fede assoluta nel mito del progresso scientifico e tecnologico. Ammaliante, ma anche subdolo: perché intanto aleggia su tutti la misteriosa figura di Giuliano Felsemburgh, un uomo politico di eccezionale abilità che sa riscuotere straordinari successi in tutto il mondo, accumulando gradualmente nelle proprie mani ogni potere. Idealizzato e mai completamente conosciuto, egli incarna la figura dell’uomo perfetto, l’autentico “Figlio dell’Uomo” che viene a realizzare la “Gerusalemme terrestre”. È lui che, attraverso un progetto politico ambizioso e raffinato, sembra saper fare del mondo un unico grande paese, perfettamente pacificato e governato, dove in nome della fratellanza universale si vuole (se necessario, anche con la forza delle armi) superare ogni religione del passato per istituire la nuova, definitiva religione umanitaria.
Prima di riuscire a fare questo, però, gli resterà un ultimo ostacolo: la Chiesa Cattolica, che anche dopo la distruzione di Roma insiste – grazie alla comunione tra il Papa rifugiatosi a Nazaret e i pochissimi cristiani rimasti nel mondo – nel mantenere viva fino all’ultimo la fede in Gesù Cristo.

......Secondo voi, chi vincerà?

giovedì 25 febbraio 2010

Conversione... quaresimale.


Meditazione per la Quaresima


"Conversione è andare controcorrente, dove la 'corrente' è lo stile di vita superficiale, incoerente e illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Gesù Cristo.

Cristo è dunque la meta finale e il senso profondo della conversione. E' Lui la via sulla quale tutti sono chiamati a camminare nella vita, lasciandosi illuminare dalla sua luce. In tal modo la conversione manifesta il suo volto più splendido e affascinante:

Non è una semplice decisione morale, che rettifica la nostra condotta di vita, ma è una scelta di fede, che ci coinvolge interamente nella comunione intima con la persona viva e concreta di Gesù. Convertirsi e credere al Vangelo non sono due cose diverse o in qualche modo soltanto
accostate tra loro, ma esprimono la medesima realtà".
(Benedetto XVI)

Il Papa in Portogallo



(Nella foto: S.Messa celebrata a Fatima)

Benedetto XVI dall'11 al 14 maggio si recherà in Portogallo, visitando Lisbona, Porto e il santuario mariano di Fatima. Si tratta del quinto viaggio di un papa a Fatima, dopo i passaggi di Paolo VI nel 1967 e di Giovanni Paolo II nel 1982, 1991, e 2000 cui si riferiscono queste immagini. Nell'anno Duemila Giovanni Paolo II si recò a Fatima per la beatificazione di Giacinta e Francesco, pastorelli di Fatima destinatari delle apparizioni della Madonna. In quell'occasione venne svelato il terzo mistero e nell'omelia della messa il Papa disse che il messaggio di Fatima è un richiamo alla conversione, facendo appello all'umanità affinché non stia al gioco del "drago" dell'Apocalisse. L'ultima meta dell'uomo disse il Papa, è il Cielo, sua vera casa, dove il Padre Celeste, nel Suo Amore Misericordioso, è in attesa di tutti.

lunedì 22 febbraio 2010

LA SCALA DI SAN GIUSEPPE






Suor M.Florian, della Comunità di Loreto "Nostra Signore della Luce, racconta quanto accaduto nel 1873 a Santa Fe (Nuovo Messico).



Le nostre suore avevano deciso di far costruire da carpentieri messicani una cappella simile all "Sainte Chapelle" di Parigi. Nel giro di 5 anni, l’edificio fu eretto secondo i disegni dell’architetto P.Mouly. La cappella aveva una lunghezza di m.22,5, era larga m.7,5 ed alta m.22,5.

Il fabbricato era quasi finito, quando si constatò uno spaventoso errore di costruzione. La cappella era molto bella e anche la galleria nella parete retrostante, però non esisteva un modo per salire. Era stata dimenticata la scala!

Furono interpellati diversi specialisti, ma tutti davano la stessa risposta. non c’era nulla da fare, lo spazio non era sufficiente. C’era una sola alternativa: una scala a pioli oppure ricostruire l’intera galleria.

Si può immaginare la delusione e la perplessità delle suore. Come donne di profonda fede, decisero di non fare nulla sul momento, ma di iniziare una novena a San Giuseppe e aspettare l’aiuto della Divina Provvidenza.

L’ultimo giorno della novena, un uomo dai capelli grigi, con un asino carico di cassetta di attrezzi, bussò alla porta dell’Istituto e chiese di parlare con Suor Maddalena, la superiora di allora. Egli metteva a disposizione il suo lavoro per la costruzione della scala. La madre superiore ne fu felicissima.

Secondo la testimonianza delle suore che ogni tanto assistevano ai lavori, per la sua opera lo strano carpentiere si serviva soltanto di una sega, un goniometro e un martello. Al posto dei chiodi usava cavicchi. Le suore ricordano anche di aver visto alcuni secchi d’acqua nei quali immergeva pezzi di legno.

Alla fine dei lavori eseguiti con successo, madre Maddalena volle pagare lo sconosciuto artigiano, ma non lo si trovò più. Anche tutte le indagini fatte nell’ambito del commercio ligneo della zona furono vane. Non esisteva alcuna fattura per il legno usato.

La scala è una costruzione di 36 scalini che girano in due spirali di 360 gradi esatti; il tutto senza alcun sostegno centrale. Essa conduce dalla galleria fino al pavimento che la sostiene.

Secondo alcune testimonianze quando si usa la scala si sente una certa elasticità, che si manifesta con una leggera oscillazione come fosse, per esempio, una enorme molla. Nel giro di anni, molti architetti e costruttori venuti anche dall’estero hanno visitato questo capolavoro. Tutti hanno dimostrato grande stupore per il fatto che la scala non sia crollata. Eppure funziona da 120 anni e viene usata tutti i giorni, il legno manifesta una grande solidità e di certo non proviene dal Nuovo Messico. Finora la sua origine non si è potuta verificare.

E’ possibile che San Giuseppe sia stato il costruttore? Senza sostenere una tale ipotesi, le suore sono convinte che la scala è la risposta alla preghiera fiduciosa da loro rivolta al glorioso sposo della "Nostra cara Signora".

fonte: "Le tre caravelle"


Il Santo Rosario e la bomba atomica di Hiroshima



Su Hiroshima è caduta una bomba atomica.
Lo scopo era di annientare Hiroshima per distruggere il potere militare giapponese.
Ma la Madonna, la Regina del Rosario, ha protetto miracolosamente una piccola comunità di quattro padri gesuiti, che vivevano nella casa parrocchiale, a soltanto otto isolati dal centro dell’esplosione. Padre Hubert Schiffer aveva 30 anni elavorava nella parrocchia dell’Assunzione di Maria, a Hiroshima. Ha dato la sua testimonianza davanti a decine di migliaia di persone: “Attorno a me c’era soltanto una luce abbagliante. Tutto a un tratto, tutto si riempì istantaneamente da una esplosione terribile. Sono stato scaraventato nell’aria. Poi si è fatto tutto buio, silenzio, niente. Mi sono trovato su una trave di legno spaccata, con la faccia verso il
basso. Il sangue scorreva sulla guancia. Non ho visto niente, non ho sentito niente. Ho creduto di essere morto. Poi ho sentito la mia propria voce. Questo è stato il più terribile di tutti quegli eventi. Mi ha fatto capire che ero ancora vivo e ho cominciato a rendermi conto che c’era stata una terribile catastrofe! Per un giorno intero i miei tre confratelli ed io siamo stati in questo inferno di fuoco, di fumo e radiazioni, finché siamo stati trovati ed aiutati da soccorritori. Tutti eravamo feriti, ma con la grazia di Dio siamo sopravvissuti”.
Nessuno sa spiegare con logica umana, perché questi quattro padri gesuiti furono i soli sopravvissuti entro un raggio di 1.500 metri. Per tutti gli esperti rimane un enigma, perché nessuno dei quattro padri è rimasto contaminato dalla radiazione atomica, e perché la loro casa, la casa parrocchiale, era ancora in piedi, mentre tutte le altre case intorno erano state distrutte e bruciate. Anche i 200 medici americani e giapponesi che, secondo le loro stesse testimonianze,
hanno esaminato padre Schiffer, non hanno trovato nessuna spiegazione a perché mai, dopo 33 anni dallo scoppio, il padre non soffriva nessuna conseguenza dell’esplosione atomica e continuava a vivere in buona salute. Perplessi, hanno avuto tutti sempre la stessa risposta alle tante loro domande: “Come missionari abbiamo voluto vivere nel nostro paese il messaggio della Madonna di Fatima e perciò abbiamo pregato tutti i giorni il Rosario.” Ecco il messaggio pieno di speranza di Hiroshima: La preghiera del Rosario è più forte della bomba atomica! Oggi, nel centro della città ricostruita di Hiroshima, si trova una chiesa dedicata alla Madonna. Le 15 vetrate mostrano i 15 misteri del Rosario, che si prega in questa chiesa giorno e notte.


Un altro racconto di padre Schiffer aggiunge che avevano appena finito di dire Messa, e si erano recati a fare colazione, quando la bomba cadde:
"Improvvisamente, una terrificante esplosione riempì l'aria come di una tempesta di fuoco. Una forza invisibile mi tolse dalla sedia, mi scagliò attraverso l'aria, mi sbalzò, mi buttò, mi fece volteggiare come una foglia in una raffica di vento d'autunno." Quando riaprì gli occhi, egli, guardandosi intorno, vide che non vi erano più edifici in piedi, fatta eccezione per la casa parrocchiale. Tutti gli altri in un raggio di circa 1,5 chilometri, si racconta, morirono immediatamente, e quelli più distanti morirono in pochi giorni per le radiazioni gamma. Tuttavia, il solo danno fisico che padre Schiffer accusò, fu quello di sentire alcuni pezzi di vetro dietro il collo. Dopo la resa del Giappone, i medici dell’esercito americano gli spiegarono che il suo corpo avrebbe potuto iniziare a deteriorarsi a causa delle radiazioni. Con stupore dei medici, il corpo di padre Schiffer sembrava non contenere radiazioni o effetti dannosi della bomba. In realtà, egli visse per altri 33 anni in buona salute, e partecipò al Congresso Eucaristico tenutosi a Philadelphia nel 1976. In quella data, tutti gli otto membri della comunità dei Gesuiti di Hiroshima erano ancora in vita. Questi sono i nomi degli altri sacerdoti gesuiti che sopravvissero all'esplosione: Fr. Hugo Lassalle, Fr. Kleinsorge, Fr. Cieslik.
Un miracolo simile avvenne anche a Nagasaki, dove un convento francescano - "Mugenzai no Sono" ("Giardino dell'Immacolata") - fondato da San Massimiliano Kolbe rimase illeso come a Hiroshima. Dal giorno in cui le bombe caddero, i gesuiti superstiti furono esaminati più di 200 volte dagli scienziati senza giungere ad alcuna conclusione, se non che la sopravvivenza degli otto gesuiti all'esplosione fu un evento inspiegabile per la scienza umana.

Sapevate che nel 1945 il 70% dei cattolici giapponesi viveva a Nagasaki? Era “la città cattolica del Giappone”.


Testimonianza del prof. Hikoka Vanamuri – sopravvissuto di Hiroshima nel 6 agosto 1945 ( tratto da: nelcuoredimaria ): Hikoka Vanamuri, già professore all'Università di Tokio in filosofia, è stato intervistato in occasione del suo pellegrinaggio a Fatima, e così ha risposto: «Non tornerò in Giappone. Dopo anni di studi, dopo anni di meditazione ho compreso che la vita nell'atmosfera viziata di Buddha è rimasta un’inacidita testimonianza storica di paganesimo vociferante e mi sono convertito alla religione cattolica. La decisione l'ho presa dopo lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima. Ero a Hiroshima per una ricerca storica. Lo scoppio della bomba mi trovò in biblioteca. Consultavo un libro portoghese e mi venne sott'occhio l'immagine della Madonna di Fatima. Mi sembra che questa si muovesse, dicesse qualcosa. All'improvviso una luce abbagliante, vivissima mi ferì le pupille. Rimasi impietrito. Era accaduto il cataclisma. Il cielo si era oscurato, una nuvola di polvere bruna aveva coperto la città. La biblioteca bruciava. Gli uomini bruciavano. I bambini bruciavano. L'aria stessa bruciava. Io non avevo portato la minima scalfittura. Il segno del miracolo era evidente. Non riuscivo tuttavia a spiegare quello che era successo. Ma il miracolo ha una spiegazione? Non riuscivo nemmeno a pensare. Solo l'immagine della Madonna di Fatima mi splendeva su tutti i fuochi, sugli incendi, sulla barbarie degli uomini. Senza dubbio ero stato salvato perché portassi la testimonianza della Vergine su tutta la terra. Il dott. Keia Mujnuri, un amico dal quale mi recai quindici giorni dopo stabilì attraverso i raggi X che il mio corpo non aveva sofferto scottature. La barriera del mistero si frantumava. Cominciavo a credere nella bellezza dell'amore. Imparai il catechismo ma sul cuore tenevo l'immagine di Lei, il canto soave di Fatima. Desideravo il Signore per confessarmi, ma lo desideravo per mezzo di Sua Madre».

Tratto da: La Signora di tutti i Popoli - Official Website: www.devrouwe.net

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La grazia indispensabile di sentirsi dire: «Io ti assolvo»


10 febbraio 2010

Abbiamo abbandonato la confessione e ci siamo affidati agli psicologi. Ma chi può restituirmi il senso della vita se non l’incontro con un uomo che ha il potere – lui, peccatore e limitato come tutti noi – di pronunciare le parole più belle del mondo?

di Aldo Trento

Quito, Ecuador, 31 dicembre 2009. Ho ancora alcune ore prima che l’aereo decolli, destinazione Lima, per poi proseguire ad Asunción dove arriverà alle tre del mattino del primo gennaio 2010. Sono in compagnia di padre Alberto, di una famiglia di amici italiani e di alcuni ragazzi del “Gruppo adulto” che vivono a Lima. Sono consacrati e lavorano a un progetto sostenuto dall’Avsi, una onlus italiana.
Mi sono preso alcuni giorni di riposo per passare un po’ di tempo con il mio amico di sempre, padre Alberto. Sono passati più di dieci anni dall’ultima volta in cui abbiamo condiviso due esperienze: l’ultimo dell’anno e il sacramento della confessione. Sia per lui che per me, infatti, era ed è impensabile terminare l’anno senza confessarci. Lo ricordo molto bene: questo gesto sacro è stato all’origine della nostra amicizia, che è stata ciò che ha permesso a questo pover’uomo di rialzarsi dal precipizio psicologico in cui era caduto. Che gesto possiamo compiere più bello di questo, stando in mezzo all’aeroporto, prima di imbarcarci sull’aereo della compagnia Taca che da Lima ci porterà ad Asunción? Mi sono messo in ginocchio e gli ho chiesto di confessarmi. Stessa cosa ha fatto lui, come da vecchia abitudine.
In ginocchio davanti al mio amico e pieno di commozione ho ringraziato il Signore per gli innumerevoli doni che mi ha concesso in questo 2009, e allo stesso tempo gli ho chiesto perdono per la dimenticanza e l’ingratitudine che molte volte mi accompagnano. È stato un momento indimenticabile, come del resto lo è ogni settimana ad Asunción quando, inginocchiandomi davanti al mio confessore e riconoscendo i miei peccati, chiedo la santa assoluzione.
Terminato il sacramento sono salito sull’aereo. Dato che era l’ultimo dell’anno era quasi vuoto. Erano le 19: un cielo terso mi permetteva di godere della vista delle Ande alla mia sinistra e dell’Oceano Pacifico alla destra, mentre il sole al tramonto dava una luce indescrivibile tutt’attorno. Stavo contemplando questo spettacolo e mi sono commosso al punto che ho tirato fuori il breviario e ho pregato la Vergine, e recitato il Magnificat e il Te Deum.

Cento chilometri per un prete
Come non ringraziare il Signore da diecimila metri di altezza, mentre ti guardi attorno e pensi alla tua vita, dedicata a Cristo e a coloro che soffrono 356 giorni all’anno? Viaggio molto commovente. Mi è venuta in mente la confessione celebrata a Quito prima di partire, assieme a tutte quelle volte che ho avuto, nei miei 63 anni di vita, la grazia di potermi riconciliare. Mia madre e il mio parroco mi hanno insegnato a confessarmi ogni settimana, cosa che faccio da quando ho sette anni. Raramente faccio passare più di otto giorni, mi confesso due o tre volte a settimana. E non è sempre stato facile, soprattutto in questi vent’anni vissuti in Paraguay, perché in questo paese è più facile incontrare una mosca bianca che un confessore. Ricordo quante volte ho dovuto fare cento chilometri di strada per trovare un prete, soprattutto nell’entroterra. Però non c’è mai stato un ostacolo tanto grande da impedire il mio desiderio di ascoltare queste parole: «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

La salute secondo san Moscati
Potrei stare senza mangiare, ma non senza riconciliazione. A volte, a causa di certe condizioni geografiche, non ho potuto celebrare la Messa tutti i giorni (raramente, grazie a Dio), però non ho mai trascurato la confessione. La mia vita in questi ultimi vent’anni di missione ha avuto ogni tipo di difficoltà, di dramma, di depressione, ma ciò che mi ha salvato e continua ogni giorno a salvarmi è stato questo sacramento. Dio mio, come vorrei che non solo chi come me soffre di depressione, ma anche quelli che si definiscono normali percepissero la grazia del sentirsi dire: «Io ti assolvo»!
Siamo seri e sinceri, se l’uomo è relazione con il Mistero (cosa più evidente e chiara del fatto che respiro), non esiste niente e nessuno che possa dare all’uomo ciò di cui ha bisogno come il sacramento della confessione. E il confessore. Ho sperimentato giorno per giorno che non sono gli specialisti della medicina a tenermi in piedi, né gli psicofarmaci che mi tolgono il gusto della vita, ma il sentirmi abbracciato dalla tenerezza di Dio che si fa presente durante la riconciliazione.
Che tristezza: abbiamo abbandonato la confessione e il confessionale e ci siamo affidati agli psicologi, passando ore e ore sdraiati nei loro studi, con l’unico risultato che il numero dei depressi e dei malati di mente è in continuo aumento. Chi può restituirmi il senso della vita, il suo significato ultimo, se non l’esperienza dell’incontro con un uomo che ha il potere – lui, peccatore e limitato come tutti noi – di pronunciare le parole più belle del mondo: «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»? Parole divine, che si sono fatte umane al punto che, dopo averle ascoltate, mentre il sacerdote traccia sopra la testa del penitente il segno della croce, uno non dipende più da ciò che ha commesso, fosse anche il peggiore dei delitti, perché è una creatura nuova, relazionata all’Infinito.
Se i santi (vale a dire gli uomini veri) si confessavano spesso, se san Giuseppe Moscati era solito dire ai suoi pazienti: «Io non posso niente per la tua malattia, se prima non ti confessi», è evidente che solo recuperando questo sacramento l’uomo ritrova la salute, perché salute non è altro che la coscienza quando si colma dell’appartenenza al Mistero

Purtroppo anche tra i pastori, i laici impegnati, quelli che parlano sempre di Cristo, la confessione è diventata la cenerentola della vita. E allora come possiamo pensare a una nuova vita, una nuova civilizzazione, quella che Giovanni Paolo II ha definito «la civiltà della verità e dell’amore»? Non esiste possibilità di relazione umana, di amicizia, di matrimonio, se non torniamo a vivere sistematicamente la confessione come sacramento.

La prospettiva che mi ha salvato
L’aereo sta per atterrare a Lima. Che bello rivivere nel silenzio della notte, in quest’ultimo dell’anno, la bellezza di un atto senza il quale la disperazione mi avrebbe mangiato vivo. Anche i medici sono fondamentali, certo, ma se mancano di questa prospettiva umana non fanno altro che riempire chi soffre di pastiglie e di domande, col risultato descritto dalla maggior parte delle e-mail che ricevo.
La fede e la ragione devono camminare una a fianco all’altra. In caso contrario l’uomo sarebbe condannato alla disperazione. In altre parole, tanto la confessione quanto le medicine devono essere strumenti per sperimentare la bellezza dello stare bene. Altrimenti saremmo tutti condannati all’infermità, e non c’è niente di peggio dello smarrire il senso delle cose e la gioia del vivere.

padretrento@rieder.net.py

domenica 21 febbraio 2010

Crocifisso, monito dei governi Ue


20 Febbraio 2010

Crocifisso, monito dei governi Ue:
«La Corte rispetti le tradizioni»

La sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata in novembre contro la presenza del crocifisso nelle scuole si è nuovamente imposta sul tavolo del Consiglio d’Europa nella conferenza che si è conclusa ieri a Interlaken, in Svizzera. La riunione dei rappresentanti dei 47 Paesi del Consiglio è stata convocata per discutere le disfunzioni e una futura riforma della Corte, e la questione del crocifisso nelle aule è sorta a proposito di un paragrafo della dichiarazione finale che poi – grazie all’iniziativa italiana sostenuta anche da Paesi dell’est europeo e dalla Russia – è stato approvato con una formula che «invita» la Corte ad «applicare in modo uniforme e rigoroso i criteri che riguardano l’ammissibilità (dei ricorsi, ndr) e la sua competenza e a tener pienamente conto del proprio ruolo sussidiario nell’interpretazione e nell’applicazione della Convenzione» internazionale dei diritti dell’uomo, a cui aderisce anche l’Ue come a norma del Trattato di Lisbona. L’espressione «ruolo sussidiario» rinvia al criterio di sussidiarietà (incorporato tra l’altro nelle istituzioni dell’Ue) in base al quale ciò che può essere ben realizzato ai livelli periferici non va avocato ai livelli centrali, in questo caso alla Corte di Strasburgo.

Di conseguenza, quando le autorità statali dispongono di tutti gli strumenti necessari ad applicare la Convenzione internazionale – nel rispetto dei diritti dell’uomo e in particolare senza violentare le tradizioni e la cultura del Paese – la questione si risolve a livello nazionale senza che la Corte abbia a pronunciarsi. In questo senso il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica, rappresentante dell’Italia alla conferenza, ha sottolineato che quel passaggio della dichiarazione conferma che «le questioni che toccano da vicino i sentimenti e le tradizioni nazionali devono essere regolamentate a livello nazionale». Mantica ha scelto di non fare riferimenti espliciti alla sentenza sul crocifisso ma altri lo hanno fatto. Per il ministro della Giustizia maltese Carmelo Mifsud Bonnici la Corte «non è abbastanza sensibile» alle «caratteristiche culturali» delle identità nazionali e lo mostra la sentenza «contro l’Italia». Il ministro degli Esteri lituano Maris Riekstins ha dichiarato che la sentenza sulla «presenza obbligatoria del crocifisso nelle scuole» ha mancato di requisiti essenziali di precisione e comprensibilità. Il ricorso contro quella sentenza del 3 novembre si trova ora all’esame di un gruppo di cinque giudici della Corte che dovrebbero pronunciarsi entro il mese prossimo.

Se i cinque constateranno che è in causa l’applicazione della Convenzione internazionale, allora il ricorso passerà all’esame della “Grande Chambre” della Corte per la decisione finale. Il passaggio alla Grande Chambre è stato auspicato ieri da Mantica perché si tratta di decisioni «sui grandi valori dell’Europa» e che quindi «non possono essere demandate a un gruppo ristretto di funzionari». A parte il punto che riguarda la questione del crocifisso, la “Dichiarazione di Interlaken” annuncia l’avvio di una riforma della Corte (sopraffatta dai ricorsi, con circa 120.000 casi in attesa di essere discussi) e auspica che per ridurne l’intasamento i 47 Stati del Consiglio d’Europa rispettino meglio la Convenzione suscitando meno ricorsi.

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martedì 16 febbraio 2010

Sul digiuno e astinenza quaresimale


Sul digiuno e l’astinenza che siamo chiamati a fare in Quaresima ecco cosa dice la CEI:






DECRETO DI PROMULGAZIONE
Prot. n. 662/94
CAMILLO card. RUINI
Vicario Generale di Sua Santità per la diocesi di Roma
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana


...

“1- La legge del digiuno «obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un pò di cibo al mattino e alla sera, attenendosi, per la quantità e la qualità, alle consuetudini locali approvate» (Paenitemini, III; EV 2/647).

2- La legge dell’astinenza proibisce l’uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, a un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi.

3- Il digiuno e l’astinenza, nel senso ora precisate, devono essere osservati il mercoledì delle ceneri (e il primo venerdì di quaresima per il rito ambrosiano) e il venerdì della passione e morte del Signore nostro Gesù Cristo; sono consigliati il sabato santo sino alla veglia pasquale.

4- L’astinenza deve essere osservata in tutti e singoli i venerdì di quaresima, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità (come il 19 e il 25 marzo).
In tutti gli altri venerdì dell’anno, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità, si deve osservare l’astinenza nel senso detto oppure si deve compiere qualche altra opera di penitenza, di preghiera, di carità.
5- Alla legge del digiuno sono tenuti tutti i maggiorenni sino al 60° anno iniziato; alla legge dell’astinenza coloro che hanno compiuto il 14° anno di età.

6- Dall’osservanza dell’obbligo della legge del digiuno e dell’astinenza può scusare una ragione giusta, come ad es. la salute. Inoltre, “il parroco, per una giusta causa e conforme alle disposizioni del vescovo diocesano, può concedere la dispensa dall’obbligo di osservare il giorno di penitenza, oppure commutare in altre opere pie; lo stesso può anche il superiore di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, se sono clericali di diritto pontificio, relativamente ai propri sudditi e agli altri che vivono giorno e notte nella loro casa (can. 1245)”.

(fonte: CEI )

domenica 14 febbraio 2010

MATRIMONIO E UNIONI OMOSESSUALI: NOTA DOTTRINALE


MATRIMONIO E UNIONI OMOSESSUALI:
NOTA DOTTRINALE
del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna


La presente Nota si rivolge in primo luogo ai fedeli perché non siano turbati dai rumori mass-mediatici. Ma oso sperare che sia presa in considerazione anche da chi non-credente intenda fare uso, senza nessun pregiudizio, della propria ragione.

1. Il matrimonio è uno dei beni più preziosi di cui dispone l’umanità. In esso la persona umana trova una delle forme fondamentali della propria realizzazione; ed ogni ordinamento giuridico ha avuto nei suoi confronti un trattamento di favore, ritenendolo di eminente interesse pubblico.
In Occidente l’istituzione matrimoniale sta attraversando forse la sua più grave crisi. Non lo dico in ragione e a causa del numero sempre più elevato dei divorzi e separazioni; non lo dico a causa della fragilità che sembra sempre più minare dall’interno il vincolo coniugale: non lo dico a causa del numero crescente delle libere convivenze. Non lo dico cioè osservando i comportamenti.
La crisi riguarda il giudizio circa il bene del matrimonio. È davanti alla ragione che il matrimonio è entrato in crisi, nel senso che di esso non si ha più la stima adeguata alla misura della sua preziosità. Si è oscurata la visione della sua incomparabile unicità etica.
Il segno più manifesto, anche se non unico, di questa “disistima intellettuale” è il fatto che in alcuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparandole all’unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l’abilitazione all’adozione dei figli.
A prescindere dal numero di coppie che volessero usufruire di questo riconoscimento – fosse anche una sola! – una tale equiparazione costituirebbe una grave ferita al bene comune.
La presente Nota intende aiutare a vedere questo danno. Ed anche intende illuminare quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa.

2. L’equiparazione in qualsiasi forma o grado della unione omosessuale al matrimonio avrebbe obiettivamente il significato di dichiarare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune.
Mentre l’unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene – non solo biologico! – della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l’unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite. Le possibilità offerte oggi dalla procreatica artificiale, oltre a non essere immuni da gravi violazioni della dignità delle persone, non mutano sostanzialmente l’inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita.
Inoltre, è dimostrato che l’assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato da queste coppie. Il fatto avrebbe il profilo della violenza commessa ai danni del più piccolo e debole, inserito come sarebbe in un contesto non adatto al suo armonico sviluppo.
Queste semplici considerazioni dimostrano come lo Stato nel suo ordinamento giuridico non deve essere neutrale di fronte al matrimonio e all’unione omosessuale, poiché non può esserlo di fronte al bene comune: la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio.

3. Un’altra considerazione sottopongo a chi desideri serenamente ragionare su questo problema.
L’equiparazione avrebbe, dapprima nell’ordinamento giuridico e poi nell’ethos del nostro popolo, una conseguenza che non esito definire devastante. Se l’unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, questo sarebbe degradato ad essere uno dei modi possibili di sposarsi, indicando che per lo Stato è indifferente che l’uno faccia una scelta piuttosto che l’altra.
Detto in altri termini, l’equiparazione obiettivamente significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune. E con ciò crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti, ivi compresi quelli così fieramente anticlericali dello Stato sabaudo.

4. Vorrei prendere in considerazione ora alcune ragioni portate a supporto della suddetta equiparazione.
La prima e più comune è che compito primario dello Stato è di togliere nella società ogni discriminazione, e positivamente di estendere il più possibile la sfera dei diritti soggettivi.
Ma la discriminazione consiste nel trattare in modo diseguale coloro che si trovano nella stessa condizione, come dice limpidamente Tommaso d’Aquino riprendendo la grande tradizione etica greca e giuridica romana: «L’uguaglianza che caratterizza la giustizia distributiva consiste nel conferire a persone diverse dei beni differenti in rapporto ai meriti delle persone: di conseguenza se un individuo segue come criterio una qualità della persona per la quale ciò che le viene conferito le è dovuto non si verifica una considerazione della persona ma del titolo» [2,2, q.63, a. 1c].
Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno. La giustizia è la signoria della verità nei rapporti fra le persone.
Si obietta che non equiparando le due forme lo Stato impone una visione etica a preferenza di un’altra visione etica.
L’obbligo dello Stato di non equiparare non trova il suo fondamento nel giudizio eticamente negativo circa il comportamento omosessuale: lo Stato è incompetente al riguardo. Nasce dalla considerazione del fatto che in ordine al bene comune, la cui promozione è compito primario dello Stato, il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, e pertanto il diritto civile deve conferire loro un riconoscimento istituzionale adeguato al loro compito. Non svolgendo un tale ruolo per il bene comune, le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento.
Ovviamente – la cosa non è in questione – i conviventi omosessuali possono sempre ricorrere, come ogni cittadino, al diritto comune per tutelare diritti o interessi nati dalla loro convivenza.
Non prendo in considerazione altre difficoltà, perché non lo meritano: sono luoghi comuni, più che argomenti razionali. Per es. l’accusa di omofobia a chi sostiene l’ingiustizia dell’equiparazione; l’obsoleto richiamo in questo contesto alla laicità dello Stato; l’elevazione di qualsiasi rapporto affettivo a titolo sufficiente per ottenere riconoscimento civile.

5. Mi rivolgo ora al credente che ha responsabilità pubbliche, di qualsiasi genere.
Oltre al dovere con tutti condiviso di promuovere e difendere il bene comune, il credente ha anche il grave dovere di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune. È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono.
Ovviamente la responsabilità più grave è di chi propone l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della suddetta equiparazione, o vota a favore in Parlamento di una tale legge. È questo un atto pubblicamente e gravemente immorale.
Ma esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie.
È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso.

Mi piace concludere rivolgendomi soprattutto ai giovani. Abbiate stima dell’amore coniugale; lasciate che il suo puro splendore appaia alla vostra coscienza. Siate liberi nei vostri pensieri e non lasciatevi imporre il giogo delle pseudo-verità create dalla confusione mass-mediatica. La verità e la preziosità della vostra mascolinità e femminilità non è definita e misurata dalle procedure consensuali e dalle lotte politiche.


Bologna, 14 febbraio 2010
Festa dei Santi Cirillo e Metodio
Compatroni d’Europa

+ Carlo Card. Caffarra
Arcivescovo di Bologna

venerdì 12 febbraio 2010

Quando ho incontrato Dio..





«Quanto cammino ho fatto per cercarti, Signore, nella mia memoria. Dove abiti? Quale cella ti sei apprestata? Quale santuario ti sei edificato? Quando mi sforzavo di ricordarmi di Te, trapassavo tutte quelle ragioni della memoria che ho in comune con le bestie, perché non ti trovavo là dove risiedono le immagini corporee. Allora mi recai a quella parte cui ho affidato le passioni dell'animo mio e nemmeno là ti ho trovato. Penetrai nella sede stessa che il mio spirito ha nella memoria (giacché anche lo spirito si ricorda di se stesso), né Tu vi eri: perché come non sei immagine corporea né affezione del principio che vive in noi come gioia, tristezza, desiderio, timore, reminiscenza, oblio, così neanche sei lo spirito, ma il Signore Dio dello spirito. E infatti tutte queste son cose che non hanno stabilità, mentre Tu resti sopra tutto immutabile; e Ti sei degnato di abitare nella mia memoria da quando Ti conobbi. E ancora continuo a domandare in qual luogo di essa dimori, come se in essa fosse luogo alcuno ! Tu ci abiti di certo, perché Ti ricordo dopo ch'io ti conobbi, e là Ti trovo quando mi sovvengo di Te ». E più oltre: « Dove dunque Ti ho trovato, se non in Te al di sopra di me stesso? E là non v'è spazio né luogo: ci scostiamo senza muovere passo. Tu sei dappertutto, nessun luogo Ti circoscrive e, solo, sei presente a quelli che vanno lontano da Te. Sei nel loro cuore, nel cuore di chi Ti confessa e si abbandona in Te. E dov'ero io quando Ti cercavo? Tu eri dinanzi a me. Io, poi, anche da me stesso mi ero dipartito, e non mi ritrovavo, e tanto meno ritrovavo Te. Tardi Ti ho amato, beltà sì antica e sì nuova, tardi T'ho amato! Tu eri qui dentro di me, e io ero fuori di me e fuori Ti cercavo ; e in queste cose belle che Tu hai fatte mi lanciavo con la mia impurità. Tu eri con me ma io non ero con Te. E che mi teneva lontano da Te? Quelle cose, che, se non fossero in Te, non avrebbero l'essere! Tu mi chiamasti e gridasti forte ed infrangesti la mia sordità».

( S.Agostino )

Signore, mi hai afferrato.


Signore, mi hai afferrato, e non ho potuto resisterTi.
Sono corso a lungo, ma Tu m’inseguivi.
Prendevo vie traverse, ma tu le conoscevi.
Mi hai raggiunto. Mi sono dibattuto.
Hai vinto!
Eccomi, o Signore, ho detto sì, all’estremo del soffio e della lotta, quasi mio malgrado; ed ero là, tremante come un vinto alla mercé del vincitore, quando su di me ha posato il Tuo sguardo di Amore.

Ormai è fatto, Signore, non potrò più scordarTi.
In un attimo mi hai conquistato,in un attimo mi hai afferrato.
I mie dubbi furono spazzati, i miei timori svanirono; perché Ti ho riconosciuto senza vederTi,
Ti ho sentito senza toccarTi, Ti ho compreso senza udirTi.
Segnato dal fuoco del Tuo Amore, ormai è fatto, Signore, non potrò più scordarTi.
Ora, Ti so presente, al mio fianco, ed in pace lavoro sotto il Tuo sguardo di Amore.
Non conosco più lo sforzo di pregare: mi basta alzare gli occhi dell’anima verso di Te per incontrare il Tuo sguardo. E ci comprendiamo. Tutto è chiaro. Tutto è pace.

In certi momenti, grazie o Signore, Tu m’invadi irresistibile, come il mare lentamente inonda la spiaggia; oppure improvvisamente Tu mi afferri, come l’innamorato stringe tra le braccia il suo amore.
E non posso più nulla, bisogna che mi fermi. Sedotto, trattengo il respiro; svanisce il mondo, sospendi il tempo.Vorrei che questi minuti durassero ore…
Quando Ti ritrai, lasciandomi di fuoco e sconvolto da gioia profonda, non ho un’idea di più, ma SO che Tu mi possiedi maggiormente. Alcune mie fibre sono più profondamente toccate, la ferita s’è allargata, e sono un po’ più prigioniero del Tuo Amore.

Signore, Tu crei ancora il vuoto attorno a me, ma in un modo diverso questa volta.
Per il fatto che sei troppo grande ed eclissi ogni cosa. Quello che amavo mi sembra inezia, e sotto il fuoco del Tuo Amore si sciolgono i miei desideri umani come cera al sole.
Che m’importano le cose! Che m’importa il mio benessere! Che m’importa la mia vita!
Non desidero più altro che Te, non voglio più altro che Te.

Lo so, gli altri lo dicono: “È pazzo!”.
Ma, o Signore, lo sono loro.
(Michel Quoist)

giovedì 11 febbraio 2010

Beata Vergine Maria di Lourdes


Beáta es, Virgo María, quæ ómnium portásti creatórem;

genuísti qui te fecit, et in ætérnum pérmanes Virgo.

***

Ave María, gratia plena, Dominus técum;
benedicta tu in muliéribus, et benedictus fructus ventris tui, Iesus.
Sancta María, Mater Dei,
ora pro nobis peccatóribus nunc et in hora mortis nostrae. Amen.

" O Madre mia,
é nel vostro cuore
che io vengo ad affidare le angosce del mio cuore
e attingervi forza e corragio
."

(Santa Bernadette Quaderno di note intime p.28)

martedì 9 febbraio 2010

Capire il Cuore di Gesù



Si dicono tante cose sul cuore di Cristo ! Una sola volta nel Vangelo, Gesù stesso ne parla:

“Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero." (Mt 11,28-31)


Mite e umile di cuore ! Non bisogna fraintendere. Colui che parla è il Signore che dichiara: “TUTTO mi è stato dato dal Padre mio. Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo” (Mt 11,27)
Gesù è dunque cosciente del suo potere; ma anche della sorgente di questo potere, e là sta la sua umiltà. Non nel timore di essere troppo debole, incapace, sopraffatto dagli eventi, ma nella riconoscenza del Padre che gli dà tutto.

Così, la sua mitezza non ha niente a che fare con la svenevolezza o il sentimentalismo.
Essere capace di dire: “Venite TUTTI a Me ” suppone una considerevole capacità di accoglienza e anche una forte coscienza delle sue proprie possibilità: “Io, vi darò ristoro !” In verità, la mitezza di questo cuore è di una forza straordinaria ! Chi dunque sarebbe capace di non escludere nessuno e di promettere ad ognuno il riposo delle sue pene, delle sue angosce più profonde?

Offrire a ciascuno un giogo “facile da portare” suppone una precisa conoscenza dell’altro, un gran rispetto per le sue forze e le sue debolezze. Quelli che hanno vissuto o viaggiato in Oriente si ricorderanno di aver visto quei pezzi di legno che, posati con precisione sulle spalle, permettono di sollevare, senza grande sforzo, dei carichi troppo pesanti per le braccia. Il “Figlio del falegname” doveva aver visto da vicino gioghi fatti male, troppo pesanti, troppo lunghi o non aggiustati bene, ferire le spalle; doveva lavorare su misura !

Se Gesù intende dire con “MITE E UMILE DI CUORE” : rilegare al Padre suo in piena coscienza di chi gli sta di fronte e aperto agli uomini in piena conoscenza di quello che sono realmente, allora, in effetti, non è in un unico passaggio del Vangelo, ma attraverso tutto il Vangelo, che Egli ci lascia vedere il suo Cuore: in tutti i racconti di miracoli, dove mai Gesù si comporta da ciarlatano, ma incontra un altro essere umano nel più profondo di lui stesso, là dove può guarirlo, risuscitarlo, salvarlo; in tutti i dialoghi con le donne (o, scandalo, nella sua cultura! Che dimostra la sua incredibile libertà quando si tratta di amare); con vecchi (Nicodemo), con giovani (il giovane ricco), con peccatori (Zaccheo), con pagani (la siro-fenicea, che lo ha riempito di ammirazione).
Egli si adatta a ciascuno. Non mette su nessuno un fardello troppo pesante.
Conosce, perché lui stesso si sa conosciuto ed accetta di esserlo : _ “Mi compiaccio con te, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai saggi e le hai rivelate ai semplici” (Si mette dunque tra i semplici?) “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre” (Mt 11,25-26); ma in risposta: “nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo” (vale a dire anche ai semplici, coloro che non credono di essere la propria propria sorgente ?).

Allora si capisce, alla luce di tanta tenerezza, di compassione attiva, di spiccata e creatrice attenzione, che Gesù abbia il diritto di dire: “Mettetevi alla mia scuola”. Una scuola dove prima, si trova “il riposo” - che per una scuola non è davvero frequente e che non significa pertanto noncuranza, al contrario ! Una scuola dove si impara a percepirsi se stessi figli di Dio, amati personalmente, là dove ci troviamo, non senza il proprio fardello, ma istruiti nel portarlo in modo leggero.

Si, è una buona scuola, una scuola attraente. Ma che non è priva di una certa disciplina (disciplina che fa ‘discepolo’):
bisognerà prima aprire gli occhi, come lo ha fatto Gesù, sopra tutta la sofferenza umana, incominciando dalla più vicina (e cioè quella che più mi minaccia), senza paura, senza distogliere lo sguardo nel timore di non saper rispondere, di non aver, davanti a tanto dolore, le risorse interne sufficienti. Perché l’altro aspetto della disciplina è proprio di mantenere il contatto con la sorgente: “La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato”(Gv. 7,16). “E’ sempre con me, perché faccio sempre la sua volontà” .
E’ questo contatto che ci rende coscienti e forti, poiché tutta la forza di amare ci viene dal essere amati dal Padre; ed è anche là che troviamo questa conoscenza amorevole degli altri che ci permette di offrire a ciascuno esattamente ciò che ha bisogno
: non un giogo fatto in serie - come facciamo così facilmente imponendo delle regole preconfezionate, anche se morali - ma “facile da portare”, perché ben adattato alla persona e al suo fardello.

E’ questa attenzione all’altro, questa forza d’accoglienza: “Venite tutti!” e tutta questa creatività che non teme di essere schiacciata dai fardelli degli altri: “Io rifarò le vostre forze", che definisce il CUORE di Gesù.
Un tal cuore, così aperto a Dio che si sente UNO con Lui, così aperto agli uomini che può accoglierli tutti, si capisce che sia diventato attraverso la storia dei cristiani, e cioè della Chiesa, il simbolo della più perfetta “relazione” d’amore (e dunque anche del desiderio più profondo dell’uomo).


In fondo, le nostre raffigurazioni, a volte così misere, desideravano esprimere questa relazione d’amore, “Sacro Cuori” dipinti o scolpiti, rappresentati col petto aperto, feriti, o cuori sormontati da fiamme, ecc : era un modo per dire che quel cuore non si chiude per nessuno, che rimane aperto qualunque cosa accada !

Ed ecco la spiegazione della potenza del testo, pur misterioso, di Gv 19,34 dove il costato trafitto da un gesto violento e aggressivo, risponde offrendo “subito”, senza reticenza, le ultime gocce di vita che racchiudeva.

Qui, Gesù non ha più bisogno di parole per comunicarsi: è lo sguardo contemplativo che riconosce il suo Signore: “Guarderanno a Colui che hanno trafitto” (Gv 19,37) e si sente spinto da lui a dare la sua vita a sua volta “per la moltitudine” (Mc 14,24).

Un’antica tradizione cristiana vede, in quel preciso momento, quando il cuore di Cristo è stato trafitto, la nascita mistica della Chiesa.

Nei tempi presenti, dove tanti uomini e donne si piegano sotto ad un fardello troppo pesante, dove la capacità di rapporto gratuito e profondo è allo stesso tempo così raro e così valorizzato, questi tempi che viviamo sono particolarmente atti a riscoprire il messaggio di Gesù in tutto il suo dinamismo:


  • solo l’amore può sollevare fardelli, senza di lui troppo pesanti;
  • non siamo bambini persi in un mondo rotto, ma figli e figlie amati, conosciuti, riconosciuti da un amore personale;
  • se accettiamo questo giogo “facile da portare” dell’amore di Cristo, troveremo il riposo del nostro "io" il più profondo, e saremo capaci a nostra volta di alleviare il fardello degli altri.

Si, i nostri tempi hanno un gran bisogno ed una grande sete di sentire questo messaggio. Ma chi lo porterà? Non è attraverso le parole che si comunica - e ancora meno alla nostra epoca, dove evolve così velocemente il vocabolario, dove il linguaggio è sottomesso di continuo al sospetto.
Passerà solo attraverso ciascuno di coloro che hanno deciso di mettere il proprio cuore a questa scuola, di lasciarlo diventare poco a poco come quello di Gesù, “mite e umile” in verità, con tutta la forza, tutta la verità, della propria coscienza di figlio e fratello universale.

Françoise Cassiers, rscj
Testo pubblicato nella rivista "Bonne Nouvelle n. 17 - 1981"

lunedì 8 febbraio 2010

Condannare i preti pedofili!




CITTA' DEL VATICANO




8/2/2010
Alcuni religiosi hanno violato dignità e diritti dei bambini, un comportamento che la Chiesa «non manca e non mancherà di deplorare e condannare»: Benedetto XVI non ha aspettato l’incontro in programma per il 15 e 16 febbraio con i vescovi irlandesi, protagonisti del più recente tra gli scandali di abuso, non solo sessuale, nei confronti di minori all’interno della Chiesa, per ribadire con forza la sua riprovazione. Già espressa più volte, ma sempre con maggior forza.

In Vaticano si è aperta questa mattina l’assemblea plenaria del Pontificio consiglio per la Famiglia, dedicata, nel ventesimo anniversario della Convenzione internazionale sulle misure a tutela del bambino adottata dalle Nazioni Unite nell’89, ai diritti dell’infanzia. Una questione che al Papa sta molto a cuore. «La tenerezza e l’insegnamento di Gesù, che considerò i bambini un modello da imitare per entrare nel regno di Dio - ha detto oggi ai partecipanti alla Plenaria del dicastero - hanno sempre costituito un appello pressante a nutrire nei loro confronti profondo rispetto e premura». E ancora: «Le dure parole di Gesù contro chi scandalizza uno di questi piccoli, impegnano tutti a non abbassare mai il livello di tale rispetto e amore».

E dure sono state anche le parole di papa Ratzinger sui preti pedofili. «La Chiesa, lungo i secoli, sull’esempio di Cristo, - ha ricordato - ha promosso la tutela della dignità e dei diritti dei minori e, in molti modi, si è presa cura di essi. Purtroppo, in diversi casi - ha sottolineato - alcuni dei suoi membri, agendo in contrasto con questo impegno, hanno violato tali diritti: un comportamento che la Chiesa - ha assicurato - non manca e non mancherà di deplorare e condannare». «Vergogna», «sdegno», «tradimento», «crimini odiosi»: già nell’ incontro con i vescovi irlandesi dello scorso 11 dicembre Benedetto XVI non si era risparmiato nel condannare gli abusi messi in luce dal rapporto Ryan prima, e di quello, successivo, del giudice Murphy, un album di ordinari orrori perpetrati in alcuni istituti religiosi, spesso confusi - sottolineano i rapporti - con metodi di rieducazione: abusi sessuali, umiliazioni, punizioni corporali. Comportamenti che Ratzinger ha fatto chiaramente capire di non voler più tollerare all’interno della Chiesa, nè nascondere sotto il tappeto, promettendo imminenti interventi, ma soprattutto dando di fatto il via libera alla consegna dei responsabili ai tribunali, costi quel che costi.

Un primo segno dovrebbe essere l’annunciata lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda, in cui dovrebbero essere enunciate alcune «indicazioni pratiche» per affrontare questa piaga. Intanto, Benedetto XVI, estende le sue esortazioni ad una più generale tutela dell’infanzia, che non si fermi alla battaglia contro la pedofilia. Tra le sue preoccupazioni - ha sottolineato nel suo discorso alla plenaria per la Famiglia - anche la crisi della famiglia tradizionale: separazioni, divorzi, unioni omosessuali. «È proprio la famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna - ha detto - l’aiuto più grande che si possa offrire ai bambini», che hanno bisogno di «ambedue i genitori» e delle figura complementari «materna e paterna». Separazioni e divorzi «non sono senza conseguenze», avverte il Pontefice, «e la famiglia va sostenuta anche e soprattutto per difendere i diritti dei bambini». Un impegno sollecitato anche dal segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, nella messa inaugurale della plenaria.

fonte: La Stampa


venerdì 5 febbraio 2010

Mai più Eutanasia!


Per ricordare Eluana Englaro martire contro l’eutanasia, ad un anno dalla sua morte
Per ribadire il nostro rifiuto totale e incondizionato all’eutanasia
Per riaffermare la difesa della vita dal concepimento fino alla sua fine naturale.


Martedì 9 Febbraio 2010:
- dalle ore 17 alle ore 18 sit in a Roma di fronte a Montecitorio


- alle ore 19 S. Messa in rito romano antico celebrata da mons. Ignacio Barreiro nella chiesa di San Giuseppe a Capo le case in via Crispi (a pochi minuti a piedi da Montecitorio).


Organizzato dai movimenti Italia Cristiana e Militia Christi in collaborazione con Vita Umana Internazionale e Movimento con Cristo per la Vita.
per informazioni potete contattarci: tel. 06.69.30.65.43 - email: info@italiacristiana.it

«L'ingiustizia viene da noi»




Quaresima, il messaggio del Papa:
«L'ingiustizia viene da noi»



“Ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge” ma “per godere di un’esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l’uomo vive di quell’amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza”. Il messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima è una riflessione “sul vasto tema della giustizia” che invita a comprendere “come e più del pane” l’uomo ha “bisogno di Dio” perché “sono certamente utili e necessari i beni materiali - del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l’indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di esseri umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine -, ma la giustizia ‘distributiva’ non rende all’essere umano tutto il ‘suo’ che gli è dovuto”.

Una “tentazione permanente dell’uomo”, ricorda il Pontefice, è “quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore” e “molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene ‘da fuori’, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione”. Tuttavia questo modo di pensare, come ammonisce Gesù, è “ingenuo e miope” perché “l’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne” ma “ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male”.

Il Santo Padre sottolinea che “l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro” e “aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale”. Sono proprio Adamo ed Eva che “sedotti dalla menzogna di Satana”, ricorda il Papa, afferrano “il misterioso frutto contro il comando divino” e sostituiscono “alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione” e “alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé” sperimentando “come risultato un senso di inquietudine e di incertezza”. Dentro al “cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che ‘solleva dalla polvere il debole’ (Sal 113,7) e giustizia verso il prossimo”, spiega Benedetto XVI, e “la parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, sedaqah, ben lo esprime” significando “da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo” soprattutto “del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova”. I “due significati sono legati”, ribadisce il Papa, “perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo” e “per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia”.

“Quale è dunque la giustizia di Cristo?”, si domanda il Santo Padre: “È anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri” e “il fatto che l’‘espiazione’ avvenga nel ‘sangue’ di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé ‘la maledizione’ che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la ‘benedizione’ che spetta a Dio”. La giustizia divina, precisa il Pontefice, è “profondamente diversa da quella umana” perché “Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante” ma “di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso”.

In questo senso, prosegue il Papa, “convertirsi a Cristo, credere al Vangelosignifica “uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia” e “si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio” perché “occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del ‘mio’, per darmi gratuitamente il ‘suo’”.




Conclude Benedetto XVI: “Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia ‘più grande’, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare. Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore”.




Copyright 2010 © Avvenire 05/02/2010