mercoledì 25 febbraio 2009

Mercoldì delle Ceneri


Giorno delle Ceneri e principio della santissima Quaresima: ecco i giorni della penitenza per la remissione dei peccati e la salvezza delle anime. Ecco il tempo adatto per la salita al monte santo della Pasqua. o adatto per la salita al monte santo della Pasqua.
L'origine del Mercoledì delle ceneri è da ricercare nell'antica prassi penitenziale. Originariamente il sacramento della penitenza non era celebrato secondo le modalità attuali. Il liturgista Pelagio Visentin sottolinea che l'evoluzione della disciplina penitenziale è triplice: "da una celebrazione pubblica ad una celebrazione privata; da una riconciliazione con la Chiesa, concessa una sola volta, ad una celebrazione frequente del sacramento, intesa come aiuto-rimedio nella vita del penitente; da una espiazione, previa all'assoluzione, prolungata e rigorosa, ad una soddisfazione, successiva all'assoluzione".
La celebrazione delle ceneri nasce a motivo della celebrazione pubblica della penitenza, costituiva infatti il rito che dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che sarebbero stati assolti dai loro peccati la mattina del giovedì santo. Nel tempo il gesto dell'imposizione delle ceneri si estende a tutti i fedeli e la riforma liturgica ha ritenuto opportuno conservare l'importanza di questo segno. La teologia biblica rivela un duplice significato dell'uso delle ceneri. 1 - Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell'uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere..." (Gen 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: "Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere" (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell'uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27). 2 - Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: "I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere" (Gio 3,5-9). Anche Giuditta invita invita tutto il popolo a fare penitenza affinché Dio intervenga a liberarlo: "Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore" (Gdt 4,11). La semplice ma coinvolgente liturgia del mercoledì delle ceneri conserva questo duplice significato che è esplicitato nelle formule di imposizione: "Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai" e "Convertitevi, e credete al Vangelo". Adrien Nocent sottolinea che l'antica formula (Ricordati che sei polvere...) è strettamente legata al gesto di versare le ceneri, mentre la nuova formula (Convertitevi...) esprime meglio l'aspetto positivo della quaresima che con questa celebrazione ha il suo inizio. Lo stesso liturgista propone una soluzione rituale molto significativa: "Se la cosa non risultasse troppo lunga, si potrebbe unire insieme l'antica e la nuova formula che, congiuntamente, esprimerebbero certo al meglio il significato della celebrazione: "Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai; dunque convertiti e credi al Vangelo". Il rito dell'imposizione delle ceneri, pur celebrato dopo l'omelia, sostituisce l'atto penitenziale della messa; inoltre può essere compiuto anche senza la messa attraverso questo schema celebrativo: canto di ingresso, colletta, letture proprie, omelia, imposizione delle ceneri, preghiera dei fedeli, benedizione solenne del tempo di quaresima, congedo. Le ceneri possono essere imposte in tutte le celebrazioni eucaristiche del mercoledì ma sarà opportuno indicare una celebrazione comunitaria "privilegiata" nella quale sia posta ancor più in evidenza la dimensione ecclesiale del cammino di conversione che si sta iniziando. Autore: Enrico Beraudo
(fonte: Santi e Beati)
Giorno delle Ceneri e principio della santissima Quaresima: ecco i giorni della penitenza per la remissione dei peccati e la salvezza delle anime. Ecco il tempo adatto per la salita al monte santo della Pasqua.

domenica 22 febbraio 2009

LIBERE!!


20 Febbraio 2009

INTERVISTA

«Ecco i nostri 100 giorni di prigionia»

Ieri sera, finalmente la prima Messa nel raccoglimento della comunità missionaria di Nairobi. Dopo 102 giorni per Suor Caterina Giraudo e Suor Maria Teresa Olivero è veramente finita.

Suor Caterina e suor Maria Teresa, quale gesto, quale sensazione vi ha dato il sapore della libertà ritrovata?
Suor Caterina:«Poter parlare con persone che conosciamo e che usano il nostro stesso linguaggio, con cui ci comprendiamo su tutte le linee: questa è una sensazione straordinaria. Dà proprio il senso della libertà».

Quel è stato il momento peggiore? Forse quando, armi in pugno, vi hanno prelevato a El-Wak?
Suor Caterina: «Quando ci hanno rapite non ci siamo quasi rese conto: è stato un momento brevissimo, un enorme trambusto. L’ho vissuto come fossi incosciente. Poi, quando tutto si è fermato allora ci siamo rese conto: eravamo perse».

Quando lo avete capito?
Suor Maria Teresa: «Una volta che ci siamo trovate chiuse in una macchina. Fino a quel momento speravamo ancora: abbiamo chiesto aiuto, gridato a tutta voce. Ma nessuno poteva aiutarci ed è stato meglio così perché la situazione poteva essere molto più tragica».

Chi erano i vostri carcerieri? Come erano le giornate di prigionia con loro?
Suor Caterina: «Abbiamo passato la maggior parte del tempo in una casa in muratura, chiuse in una stanza decente, abbastanza decorosa e pulita: in genere ben illuminata e arieggiata. Per un periodo sono stati solo tre i guerriglieri che si davano il cambio. Poi se ne sono aggiunti altri tre. Per la maggior parte del tempo, quindi, sono stati in sei. Due o tre erano sempre presenti nella nostra stanza. Ma di notte si radunavano tutti e uno di loro loro vegliava con il fucile al fianco. Nelle ultime tre o quattro settimane i nostri guardiani erano un po’ più lontani: non erano più sulla porta, ma pochi metri distanti. Allora ci siamo sentite un po’ più rilassate».
Suor Maria Teresa: «Non facevano nulla di speciale, ma erano dei giovani che giocavano fra di loro, giocavano con i fucili: a volte era veramente pesante, ma nello stesso tempo, per noi, era anche un po’ un diversivo».

Quando avete capito che c’era stato un contatto. È vero che avete saputo degli appelli del Papa?
Suor Maria Teresa: «Sin dal primo momento ci siamo dette: la nostra comunità inizierà a pregare per noi e chissà quanti ci penseranno. Eravamo sicure di questo, ma non avremmo mai immaginato la solidarietà che abbiamo scoperto solo adesso».
Suor Caterina: «Del Papa lo abbiamo saputo da una telefonata alle nostre sorelle che siamo riuscite a ottenere dai rapitori. Chi rispose ci disse: avete mezzo mondo che prega per voi, persino il Papa».

Qual il momento peggiore?
Suor Caterina: «Sono stati tanti... ma l’angoscia saliva in particolare quando i rapitori ci facevano parlare con la “parte italiana”: erano emozioni incredibili, indimenticabili. Eravamo sotto fortissima pressione: i rapitori, erano tutti lì, davanti a noi a farci segno che ci avrebbero uccise se non arrivavano i soldi. Poi per quattro o cinque settimane non siamo riuscite a strappare una sola notizia: non sapevamo se avessero parlato o meno con l’ambasciata. Ogni notizia, ogni cenno ci rasserenava anche se assolutamente non potevamo verificare alcunché. Riuscire a sapere qualcosa ci sollevava immensamente.

Tre mesi di angoscia e di preghiera. Quale pensiero ricorrente nel colloquio con Dio
Suor Caterina: «La certezza della presenza di Dio con noi, che era prigioniero, che soffriva con noi e ci sosteneva. Anche l’amore a Maria Santissima ci ha molto aiutato, abbiamo pregato tanto il Rosario insieme.

Ogni missionario, prima di partire, riceve la croce come sua sola compagna di viaggio. Avevate mai pensato a questo genere di sofferenza?
Suor Caterina: «No, mai, non abbiamo mai avuto il minimo dubbio che potesse accadere. Pensavamo ad altri pericoli, mai a questo».

Che sentimento provate ora verso i vostri carcerieri?
Suor Caterina: «Fin dal primissimo istante abbiamo avuto un sentimento di perdono e di accoglienza, mai di ribellione, di rifiuto. Questo è stato un grande dono: ci ha aiutato a stabilire rapporti il più possibile buoni. Cercavamo di rassicurarli, continuavamo a ringraziarli per le loro attenzioni verso di noi. E poi ci ha aiutato molto pensare alla pagina del Vangelo che insegna l’amore per i proprio nemici. Il Signore ci ha liberati anche dal sentimento di odio».

Perché, secondo voi, vi hanno rapito?
Suor Caterina: «Per il poco che capivamo penso che volessero solo i soldi»

Tornerete in missione?
Suor Caterina: «Siamo membri di una comunità verso cui siamo sempre disponibili. In questo momento non possiamo dire nulla di più sul nostro futuro».
Luca Geronico

(Fonte: Avvenire)

giovedì 19 febbraio 2009

Don Jerzy Popieluszko il «cappellano di Solidarnosc».


Don Jerzy Popieluszko e l'eroismo della Chiesa polacca


di Vincenzo Merlo
- 20 gennaio 2007


«La Chiesa polacca è una Chiesa coraggiosa, una Chiesa fedele anche se ha vissuto, come abbiamo notato anche noi, dei momenti di incertezza, dei momenti anche di compromesso e in cui è stata vittima, proprio per le sopraffazioni che ha subito. La Chiesa polacca e la società polacca vivono momenti di sofferenza, dei momenti di drammaticità nella retrospettiva sulla sua storia recente. La Polonia è stata una nazione che ha sofferto durante tutta la storia per gli opposti estremismi e gli opposti regimi che l'hanno martoriata; ne vediamo ancora le tracce oggi».
Così il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato di Benedetto XVI, a commento delle dimissioni di monsignor Wielgus. La presa di posizione del cardinal Bertone rimette sui giusti binari una polemica che rischiava altrimenti di fuorviare una verità storica lampante: le Chiese dell'Est, a partire proprio da quella polacca, hanno subito persecuzioni durissime sotto il regime comunista e il sangue di tanti martiri cristiani è stato versato per testimoniare la fede.Un esempio per tutti: il sacrificio di don Jerzy Popieluszko, il «cappellano di Solidarnosc».
Nato il 14 settembre 1947 a Okopy, nella provincia di Bialystock, fu ordinato sacerdote dal cardinal Wyszynsky nel maggio del 1972 e quindi destinato alla parrocchia di San Stanislao Kostka, nel quartiere operaio di Zoliborz a Varsavia. Il 19 ottobre 1984 don Popieluszko venne sequestrato e assassinato da tre agenti dei servizi segreti che, dopo averlo massacrato di botte, lo gettarono nelle acque gelide della Vistola. A dare la notizia del rapimento fu l'autista di don Jerzy, Chrostowsky, che riuscì ad uscire dall'auto dei sequestratori e a dileguarsi nel bosco.
La Polonia rimase col fiato sospeso per due settimane, nella speranza che il sacerdote fosse ancora vivo. Fino a quando, il 27 ottobre, il capitano Piotrowski confessò: «L'ho ucciso io, con le mie mani». Il corpo verrà poi ritrovato nel lago artificiale formato dalla diga di Wloclawek, un centinaio di chilometri a nord di Varsavia. Il clamore che seguì all'evento fu enorme e travalicò i confini nazionali; può ben dirsi che quell'assassinio pose le premesse per la fine del regime in Polonia. Il nome di Popieluszko, definito dal portavoce del governo comunista, Jerzy Urban, «un fanatico politico, un Savonarola dell'anticomunismo, un tipico esempio dell'anticlericalismo militante», era stato inserito (insieme ad altri sacerdoti vicini a Solidarnosc), in una lista nera che venne sottoposta alle autorità ecclesiastiche in vista di una espulsione. Per don Jerzy si profilava un periodo di studio a Roma, lontano dagli operai delle acciaierie Huta Warszawa ai quali era stato assegnato come cappellano dopo l'agosto 1980, data di nascita di Solidarnosc. Ma intervenne il Vaticano e don Popieluszko rimase al suo posto.
Perché quel sacerdote di 37 anni, dal viso da ragazzo ma con una volontà di ferro e una passione per la verità, era diventato un simbolo per i polacchi e così scomodo per il regime? Oltre al lavoro parrocchiale, don Jerzy svolgeva il suo ministero tra gli operai organizzando conferenze, incontri di preghiera, assistendo ammalati, poveri, perseguitati. «Una volta al mese - ha scritto Luigi Geninazzi su Avvenire del 19 ottobre 2004 - celebrava la "Messa per la patria", una tradizione che risaliva all'Ottocento quando la Polonia senza Stato difendeva la sua identità rifugiandosi sotto il manto della Chiesa cattolica. "Poiché con l'instaurazione della legge marziale (introdotta nel 1981) ci è stata tolta la libertà di parola, ascoltiamo la voce del nostro cuore e della nostra coscienza", diceva, invitando i polacchi "a vivere nella verità dei figli di Dio, non nella menzogna imposta dal regime". A conclusione delle Messe per la patria chiedeva ai fedeli di pregare "per coloro che sono venuti qui per dovere professionale", mettendo in imbarazzo gli spioni dell'Sb, il servizio di sicurezza». «Avevano deciso di fargliela pagar cara - conclude Geninazzi -.
Iniziarono con le minacce, seguirono con le perquisizioni che portarono all'ordine d'arresto per il "prete sovversivo". Fino a quando, la notte del 19 ottobre, gli maciullarono la bocca dopo avergli fracassato il cranio a colpi di manganello. Un delitto compiuto con ferocia bestiale. I mandanti non furono mai giudicati. Gli imputati vennero condannati ma ebbero la pena ridotta e sono già usciti tutti dal carcere. Don Jerzy continua a vivere: sulla sua tomba si recano in pellegrinaggio milioni di persone che lo venerano come il testimone della resistenza morale e spirituale della nazione polacca. Eroe della libertà e testimone della fede, don Popieluszko ci appare come "l'autentico profeta dell'Europa, quella che afferma la vita attraverso la morte", ha detto Giovanni Paolo II».
Proprio durante il viaggio apostolico in Polonia, nel giugno 1987, il Papa «venuto dall'Est» così ricordò la profetica testimonianza del sacerdote ucciso dal regime: «Grazie alla morte e risurrezione di Cristo - diceva don Jerzy Popieluszko - il simbolo dell'ignominia e dell'umiliazione è divenuto un simbolo di coraggio, di fortezza, di aiuto e di fratellanza. Nel segno della croce oggi presentiamo ciò che vi è di più bello e di più prezioso nell'uomo. Attraverso la croce si va verso la risurrezione. Non vi è un'altra via. Perciò le croci della nostra patria, le nostre croci personali, quelle delle nostre famiglie, devono condurre alla vittoria, alla risurrezione, se noi le uniamo con Cristo». Dopo poco più di due anni da quelle parole di Giovanni Paolo II, la Polonia, e con essa tutta l'Europa orientale, si sarebbe liberata dalla tirannia comunista.

Vincenzo Merlo

domenica 8 febbraio 2009

DICHIARAZIONE SULL'EUTANASIA


SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE DICHIARAZIONE SULL'EUTANASIA


INTRODUZIONE

I diritti e i valori inerenti alla persona umana occupano un posto importante nella problematica contemporanea. Al riguardo, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha solennemente riaffermato l’eccellente dignità della persona umana e in modo particolare il suo diritto alla vita. Ha perciò denunciato i crimini contro la vita “come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario” (Gaudium et Spes, 27).

La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, che di recente ha richiamato la dottrina cattolica circa l’aborto procurato, (Declaratio de abortu procurato, die 18 nov. 1974: AAS 66 [1974] 730-747.) ritiene ora opportuno proporre l’insegnamento della Chiesa sul problema dell’eutanasia.

In effetti, per quanto restino sempre validi i principii affermati in questo campo dai recenti Pontefici, (Pio XII, Allocutio ad Delegatos Unionis Internationalis Sodalitatum mulierum catholicarum, die 11 sept. 1947: AAS 39 [1947] 483; Allocutio ad membra Unionis Catholicae Italicae inter obstetrices, die 29 oct. 1951: AAS 43 [1951] 835-854; Allocutio ad membra Consilii Internationalis inquisitionis de medicina exercenda inter milites, die 19 oct. 1953: AAS 45 [1953] 744-754; Allocutio ad participantes XI Congressum Societatis Italicae de anaesthesiologia, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 146; cf. etiam Allocutio circa queestionem de “reanimatione”, die 24 nov. 1957: AAS 49 [1957] 1027-1033; Paolo VI, Allocutio ad membra Consilii Specialis Nationum Unitarum versantis in quaestione “Apartheid”, die 22 maii 1974: AAS 66 [1974] 346; Giovanni Paolo II, Allocutio ad Episcopos Statuum Foederatorum Americae Septentrionalis, die 5 oct 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 629ss) i progressi della medicina hanno messo in luce negli anni più recenti nuovi aspetti del problema dell’eutanasia, che richiedono ulteriori precisazioni sul piano etico.

Nella società odierna, nella quale non di rado sono posti in causa gli stessi valori fondamentali della vita umana, la modificazione della cultura influisce sul modo di considerare la sofferenza e la morte; la medicina ha accresciuto la sua capacità di guarire e di prolungare la vita in determinate condizioni, che talvolta sollevano alcuni problemi di carattere morale. Di conseguenza, gli uomini che vivono in un tale clima si interrogano con angoscia sul significato dell’estrema vecchiaia e della morte, chiedendosi conseguentemente se abbiano il diritto di procurare a se stessi o ai loro simili la “morte dolce”, che abbrevierebbe il dolore e sarebbe, ai loro occhi, più conforme alla dignità umana.

Diverse Conferenze Episcopali hanno posto, in merito, dei quesiti a questa S. Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale, dopo aver chiesto il parere di competenti sui vari aspetti dell’eutanasia, intende con questa Dichiarazione rispondere alle richieste dei Vescovi per aiutarli ad orientare rettamente i fedeli e per offrire loro elementi di riflessione da far presenti alle Autorità civili a proposito di questo gravissimo problema.

La materia proposta in questo Documento riguarda, innanzi tutto, coloro che ripongono la loro fede e la loro speranza in Cristo, il quale, mediante la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione, ha dato un nuovo significato all’esistenza e soprattutto alla morte del cristiano, secondo le parole di San Paolo: “Sia che viviamo, viviamo per il Signore; sia che moriamo, moriamo per il Signore. Quindi, sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore” (Rm 14,8; cf. Fil 1,20).

Quanto a coloro che professano altre religioni, molti ammetteranno con noi che la fede in un Dio creatore, provvido e padrone della vita - se la condividono - attribuisce una dignità eminente a ogni persona umana e ne garantisce il rispetto.

Si spera, ad ogni modo, che questa Dichiarazione incontri il consenso di tanti uomini di buona volontà, che, al di là delle differenze filosofiche o ideologiche, hanno tuttavia una viva coscienza dei diritti della persona umana. Tali diritti, d’altronde, sono stati spesso proclamati nel corso degli ultimi anni da dichiarazioni di Congressi Internazionali; (Attendatur peculiari modo ad Admonitionem 779 [1976] de iuribus aegrotorum et morientium, quae acceptata fuit a Coetu Deputatorum Consilii Europae, in XXVII sessione ordinaria. cf. SIPECA, n. 1, mense martio 1977, pp. 14-15.) è poiché si tratta qui dei diritti fondamentali di ogni persona umana, è evidente che non si può ricorrere ad argomenti desunti dal pluralismo politico o dalla libertà religiosa, per negarne il valore universale.

I. VALORE DELLA VITA UMANA

La vita umana è il fondamento di tutti i beni, la sorgente e la condizione necessaria di ogni attività umana e di ogni convivenza sociale. Se la maggior parte degli uomini ritiene che la vita abbia un carattere sacro e che nessuno ne possa disporre a piacimento, i credenti vedono in essa anche un dono dell’amore di Dio, che sono chiamati a conservare e a far fruttificare. Da quest’ultima considerazione derivano alcune conseguenze:

1. Nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò, un crimine di estrema gravità. (Hic omnino praetermittuntur quaestiones de poena mortis et de bello, quae postulant ut aliae fiant peculiares considerationes, quae huius Declarationis argomento extraneae sunt.)

2. Ogni uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio. Essa gli è affidata come un bene che deve portare i suoi frutti già qui in terra, ma trova la sua piena perfezione soltanto nella vita eterna.

3. La morte volontaria ossia il suicidio è, pertanto, inaccettabile al pari dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell’uomo, il rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore. Il suicidio, inoltre, è spesso anche rifiuto dell’amore verso se stessi, negazione della naturale aspirazione alla vita, rinuncia di fronte ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la società intera, benché talvolta intervengano- come si sa- dei fattori psicologici che possono attenuare o, addirittura, togliere la responsabilità.

Si dovrà, tuttavia, tenere ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale per una causa superiore - quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli - si offre o si pone in pericolo la propria vita (cf. Gv 15,14).

II. L’EUTANASIA

Per trattare in maniera adeguata il problema dell’eutanasia, conviene, innanzi tutto, precisare il vocabolario.

Etimologicamente la parola eutanasia significava, nell’antichità, una morte dolce senza sofferenze atroci. Oggi non ci si riferisce più al significato originario del termine, ma piuttosto all’intervento della medicina diretto ad attenuare i dolori della malattia e dell’agonia, talvolta anche con il rischio di sopprimere prematuramente la vita. Inoltre, il termine viene usato, in senso più stretto, con il significato di “procurare la morte per pietà”, allo scopo di eliminare radicalmente le ultime sofferenze o di evitare a bambini anormali, ai malati mentali o agli incurabili il prolungarsi di una vita infelice, forse per molti anni, che potrebbe imporre degli oneri troppo pesanti alle famiglie o alla società.

È quindi necessario dire chiaramente in quale senso venga preso il termine in questo Documento.

Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati.

Ora, è necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità.

Potrebbe anche verificarsi che il dolore prolungato e insopportabile, ragioni di ordine affettivo o diversi altri motivi inducano qualcuno a ritenere di poter legittimamente chiedere la morte o procurarla ad altri. Benché in casi del genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non sussistere, tuttavia l’errore di giudizio della coscienza - forse pure in buona fede - non modifica la natura dell’atto omicida, che in sé rimane sempre inammissibile. Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato ha bisogno, è l’amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri.

III. IL CRISTIANO DI FRONTE ALLA SOFFERENZA E ALL'USO DI ANALGESICI

La morte non avviene sempre in condizioni drammatiche, al termine di sofferenze insopportabili. Né si deve sempre pensare unicamente ai casi estremi. Numerose testimonianze concordi lasciano pensare che la natura stessa ha provveduto a rendere più leggeri al momento della morte quei distacchi, che sarebbero terribilmente dolorosi per un uomo in piena salute. Perciò una malattia prolungata, una vecchiaia avanzata, una situazione di solitudine e di abbandono, possono stabilire delle condizioni psicologiche tali da facilitare l’accettazione della morte.

Tuttavia, si deve riconoscere che la morte, preceduta o accompagnata spesso da sofferenze atroci e prolungate, rimane un avvenimento, che naturalmente angoscia il cuore dell’uomo.

Il dolore fisico è certamente un elemento inevitabile della condizione umana; sul piano biologico, costituisce un avvertimento la cui utilità è incontestabile; ma poiché tocca la vita psicologica dell’uomo, spesso supera la sua utilità biologica e pertanto può assumere una dimensione tale da suscitare il desiderio di eliminarlo a qualunque costo.

Secondo la dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso (cf. Mt 27,34). Non sarebbe, tuttavia, prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità. Quanto a coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà ragionevolmente presumere che desiderino prendere tali calmanti e somministrarli loro secondo i consigli del medico.

Ma l’uso intensivo di analgesici non è esente da difficoltà, poiché il fenomeno dell’assuefazione di solito obbliga ad aumentare le dosi per mantenerne l’efficacia. Conviene ricordare una dichiarazione di Pio XII, la quale conserva ancora tutta la sua validità. Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici... è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?”, il Papa rispose: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 147). In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone.

Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza, meritano invece una particolare considerazione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che “non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 145; cf. Pio XII, Allocutio, die 9 sept. 1958: AAS 50 [1958] 694).
IV. L’USO PROPORZIONATO DEI MEZZI TERAPEUTICI

È molto importante oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che rischia di divenire abusivo. Di fatto, alcuni parlano di “diritto alla morte”, espressione che non designa il diritto di procurarsi o farsi procurare la morte come si vuole, ma il diritto di morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana. Da questo punto di vista, l’uso dei mezzi terapeutici talvolta può sollevare dei problemi.

In molti casi la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i principii della morale. Prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso.

Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare. Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili.

Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere ad ogni rimedio possibile? Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali.

Per facilitare l’applicazione di questi principii generali si possono aggiungere le seguenti precisazioni:

- In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.

- È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre.

- È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.

- Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.

CONCLUSIONE

Le norme contenute nella presente Dichiarazione sono ispirate dal profondo desiderio di servire l’uomo secondo il disegno del Creatore. Se da una parte la vita è un dono di Dio, dall’altra la morte è ineluttabile; è necessario, quindi, che noi, senza prevenire in alcun modo l’ora della morte, sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra responsabilità e con tutta dignità. È vero, infatti, che la morte pone fine alla nostra esistenza terrena, ma allo stesso tempo apre la via alla vita immortale. Perciò tutti gli uomini devono prepararsi a questo evento alla luce dei valori umani, e i cristiani ancor più alla luce della loro fede.

Coloro che si dedicano alla cura della salute pubblica non tralascino niente per mettere al servizio degli ammalati e dei moribondi tutta la loro competenza; ma si ricordino anche di prestare loro il conforto ancor più necessario di una bontà immensa e di una carità ardente. Un tale servizio prestato agli uomini è anche un servizio prestato al Signore stesso, il quale ha detto: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

(Fonte: Vatican.va)

sabato 7 febbraio 2009

«Assoluta dignità di ogni vita, anche se debole»



LE PAROLE DEL PAPA

7 Febbraio 2009

"Occorre affermare con vigore l'assoluta e suprema dignità di ogni vita umana. Non muta, con il trascorrere dei tempi, l'insegnamento che la Chiesa incessantemente proclama: la vita umana è bella e va vissuta in pienezza anche quando è debole e avvolta dal mistero della sofferenza": sono le parole del messaggio di papa Benedetto XVI in occasione del 17esima Giornata mondiale del malato, dedicata quest'anno in particolare ai "bambini malati e sofferenti".

"È a Gesù crocifisso - spiega il pontefice - che dobbiamo volgere il nostro sguardo: morendo in croce Egli ha voluto condividere il dolore di tutta l'umanità". "Nel suo soffrire per amore - prosegue il messaggio -intravediamo una suprema compartecipazione alle pene dei piccoli malati e dei loro genitori. Il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, che dell'accettazione paziente della sofferenza ha offerto un esempio luminoso specialmente al tramonto della sua vita, ha scritto: Sulla croce sta il Redentore dell'uomo, l'Uomo dei dolori, che in sè ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinchè nell'amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi".

(fonte: Avvenire)

venerdì 6 febbraio 2009

La vita è importante anche quando è inerme e indifesa.

Intervista al cantante-medico
Caso Eluana, parla l'ateo Enzo Jannacci: allucinante fermare le cure.

«La vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio»

MILANO - Ci vorrebbe una carezza del Nazareno» dice a un certo punto, e non è per niente una frase buttata lì, nella sua voce non c'è nemmeno un filo dell'ironia che da cinquant'anni rende inconfondibili le sue canzoni. Di fronte a Eluana e a chi è nelle sue condizioni — «persone vive solo in apparenza, ma vive » — Enzo Jannacci, «ateo laico molto imprudente», invoca il Cristo perché lui, come medico, si sente soltanto di alzare le braccia: «Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l'alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale».

È un discorso che vale anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo?
«Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».
Ma una volta che il cervello non reagisce più, l'attesa non rischia di essere inutile?
«Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto».
Sono considerazioni di un genitore o di un medico? «Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque. Decidere di interromperla in un ospedale non è come fare una tracheotomia...».

Cosa si sentirebbe di dire a Beppino Englaro?
«Bisogna stare molto vicini a questo padre».
Non pensa che ci possano essere delle situazioni in cui una persona abbia il diritto di anticipare la propria morte? «Sì, quando il paziente soffre terribilmente e la medicina non riesce più ad alleviare il dolore. Ma anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover "staccare una spina": sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».
Come affronterebbe un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza?
«Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina».
Quarant'anni fa la pensava allo stesso modo?
«Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però».

Che cosa?
«In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».
Fabio Cutri0
6 febbraio 2009
(fonte: Corriere della Sera)

giovedì 5 febbraio 2009

AMARE QUESTA CHIESA INFANGATA!



04.02.2009

di Antonio Socci



Che spettacolo. Ogni giorno valanghe di fango, da quei cannoni che sono i mass media e i potenti di questo mondo, contro la Chiesa. Ogni giorno oltraggi, calunnie, dileggi. E lei, bella, dolce, inerme, indifesa che subisce cercando "come una madre premurosa" di proteggere i suoi figli più piccoli dallo scandalo continuo. Come si fa a non amare questa Chiesa, così vulnerabile, indifesa, così umanamente povera da rendere evidentissimo che è sorretta dalla presenza formidabile di un Altro. Altrimenti mai avrebbe potuto arrivare al XX secolo e abbracciare il mondo intero e continuare a far innamorare tanti cuori di quel volto. Del Salvatore.
Lei, la Chiesa di Cristo, la Santa Chiesa, che ha subito fin dalla sua nascita le più feroci persecuzioni e che nel XX secolo ha dovuto sopportare il più oceanico macello della sua storia (45 milioni di credenti che hanno perduto la vita, in modo diretto o indiretto a causa della loro fede: dati provenienti da Oxford non dal Vaticano), lei che è stata perseguitata a tutte le latitudini, sotto tutti i regimi (da quello della Cina dei Boxers di inizio secolo, a quello massonico messicano, da quelli comunisti a quelli nazisti e fascisti fino a quelli pagani e a quelli islamici), lei che ha subìto il primo genocidio del Novecento, quello degli armeni. Ma non interessano a nessuno i morti cristiani, le suore rapite, i missionari uccisi i cristiani cacciati da tanti Paesi. E' forse interessato a qualcuno il lungo genocidio consumatosi a Timor Est o quello ventennale del Sudan ad opera del regime jihadista contro i cristiani del Sud, con due milioni di morti, quattro milioni di profughi e centinaia di migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi al Nord? A nessuno. Se ne accorse il New York Times nel 1998. Ma Gesù lo aveva detto: "Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi", "hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi", "diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia", "vi trascineranno davanti ai loro tribunali, vi tortureranno, vi metteranno a morte". Infatti non ci si è accontentati di macellare i cristiani: li si vuole anche infangati, disonorati. Anche quando loro "vittime di tutte le ideologie totalitarie" si sono presi cura, pressoché da soli, di altre vittime come i loro fratelli ebrei, anche quando il Papa Pio XII con migliaia di preti e suore, a rischio della loro stessa vita (vedi padre Kolbe), minacciati loro stessi di morte, hanno salvato centinaia di migliaia di poveri ebrei braccati da quell'ideologia pagana che già faceva strage di cattolici polacchi, anche dopo questa immensa e commovente impresa " che dopo la guerra fece sgorgare i più sinceri ringraziamenti dei maggiori esponenti del mondo ebraico e dei tanti salvati (anche esponenti politici avversi alla Chiesa) " anche dopo un evento del genere in cui la Chiesa pressoché da sola (come scrisse Albert Einstein) si oppose al Satana pagano hitleriano, anche dopo ciò alla Chiesa tocca l'onta dell'accusa di razzismo, ideologia biologista che è l'esatto opposto del cattolicesimo e che è nata proprio in odio al cristianesimo. Ma questa sembra essere la sua sorte: la stessa di Gesù. L'odio del mondo. La mano assassina non è arrivata a colpire perfino il Papa stesso in piazza San Pietro? E già sul suo predecessore, Pio XII, non gravava un progetto di deportazione da parte dei nazisti? E un altro predecessore non era stato già deportato, 150 anni prima, da Napoleone? Del resto perfino nella democrazie - se proprio non vogliamo ricordare il bagno di sangue cristiano che fu la Rivoluzione francese o le feroci persecuzioni della conquista piemontese (più di 60 vescovi italiani arrestati o esiliati, migliaia di frati e suore cacciati dai loro conventi e la Chiesa espropriata di tutto) - perfino nelle democrazie, dicevo, la Chiesa è odiata, perseguitata. C'è qualcuno che ricordi come nella Inghilterra madre della democrazia (quella che proprio dalla Chiesa aveva imparato da democrazia con la Magna Charta) oggi, a 500 anni dalla svolta anglicana (imposta da un re tiranno) è ancora proibito a un cattolico diventare cancelliere? Blair ha dovuto aspettare, a dare la notizia della sua conversione, di aver perduto la carica. Pensate se vigesse un'analoga proibizione - che so - per gli atei o gli ebrei, o gli islamici. E perfino negli Usa si è dovuto aspettare duecento anni perché un cattolico, nel 1960, diventasse presidente americano. E quante rassicurazioni dovette dare Kennedy, attaccato proprio in quanto cattolico che - come tale - non doveva andare alla Casa Bianca (in ogni caso fece subito una brutta fine e nessun cattolico più ci è tornato). Ma, si sa, è proibito guardare la storia per quello che è. Sempre e solo sul banco degli accusati devono stare i cattolici. Ciononostante la Chiesa non fa mai vittimismo, non polemizza, non si perde in discussioni e controversie. Addirittura per volere di quel grandissimo Papa che è stato Giovanni Paolo II, che pure aveva provato sulla sua pelle sia la persecuzione nazista, che quella comunista e infine le pallottole di Ali Agca, arrivò quel gesto inaudito, stupendo che fu il grande "mea culpa" dell'Anno Santo: dalla Chiesa di Roma, che avrebbe avuto tutti i titoli, alla fine del Novecento, per puntare il dito su tutti i poteri e le ideologie del mondo che l'avevano straziata, venne questo struggente atto di umiltà, perché il mondo sapesse, capisse, che ai cristiani non interessa rivendicare meriti, né interessa aver ragione, ma - riconoscendosi peccatori, ultimi fra gli uomini e veramente indegni del dono che hanno avuto da Dio - a loro interessa solo indicare quel volto bellissimo che ci salva, in cui Dio si è fatto carne ed è venuto a salvarci. Con il cui amore (cantato attraverso duemila anni di bellezza dagli artisti cristiani) hanno insegnato all'umanità a prendersi cura dei sofferenti, dei derelitti, coprendo il mondo di opere di carità e di ospedali. E ancora oggi, come sempre, la Chiesa quasi da sola, sentendo tutti gli uomini come suoi figli (anche coloro che la odiano), premurosamente fa sentire la sua voce contro l'immane massacro delle vite più indifese e innocenti (un miliardo in 40 anni), contro le risorgenti ideologie della morte, contro l'orrore della fame, dell'industria della guerra, contro l'odio che dilania i cuori e il mondo, contro tutte le violenze. Ma ancora una volta la Chiesa è per questo vilipesa, oltraggiata, infangata, derisa (ora accusata falsamente di tacere, ora accusata dagli stessi di parlare: sempre in ogni caso odiata). Che spettacolo! Come si fa a non accorgersi che è veramente una cosa dell'altro mondo in questo mondo. E' divina. Così la considerò uno dei suoi persecutori, arrivato alla fine della vita, nell'esilio di Sant'Elena, Napoleone Bonaparte: "Tra il cristianesimo e qualsiasi altra religione c'è la distanza dell'infinito. Conosco gli uomini e vi dico che Gesù non è (solo) un uomo". I pensieri del Bonaparte, riportati in "Conversazioni religiose" (Editori riuniti), sono di questo tenore: "Tutto di Gesù mi sorprende. Il suo spirito mi supera e la sua volontà mi confonde. Tra lui e qualsiasi altra persona al mondo non c'è possibilità di paragone. E' veramente un essere a parte... E' un mistero insondabile. Cerco invano nella storia qualcuno simile a Gesù Cristo o qualcuno che comunque si avvicini al Vangelo. Nel suo caso tutto è straordinario. Anche gli empi non hanno mai osato negare la sublimità del Vangelo che ispira loro una specie di venerazione obbligata! Che gioia procura questo libro!". "Dal primo giorno fino all'ultimo, egli è lo stesso, sempre lo stesso, maestoso e semplice, infinitamente severo e infinitamente dolce. Che parli o che agisca, Gesù è luminoso, immutabile, impassibile". "Gesù è il solo che abbia osato tanto. E' il solo che abbia detto chiaramente e affermato senza esitazione egli stesso di sé: io sono Dio". Napoleone constata il suo potere divino nei fatti storici: "Voi parlate di Cesare e di Alessandro, delle loro conquiste e dell'entusiasmo che seppero suscitare nel cuore dei soldati - osservava Napoleone - ma quanti anni è durato l'impero di Cesare? Per quanto tempo si è mantenuto l'entusiasmo dei soldati di Alessandro?". Invece per Cristo "è stata una guerra, un lungo combattimento durato trecento anni, cominciato dagli apostoli e proseguito dai loro successori e dall'onda delle generazioni cristiane. Dopo san Pietro i trentadue vescovi di Roma di Roma che gli sono succeduti sulla cattedra hanno, come lui, subito il martirio. Durante i tre secoli successivi, la cattedra romana fu un patibolo che procurava sicuramente la morte a chi vi veniva chiamato" In questa guerra tutti i re e tutte le forze della terra si trovano da una parte, mentre dall'altra non vedo nessun esercito, ma una misteriosa energia, alcuni uomini sparpagliati qua e là nelle varie parti del globo e che non avevano altro segno di fratellanza che una fede comune nel mistero della Croce" Potete concepire un morto che fa delle conquiste con un esercito fedele e del tutto devoto alla sua memoria? Potete concepire un fantasma che ha soldati senza paga, senza speranza per questo mondo e che ispira loro la perseveranza e la sopportazione di ogni genere di privazione?... Questa è la storia dell'invasione e della conquista del mondo da parte del cristianesimo" I popoli passano, i troni crollano e la chiesa rimane! Quale è, dunque, la forza che mantiene in piedi questa chiesa, assalita dall'oceano furioso della collera e dell'odio del mondo? Qual è il braccio, dopo diciotto secoli, che l'ha difesa dalle tante tempeste che hanno minacciato di inghiottirla?"
Antonio Socci
(Libero, 3 febbraio 2009)