venerdì 29 agosto 2008

29 Agosto - Martirio di San Giovanni Battista



Mc 6, 17-29
In quel tempo, Erode aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell'ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le fece questo giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista». Il re divenne triste; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto.
Subito il re mandò una guardia con l'ordine che gli fosse portata la testa. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Ama di più.




Quando pensi di aver fatto abbastanza nell'esercizio della carità, spingiti più avanti: ama di più.

Quando sei tentato di arrestarti di fronte alle difficoltà con gli altri, sforzati di superare gli ostacoli: ama di più.

Quando il tuo egoismo vuol farti rinchiudere in te stesso, esci dal tuo ripiegamento: ama di più.

Quando per riconciliarti aspetti che l'altro faccia il primo passo, prendi tu l'iniziativa: ama di più.

Quando ti senti spinto a protestare contro ogni ingiustizia di cui sei stato vittima, sforzati di mantenere il silenzio: ama di più!

(San Pio da Pietrelcina)

giovedì 28 agosto 2008

Non mi basta amare Dio se anche il mio prossimo non lo ama




"La nostra vocazione è di andare ad infiammare il cuore degli uomini,a fare quello che fece il Figlio di Dio, Lui che venne a portare il fuoco nel mondo per infiammarlo dell’amor suo. Che possiamo noi desiderare, se non che arda e consumi tutto?

È dunque vero che sono inviato non solo ad amare Dio, ma a farlo amare.

Non mi basta amare Dio se anche il mio prossimo non lo ama. Devo amare il mio prossimo come immagine di Dio e oggetto dell’amor suo e far di tutto perché a loro volta gli uomini amino il loro Creatore che li riconosce e li considera come suoi fratelli, che li ha salvati; e procurare che, con mutua carità, si amino tra loro per amor di Dio, il quale li ha tanto amati da abbandonare per es­si il proprio Figlio alla morte. È dunque questo il mio dovere.

Orbene, se è vero che siamo chiamati a portare lontano e vicino l’amore di Dio, se dobbiamo infiammarne le nazioni, se la nostra vocazione è di andare a spargere questo fuoco divino in tutto il mondo, se così è, dico, se così è, fratelli, quanto devo ardere io stesso di questo fuoco divino!

Come daremo la carità agli altri, se non l’abbiamo tra noi? Osserviamo se vi è, non in generale, ma se ciascuno l’ha in sé, se vi è al grado dovuto; perché se non è accesa in noi, se non ci amiamo l’un l’altro come Gesù Cristo ci ha amati e non facciamo atti simili ai suoi, come potremo sperare di diffondere tale amore su tutta la terra? Non è possibile dare quello che non si ha.

L’esatto dovere della carità consiste nel fare ad ognuno quello che con ragione vorremmo fosse fatto a noi. Faccio veramente al mio prossimo quello che desidero da lui?

Osserviamo il Figlio di Dio. Non c’è che Nostro Signore che sia stato tanto rapito dall’amore per le creature da lasciare il trono del Padre suo per venire a prendere un corpo soggetto ad infermità.

E perché? Per stabilire fra noi, mediante la sua parola e il suo esempio, la carità del prossimo. È questo l’amore che l’ha crocifisso e ha compiuto l’opera mirabile della nostra redenzione.

Se avessimo un poco di questo amore, rimarremmo con le braccia conserte? Oh! no, la carità non può rimanere oziosa, essa ci spinge a procurare la salvezza e il sollievo altrui."

Dalle “Conferenze ai Preti della Missione” di san Vincenzo de’ Paoli () (Conferenza 207).

Preghiera

O Salvatore, che ci hai dato la legge di amare il prossimo come noi stessi, che l'hai praticata tanto perfettamente verso gli uomini, sii Tu stesso, Signore, il tuo ringraziamento eterno!

O Salvatore, quanto sono fortunato di trovarmi in uno stato d'amore per il prossimo! Fammi la grazia di riconoscere la mia fortuna, di amare questo stato beato e di contribuire perché questa virtù si manifesti ora, domani e sempre. Amen (da S. Vincenzo de' Paoli)

A cura del "Movimento dei Focolari"

martedì 26 agosto 2008

Significato autentico espressioni ecclesiologiche magisteriali



CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

RISPOSTE A QUESITI RIGUARDANTI ALCUNI ASPETTI
CIRCA LA DOTTRINA SULLA CHIESA


Introduzione

Il Concilio Vaticano II, con la Costituzione dogmatica Lumen gentium e con i Decreti sull'Ecumenismo (Unitatis redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), ha contribuito in modo determinante ad una comprensione più profonda dell'ecclesiologia cattolica. Al riguardo anche i Sommi Pontefici hanno voluto offrire approfondimenti e orientamenti per la prassi: Paolo VI nella Lettera Enciclica Ecclesiam suam (1964) e Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Ut unum sint (1995).

Il conseguente impegno dei teologi, volto ad illustrare sempre meglio i diversi aspetti dell'ecclesiologia, ha dato luogo al fiorire di un'ampia letteratura in proposito. La tematica si è infatti rivelata di grande fecondità, ma talvolta ha anche avuto bisogno di puntualizzazioni e di richiami, come la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae (1973), la Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica Communionis notio (1992) e la Dichiarazione Dominus Iesus (2000), tutte pubblicate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

La vastità dell'argomento e la novità di molti temi continuano a provocare la riflessione teologica, offrendo sempre nuovi contributi non sempre immuni da interpretazioni errate che suscitano perplessità e dubbi, alcuni dei quali sono stati sottoposti all'attenzione della Congregazione per la Dottrina della Fede. Essa, presupponendo l'insegnamento globale della dottrina cattolica sulla Chiesa, intende rispondervi precisando il significato autentico di talune espressioni ecclesiologiche magisteriali, che nel dibattito teologico rischiano di essere fraintese.

RISPOSTE AI QUESITI

Primo quesito: Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa ?

Risposta: Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente.

Proprio questo affermò con estrema chiarezza Giovanni XXIII all’inizio del Concilio[1]. Paolo VI lo ribadì[2] e così si espresse nell’atto di promulgazione della Costituzione Lumen gentium: "E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione"[3]. I Vescovi ripetutamente manifestarono e vollero attuare questa intenzione[4].

Secondo quesito: Come deve essere intesa l’affermazione secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica ?

Risposta: Cristo "ha costituito sulla terra" un’unica Chiesa e l’ha istituita come "comunità visibile e spirituale"[5], che fin dalla sua origine e nel corso della storia sempre esiste ed esisterà, e nella quale soltanto sono rimasti e rimarranno tutti gli elementi da Cristo stesso istituiti[6]. "Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica […]. Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui"[7].

Nella Costituzione dogmatica Lumen gentium 8 la sussistenza è questa perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica[8], nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra.

Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse[9], la parola "sussiste", invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede (Credo…la Chiesa "una"); e questa Chiesa "una" sussiste nella Chiesa cattolica[10].

Terzo quesito: Perché viene adoperata l’espressione "sussiste nella" e non semplicemente la forma verbale "è" ?

Risposta: L’uso di questa espressione, che indica la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica, non cambia la dottrina sulla Chiesa; trova, tuttavia, la sua vera motivazione nel fatto che esprime più chiaramente come al di fuori della sua compagine si trovino "numerosi elementi di santificazione e di verità", "che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica"[11].

"Perciò le stesse Chiese e Comunità separate, quantunque crediamo che hanno delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Infatti lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica"[12].

Quarto quesito: Perché il Concilio Ecumenico Vaticano II attribuisce il nome di "Chiese" alle Chiese orientali separate dalla piena comunione con la Chiesa cattolica ?

Risposta: Il Concilio ha voluto accettare l’uso tradizionale del nome. "Siccome poi quelle Chiese, quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora uniti con noi da strettissimi vincoli"[13], meritano il titolo di "Chiese particolari o locali"[14], e sono chiamate Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche[15].

"Perciò per la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce"[16]. Siccome, però, la comunione con la Chiesa cattolica, il cui Capo visibile è il Vescovo di Roma e Successore di Pietro, non è un qualche complemento esterno alla Chiesa particolare, ma uno dei suoi principi costitutivi interni, la condizione di Chiesa particolare, di cui godono quelle venerabili Comunità cristiane, risente tuttavia di una carenza[17].

D’altra parte l’universalità propria della Chiesa, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia[18].

Quinto quesito: Perché i testi del Concilio e del Magistero successivo non attribuiscono il titolo di "Chiesa" alle Comunità cristiane nate dalla Riforma del 16° secolo ?

Risposta: Perché, secondo la dottrina cattolica, queste Comunità non hanno la successione apostolica nel sacramento dell’Ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo essenziale dell’essere Chiesa. Le suddette Comunità ecclesiali, che, specialmente a causa della mancanza del sacerdozio ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico[19], non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate "Chiese" in senso proprio[20].

Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha approvato e confermato queste Risposte, decise nella sessione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 29 giugno 2007, nella solennità dei Ss. Pietro e Paolo, Apostoli.

William Cardinale Levada
Prefetto

Angelo Amato, S.D.B.
Arcivescovo tit. di Sila
Segretar

venerdì 22 agosto 2008

Come si è arrivati alla Comunione nella mano.



Sono nato nel 1963, sono entrato in seminario nel 1983 e sono stato ordinato sacerdote nel 1990. La mia formazione teologica non è stata assolutamente “conservatrice” o “preconciliare”, ma fin da ragazzo ho sentito istintivamente un senso di disagio nel dare o ricevere la santa Comunione sulla mano. Poche sere fa, con Gianluca Barile, direttore di Petrus, colloquiando, a cena, con il cardinale Arinze, Prefetto della Congregazione della Liturgia, ad una domanda di Gianluca sulla prassi moderna di dare ai laici la comunione sulla mano, il cardinale affermò decisamente che, se lui allora fosse stato nella commissione che doveva decidere, avrebbe votato contro riguardo alla prassi di dare la comunione sulla mano. Attraverso i secoli, insigni teologi e grandi mistici ci hanno insegnato che la Santa Eucarestia è veramente il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Gesù Cristo.
I Padri del Concilio di Trento definirono il Divino Sacramento con precisione e cura, San Tommaso d’Aquino ci ha insegnato che, al di là della venerazione verso questo Sacramento, toccare ed amministrare il Sacramento spetta solo al sacerdote o al diacono. Per secoli i genitori cattolici, a casa, così come le suore insegnanti, a scuola, le catechiste, in parrocchia, hanno insegnato che era sacrilegio per chiunque toccare l’Ostia Santa, tranne che per il sacerdote od il diacono. Attraversi i secoli i papi, i vescovi, i preti ci hanno insegnato la stessa cosa, non tanto con le parole, ma con l’esempio, specialmente con la celebrazione della Messa secondo il rito di san Pio V, in cui c’era, in ogni gesto che il sacerdote faceva, profondo rispetto per il Divino Sacramento, in quanto vero Corpo di Cristo. Ma l’introduzione della Comunione sulla mano dimostra un’inosservanza di quanto i nostri Padri, lungo i secoli, ci hanno insegnato.
E benché questa pratica sia stata introdotta ed erroneamente presentata come uno sviluppo liturgico autentico, sotto mandato del Concilio Vaticano II, in realtà, la Comunione sulla mano non solo non è uno sviluppo liturgico autentico, ordinato dal Concilio Vaticano II, ma mostra disobbedienza e disprezzo totali nei confronti di secoli di insegnamento e pratica. La Comunione sulla mano fu introdotta sotto un falso ecumenismo, cui è stato consentito di crescere grazie alla debolezza dell’Autorità ecclesiastica, approvata attraverso compromessi e falso senso di tolleranza ed ha portato ad una profonda irriverenza ed indifferenza verso il Santissimo Sacramento, come disposizione liturgica dei nostri giorni. La Comunione sulla mano non è menzionata in nessun documento del Vaticano II, né se ne parlò nei dibattiti conciliari ; in nessuno dei sedici documenti del Concilio è menzionata la Comunione sulla mano.
Prima del Vaticano II non c’è testimonianza storica di vescovi, preti o laici che abbiano richiesto ad alcuno l’introduzione della Comunione sulla mano. Al contrario, chiunque crebbe nella Chiesa preconciliare, ricorderà chiaramente che gli fu insegnato che era sacrilegio per chiunque, tranne che per il prete, toccare l’Ostia Sacra. Lo mette in evidenza l’insegnamento di San Tommaso d’Aquino, nella sua Summa Theologica. Egli spiega: “Dispensare il Corpo di Cristo spetta al sacerdote per tre ragioni: 1°: perché egli consacra nella persona di Cristo. Ma come Cristo consacrò il Suo Corpo nell’Ultima Cena e fu Lui che ne diede agli altri per essere condiviso da loro, così, come la consacrazione del Corpo di Cristo spetta al sacerdote, anche la distribuzione spetta a lui; 2°: perché il prete è l’intermediario stabilito tra Dio e il popolo, quindi spetta a lui offrire i doni del popolo a Dio, così spetta a lui distribuire i doni consacrati al popolo; 3°: perché, al di là del rispetto per questo Sacramento, nulla lo può toccare tranne ciò che è consacrato ; allo stesso modo solo le mani del sacerdote lo possono toccare. Quindi a nessun altro è lecito toccarlo, tranne che per necessità, per esempio se stesse per cadere per terra, o altro, in qualche caso di emergenza” (ST.III, Q 82, Art. 13).
San Tommaso, che nella Chiesa è il principe dei teologi, la cui Summa Theologica fu posta sull’altare vicino alle Scritture, durante il Concilio di Trento, chiaramente insegna che spetta al prete e soltanto a lui toccare e distribuire l’Ostia Sacra, che solo ciò che è consacrato (le mani del sacerdote) deve toccare il Consacrato (l’Ostia Sacra). La Comunione sulla mano certamente fu praticata nella Chiesa antica, ma attenzione gli uomini potevano ricevere l’Eucarestia sulla mano, mentre le donne non potevano riceverLa sulle mani nude e dovevano coprirle con un indumento chiamato domenicale. Nel quarto secolo, San Cirillo di Gerusalemme insegnava ai fedeli che si doveva ricevere il Santissimo Sacramento con il massimo rispetto ed attenzione. Diceva:
“Prendetene considerazione di non smarrirne, poiché, se ne perdereste, subireste una perdita, come se fosse una delle vostre membra. Ditemi, se qualcuno vi desse della polvere d’oro, non la conservereste con ogni possibile cura, assicurandovi di non smarrirne o di subire alcuna perdita ? Allo stesso modo non vorreste essere molto più cauti per assicurarvi che nemmeno una briciola cada da ciò che è più prezioso dell’oro e delle pietre preziose ?”. Appare evidente, da questa affermazione che, nel quarto secolo, quando la nostra Chiesa era in fase di crescita, benché la pratica fosse ammessa, il grande San Cirillo, Padre e Dottore della Chiesa, andava ammonendo i fedeli, affermando che dovevano ricevere il Santissimo Sacramento con la massima riverenza. Con il passare del tempo, man mano che il rispetto ed il discernimento della vera natura del SS. Sacramento, grazie alla guida dello Spirito Santo, crebbe e si perfezionò, la pratica di porre l’Ostia sulla lingua del comunicando divenne sempre più diffusa, così che non ci fosse la più remota possibilità che la più piccola particella cadesse a terra e fosse dissacrata.
La Comunione sulla mano fu condannata come un abuso al Sinodo di Rouen nell’anno 650, così che si può dire con ragionevole certezza che, grazie al desiderio di maggior rispetto e come salvaguardia contro la dissacrazione, era la norma riceverLa sulla lingua.
Don Marcello Stanzione (Ri-Fondatore della M.S.M.A.)

giovedì 21 agosto 2008

LA CASA DELLA MADONNA A EFESO


Di Egidio Picucci
Avvenire
29 Novembre 2006

Sulla strada che da Smirne porta verso il sud-est della Turchia, in direzione di Pamukkale, un cartello segnala Ephès, ma la imboccano solo i pullman dei turisti, perché Ephès è tutta ed esclusivamente per loro: la gente vive a Selçuk, una cittadina che ne ha raccolto la popolazione, ma non l'importanza e lo splendore. Ephès è una città dissepolta e si stenta a credere che tra le rovine abbiano sfilato bibliche processioni dietro la statua della dea Artemide, o quella più modesta che nel 431 accompagnò con le fiaccole sulla Via dei Cureti i vescovi che avevano proclamato, nella chiesa ancora in piedi, che la Madonna è veramente Madre di Dio. Come si stenta a credere che della numerosa comunità cristiana d'un tempo non vi sia rimasto nessuno: Selçuk è interamente musulmana.
Gli Atti degli Apostoli parlano a lungo della Chiesa di Efeso, nata dalla predicazione di Paolo e di Giovanni, il quale, nella lettera inviata al suo angelo, ne loda la bontà e la tenacia nell'opporsi all'eresia nascente. Tuttavia, se di essa non rimangono le anime, rimangono almeno i luoghi. Luoghi vivi, perché colmi ancora della presenza dei tre protagonisti della nascente comunità cristiana: la Madonna, san Giovanni e san Paolo.
La Madonna è presente nella Basilica del Concilio, dove i cattolici di Smirne ricordano ogni anno con una particolare liturgia la proclamazione della sua divina maternità; san Giovanni sopravvive nel sepolcro custodito nella Basilica fatta costruire dall'imperatore Giustiniano, e nella quale la diocesi di Smirne organizza il venerdì santo una solenne Via Crucis;
Paolo è presente nella scuola di Tiranno in cui insegnò per due anni «a tutti quelli, giudei e greci, che abitavano in Asia» nelle ore più calde del giorno. Non è molto, d'accordo, ma è la fiamma che non si spegne, tenuta accesa anche da migliaia di pellegrini che ripercorrono le vie di Paolo, contro il quale insorsero gli argentieri della città che trasformarono il teatro (c'è ancora anche quello) in un'arena.
Il luogo più vivo, comunque, è il piccolo santuario di Meryem Ana, la Madre Maria, posto in cima al Bülbül Dag (collina dell'usignolo) e nel quale, secondo una tradizione che risale al II secolo, si conserva la casa in cui visse la Madonna.
Quando se ne era persa completamente la memoria, fu ritrovato grazie alle pressioni che la Superiora delle Figlie della Carità di Smirne fece ai lazzaristi padre Henry Ioung e padre Eugène Poulin. Avendo letto nella Vita della Madonna scritta secondo le rivelazioni della beata Anna Caterina Emmerick, che la Vergine era vissuta sulla collina sovrastante Efeso, la suora pregò i due sacerdoti di controllare l'esattezza delle informazioni. Era il 1891. Le insistenze di madre Marie Mandat de Grancey costrinsero un bel giorno i due renitenti lazzaristi a tentare l'avventura, che si concluse con il ritrovamento della casa nel luogo esatto segnalato dalla Emmerick. Padre Poulin era un vecchio soldato dell'armée napoleonica e padre Ioung scienziato di unghia dura, per cui non si arresero facilmente e fecero un'indagine meticolosa prima tra i resti della casa e poi tra gli abitanti della vicina Sirinçé, scoprendo che essi, pur essendo ortodossi e quindi in teoria necessariamente propensi alla tradizione favorevole alla dormitio della Madonna a Gerusalemme, erano invece convinti che essa fosse avvenuta sul Bülbül Dag, dove ogni 15 agosto si recavano in pellegrinaggio.
Da allora Meryem Ana è diventato un piccolo santuario ecumenico perché musulmani e cattolici vi pregano abitualmente insieme e insieme portano ex voto di ringraziamento. Per lo Stato è un museo (si paga un biglietto di ingresso), per la gente è l'evi cioè «la casa» di Meryem.
Per questo la Conferenza episcopale turca l'ha proclamato santuario mariano nazionale. È il santuario che Benedetto XVI visiterà oggi, seguendo l'esempio di Paolo VI, che vi si recò nel 1967, e quello di Giovanni Paolo II che si inginocchiò davanti all'immagine della Madonna senza mani (le perse quando fu gettata in un dirupo durante la prima guerra mondiale) nel 1979. Indagini fatte da vari archeologi, tra cui il professor Adriano Prandi nel 1965-67, hanno rivelato elementi che fanno risalire il nucleo originario ai primi secoli della nostra era. Nell'attesa che altri riprendano le indagini tra i platani sopravvissuti all'incendio dell'estate scorsa che ha distrutto tutto il bosco che circonda il santuario, risparmiando solo la cappella e le abitazioni dei religiosi e delle religiose che lo custodiscono, la buona gente pensa al presente e si preoccupa del futuro che, messi sotto la protezione di Meryem Ana, saranno affrontati con serena fiducia. Anche questo è un modo di restituite a Efeso l'importanza di un tempo, giacché anche oggi il luogo, più che dei monumenti che la abbelliscono, è dei pellegrini che vi arrivano da tutto il mondo non per vedere le malefatte degli uomini, ma per ammirare le opere di Dio.
Che sono ancora molte, anche se in pochi altri luoghi, come a Efeso, si ha la conferma particolarmente espressiva di Eraclito, che vi nacque. La dottrina del suo perpetuo divenire si legge in tre mondi: quello pagano nell'Artemisio, di cui rimane in piedi una sola colonna; quello musulmano, vigilato dal minareto della moschea di Isa Bey, sottostante la basilica di San Giovanni; quello cristiano, vivo nella Chiesa del Concilio e in quella di San Giovanni, ma soprattutto nel santuario di Meryem Ana, visitato da quasi due milioni di pellegrini l'anno. Dei tre rimane ha quindi limitato i danni del divenire solo il mondo cristiano, cosa che Eraclito non aveva previsto.

(fonte: http://www.radiomaria.it/)

Per approfondimenti sul tema vi rimando a questo link: www.gli scritti.it

Video 


martedì 19 agosto 2008

Chi non condivide la fede non può progettare una chiesa



Il vescovo Mauro Piacenza:

Chi non condivide la fede non può progettare una chiesa
L'ex «ministro» dei beni culturali del Vaticano:
«L'architettura deve corrispondere ai criteri della liturgia»«Personalmente credo che una chiesa debba essere progettata da chi condivide la fede cattolica o almeno ne conosca i contenutì, la storia e ne avverta, il fascino». Così si esprime il vescovo Mauro Piacenza, presidente della Pontificia commissione dei beni culturali della Chiesa. Quali criteri devono essere tenuti presenti da chi costruisce?«L'architettura sacra deve corrispondere ai criteri dell'arte sacra, e adempiere a funzioni pratiche, cioè lasciarsi formare nella sua funzionalità dalle esigenze liturgiche.. ». Detto in concreto?«Ad esempio, lo spazio va orientato sull'altare, che rappresenta il sacrificio di Cristo, e sul tabernacolo come luogo della sua presenza in mezzo a noi sotto le specie eucaristìche. Deve essere possibile l'adorazione. Per i fedeli, la chiesa deve essere un luogo di raccoglimento, preghiera e devozione. Bisogna che sia chiara la distinzione tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ordinato del prete, non per separare ma per esprimere le differenti ricchezze dell'unico sacerdozio di Cristo. Nel quartiere, poi, la chiesa deve essere una presenza visibile: la croce è un elemento insostituibile». Condivide il richiamo lanciato al Sinodo? «Assolutamente sì. E non devono identificarsi per nulla con le costruzioni profane, ma essere vere case del "Dio con noi". Fin dall'antichità le chiese erano considerate espressioni della Gerusalemme celeste. Anche le nuove costruzioni devono esprimere il mistero della fede, richiamare in modo inequivocabile la sacralità della celebrazione eucaristica. Per questo ho sempre pensato che chi non condivide la fede non possa progettare una chiesa». Non crede che la Chiesa debba fare un po' di autocritica di fronte a certe costruzioni? Non è il committente che deve controllare? «Dobbiamo riconoscere gli errori commessi, talvolta a causa della superficialità. La committenza ha indubbiamente delle responsabilità.




lunedì 18 agosto 2008

Essere degni di ricevere la santa comunione



Principi generali di Joseph Ratzinger, giugno 2004
Ai primi di giugno del 2004, da Roma, l'allora cardinale Ratzinger inviò al cardinale Theodore E. McCarrick, arcivescovo di Washington e capo della commissione per la "domestic policy" della conferenza episcopale degli Stati Uniti, una nota con precise indicazioni sulla questione.

1. Presentarsi a ricevere la santa comunione dovrebbe essere una decisione consapevole, fondata su un giudizio ragionato riguardante il proprio essere degni a farla, secondo i criteri oggettivi della Chiesa, ponendo domande del tipo: "Sono in piena comunione con la Chiesa cattolica? Sono colpevole di peccato grave? Sono incorso in pene (ad esempio scomunica, interdetto) che mi proibiscono di ricevere la santa comunione? Mi sono preparato digiunando almeno da un ora?". La pratica di presentarsi indiscriminatamente a ricevere la santa comunione, semplicemente come conseguenza dell'essere presente alla messa, è un abuso che deve essere corretto (cf. l'istruzione "Redemptionis Sacramentum", nn. 81, 83).

2. La Chiesa insegna che l'aborto o l'eutanasia è un peccato grave. La lettera enciclica "Evangelium Vitae", con riferimento a decisioni giudiziarie o a leggi civili che autorizzano o promuovono l'aborto o l'eutanasia, stabilisce che c'è un "grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. [...] Nel caso di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, 'né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto'" (n. 73). I cristiani "sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. [...] Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede" (n. 74).

3. Non tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell'aborto e dell'eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre sull'applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la santa comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra, e ad esercitare discrezione e misericordia nell'applicare una pena a criminali, può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull'applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all'aborto e all'eutanasia.

4. A parte il giudizio di ciascuno sulla propria dignità a presentarsi a ricevere la santa eucaristia, il ministro della santa comunione può trovarsi nella situazione in cui deve rifiutare di distribuire la santa comunione a qualcuno, come nei casi di scomunica dichiarata, di interdetto dichiarato, o di persistenza ostinata in un peccato grave manifesto (cf. can. 915).

5. Riguardo al peccato grave dell'aborto o dell'eutanasia, quando la formale cooperazione di una persona diventa manifesta (da intendersi, nel caso di un politico cattolico, il suo far sistematica campagna e il votare per leggi permissive sull'aborto e l'eutanasia), il suo pastore dovrebbe incontrarlo, istruirlo sull'insegnamento della Chiesa, informarlo che non si deve presentare per la santa comunione fino a che non avrà posto termine all'oggettiva situazione di peccato, e avvertirlo che altrimenti gli sarà negata l'eucaristia.

6. Qualora "queste misure preventive non avessero avuto il loro effetto o non fossero state possibili", e la persona in questione, con persistenza ostinata, si presentasse comunque a ricevere la santa eucaristia, "il ministro della santa comunione deve rifiutare di distribuirla" (cf. la dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, "Santa comunione e cattolici divorziati e risposati civilmente", 2000, nn. 3-4). Questa decisione, propriamente parlando, non è una sanzione o una pena. Né il ministro della santa comunione formula un giudizio sulla colpa soggettiva della persona; piuttosto egli reagisce alla pubblica indegnità di quella persona a ricevere la santa comunione, dovuta a un'oggettiva situazione di peccato.

[N.B. Un cattolico sarebbe colpevole di formale cooperazione al male, e quindi indegno di presentarsi per la santa comunione, se egli deliberatamente votasse per un candidato precisamente a motivo delle posizioni permissive del candidato sull'aborto e/o sull'eutanasia. Quando un cattolico non condivide la posizione di un candidato a favore dell'aborto e/o dell'eutanasia, ma vota per quel candidato per altre ragioni, questa è considerata una cooperazione materiale remota, che può essere permessa in presenza di ragioni proporzionate.]

sabato 16 agosto 2008

Recuperare il senso del sacro


(fonte:www.lozuavopontificio.net)
Presentiamo il testo dell'intervista rilasciata da monsignor Malcolm Ranjith, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nella quale il presule spiega come le nuove norme introdotte in questo ultimo periodo da Papa Benedetto XVI in fatto di liturgia siano finalizzate a recuperare il senso del sacro, soprattutto nella celebrazione della Santa Messa.
Spiega infatti: «... la fede della Chiesa nella presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche va espressa attraverso gesti adeguati... Non siamo dinanzi ad un capo politico o un personaggio della società moderna, ma davanti a Dio. Quando sull'altare scende la presenza di Dio eterno, dobbiamo metterci nella posizione più adatta per adorarlo».

Perché Ratzinger recupera il sacro
Il segnale è stato inequivocabile. Prima il Corpus Domini a Roma, poi lo si è visto in mondovisione a Sidney. Benedetto XVI esige che davanti a lui la comunione venga ricevuta in ginocchio. È uno dei tanti recuperi di questo pontificato: il latino, la messa tridentina, la celebrazione con le spalle rivolte ai fedeli.Papa Ratzinger ha un disegno e lo srilankese monsignor Malcolm Ranjith, che il pontefice ha voluto con sé in Vaticano come segretario della Congregazione per il Culto, lo delinea con efficacia. L'attenzione alla liturgia, spiega, ha l'obiettivo di un'«apertura al trascendente». Su richiesta del pontefice, preannuncia Ranjith, la Congregazione per il Culto sta preparando un Compendio eucaristico per aiutare i sacerdoti a «disporsi bene per la celebrazione e l'adorazione eucaristica».
La comunione in ginocchio va in questa direzione?
«Nella liturgia si sente la necessità di ritrovare il senso del sacro, soprattutto nella celebrazione eucaristica. Perché noi crediamo che quanto succede sull'altare vada molto oltre quanto noi possiamo umanamente immaginare. E quindi la fede della Chiesa nella presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche va espressa attraverso gesti adeguati e comportamenti diversi da quelli della quotidianità».
Marcando una discontinuità?
«Non siamo dinanzi ad un capo politico o un personaggio della società moderna, ma davanti a Dio. Quando sull'altare scende la presenza di Dio eterno, dobbiamo metterci nella posizione più adatta per adorarlo. Nella mia cultura, nello Sri Lanka, dovremmo prostrarci con la testa sul pavimento come fanno i buddisti e i musulmani in preghiera».
L'ostia nella mano sminuisce il senso di trascendenza dell'eucaristia?
«In un certo senso sì. Espone il comunicante a sentirla quasi come un pane normale. Il Santo Padre parla spesso della necessità di salvaguardare il senso dell'al-di-là nella liturgia in ogni sua espressione. Il gesto di prendere l'ostia sacra e metterla noi stessi in bocca e non riceverla, riduce il profondo significato della comunione».
Si vuole contrastare una banalizzazione della messa?
«In alcuni luoghi si è perso quel senso di eterno, sacro o di celeste. C'è stata la tendenza a mettere l'uomo al centro della celebrazione e non il Signore. Ma il Concilio Vaticano II parla chiaramente della liturgia come actio Dei, actio Christi. Invece in certi circoli liturgici, vuoi per ideologia vuoi per un certo intellettualismo, si è diffusa l'idea di una liturgia adattabile a varie situazioni, in cui si debba far spazio alla creatività perché sia accessibile e accettabile a tutti. Poi magari c'è chi ha introdotto innovazioni senza nemmeno rispettare il sensus fidei e i sentimenti spirituali dei fedeli».
A volte anche vescovi impugnano il microfono e vanno verso l'uditorio con domande e risposte.
«Il pericolo moderno è che il sacerdote pensi di essere lui al centro dell'azione. Così il rito può assumere l'aspetto di un teatro o della performance di un presentatore televisivo. Il celebrante vede la gente che guarda a lui come punto di riferimento e c'è il rischio che, per avere più successo possibile con il pubblico, inventi gesti ed espressioni facendo da protagonista».
Quale sarebbe l'atteggiamento giusto?
«Quando il sacerdote sa di non essere lui al centro, ma Cristo. Rispettare in umile servizio al Signore e alla Chiesa la liturgia e le sue regole, come qualcosa di ricevuto e non di inventato, significa lasciare più spazio al Signore perché attraverso lo strumento del sacerdote possa stimolare la coscienza dei fedeli».
Sono deviazione anche le omelie pronunciate dai laici?
«Sì. Perché l'omelia, come dice il Santo Padre, è il modo con cui la Rivelazione e la grande tradizione della Chiesa viene spiegata affinché la Parola di Dio ispiri la vita dei fedeli nelle loro scelte quotidiane e renda la celebrazione liturgica ricca di frutti spirituali. E la tradizione liturgica della Chiesa riserva l'omelia al celebrante. Ai Vescovi, ai sacerdoti e ai diaconi. Ma non ai laici».
Assolutamente no?
«Non perché loro non siano capaci di fare una riflessione, ma perché nella liturgia i ruoli vanno rispettati. Esiste, come diceva il Concilio, una differenza "in essenza e non solo in grado" tra il sacerdozio comune di tutti i battezzati e quello dei sacerdoti».
Già il cardinale Ratzinger lamentava nei riti la perdita del senso del mistero.
«Spesso la riforma conciliare è stata interpretata o considerata in modo non del tutto conforme alla mente del Vaticano II. Il Santo Padre definisce questa tendenza l'antispirito del Concilio».
A un anno dalla piena reintroduzione della messa tridentina qual è il bilancio?«La messa tridentina ha al suo interno valori molto profondi che rispecchiano tutta la tradizione della Chiesa. C'è più rispetto verso il sacro attraverso i gesti, le genuflessioni, i silenzi. C'è più spazio riservato alla riflessione sull'azione del Signore e anche alla personale devozionalità del celebrante, che offre il sacrificio non solo per i fedeli ma per i propri peccati e la propria salvezza.Alcuni elementi importanti del vecchio rito potranno aiutare anche la riflessione sul modo di celebrare il Novus Ordo. Siamo all'interno di un cammino».
Un domani vede un rito che prenda il meglio del vecchio e del nuovo?
«Può darsi... io forse non lo vedrò. Penso che nei prossimi decenni si andrà verso una valutazione complessiva sia del rito antico che del nuovo, salvaguardando quanto di eterno e soprannaturale avviene sull'altare e riducendo ogni protagonismo per lasciare spazio al contatto effettivo tra il fedele e il Signore attraverso la figura non predominante del sacerdote».
Con posizioni alternate del celebrante? Quando il sacerdote sarebbe rivolto verso l'abside?
«Si potrebbe pensare all'offertorio, quando le offerte vengono portate al Signore, e di là sino alla fine della preghiera eucaristica, che rappresenta il momento culminante della "trans-substantiatio" e la "communio"».
Disorienta i fedeli il prete che volge le spalle.
«È sbagliato dire così. Al contrario, insieme al popolo si rivolge al Signore. Il Santo Padre nel suo libro Lo spirito del Concilio ha spiegato che quando ci si siede attorno, guardando ognuno la faccia dell'altro, si forma un circolo chiuso. Ma quando il sacerdote e i fedeli insieme guardano l'Oriente, verso il Signore che viene, è un modo di aprirsi all'eterno».
In questa visione si inserisce anche il recupero del latino?
«Non mi piace la parola recuperare. Realizziamo il Concilio Vaticano II, che afferma esplicitamente che l'uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti latini. Dunque, anche se è stato dato spazio all'introduzione delle lingue vernacolari, il latino non va abbandonato completamente. L'uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell'Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell'Islam si impiega l'arabo del Corano. L'uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell'al-di-là».
Il latino come lingua sacra nella Chiesa?
«Certo. Il Santo Padre stesso ne parla nell'esortazione apostolica Sacramentum Caritatis al paragrafo 62: "Per meglio esprimere l'unità e l'universalità della Chiesa vorrei raccomandare quanto suggerito dal Sinodo dei vescovi in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano II. Eccettuate le letture, l'omelia e la preghiera dei fedeli, è bene che tali celebrazioni siano in lingua latina". Beninteso, durante incontri internazionali».
Ridando forza alla liturgia, dove vuole arrivare Benedetto XVI?
«Il Papa vuole offrire la possibilità d'accesso alla meraviglia della vita in Cristo, una vita che pur vivendola qui sulla terra già ci fa sentire la libertà e l'eternità dei figli di Dio. E una tale esperienza si vive fortemente attraverso un autentico rinnovamento della fede quale presuppone il pregustare delle realtà celesti nella liturgia che si crede, si celebra e si vive. La Chiesa è, e deve diventare, lo strumento valido e la via per questa esperienza liberante. E la sua liturgia quella che la rende capace di stimolare tale esperienza nei suo i fedeli».

venerdì 15 agosto 2008

COSTITUZIONE APOSTOLICA DI PIO XII "MUNIFICENTISSIMUS DEUS"



Solenne Definizione Dogma dell'Assunzione in Cielo di Maria Santissima in Anima e Corpo.

«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo».
«Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica. » 





LA GLORIFICAZIONE DI MARIA CON L'ASSUNZIONE AL CIELO IN ANIMA E CORPO
1° novembre 1950(1)


PIO VESCOVO

servo dei servi di Dio a perenne memoria

Il munificentissimo Dio, che tutto può e le cui disposizioni di provvidenza sono fatte di sapienza e d'amore, nei suoi imperscrutabili disegni contempera nella vita dei popoli e in quella dei singoli uomini dolori e gioie, affinché per vie diverse e in diverse maniere tutto cooperi in bene per coloro che lo amano (cf. Rm 8,28).
Il Nostro pontificato, come anche l'età presente, è assillato da tante cure, preoccupazioni e angosce, per le presenti gravissime calamità e l'aberrazione di molti dalla verità e dalla virtù; ma Ci è di grande conforto vedere che, mentre la fede cattolica si manifesta pubblicamente più attiva, si accende ogni giorno più la devozione verso la vergine Madre di Dio, e quasi dovunque è stimolo e auspicio di una vita migliore e più santa. Per cui, mentre la santissima Vergine compie amorosissimamente l'ufficio di madre verso i redenti dal sangue di Cristo, la mente e il cuore dei figli sono stimolati con maggiore impegno a una più amorosa contemplazione dei suoi privilegi.
Dio, infatti, che da tutta l'eternità guarda Maria vergine, con particolare pienissima compiacenza, «quando venne la pienezza del tempo» (Gal 4,4), attuò il disegno della sua provvidenza in tal modo che risplendessero in perfetta armonia i privilegi e le prerogative che con somma liberalità ha riversato su di lei. Che se questa somma liberalità e piena armonia di grazie dalla chiesa furono sempre riconosciute e sempre meglio penetrate nel corso dei secoli, nel nostro tempo è stato posto senza dubbio in maggior luce il privilegio della corporea assunzione al cielo della vergine Madre di Dio Maria.
Questo privilegio risplendette di nuovo fulgore fin da quando il nostro predecessore Pio IX, d'immortale memoria, definì solennemente il dogma dell'immacolata concezione dell'augusta Madre di Dio. Questi due privilegi infatti sono strettamente connessi tra loro. Cristo con la sua morte ha vinto il peccato e la morte, e sull'uno e sull'altra riporta vittoria in virtù di Cristo chi è stato rigenerato soprannaturalmente col battesimo. Ma per legge generale Dio non vuole concedere ai giusti il pieno effetto di questa vittoria sulla morte se non quando sarà giunta la fine dei tempi. Perciò anche i corpi dei giusti dopo la morte si dissolvono, e soltanto nell'ultimo giorno si ricongiungeranno ciascuno con la propria anima gloriosa.
Ma da questa legge generale Dio volle esente la beata vergine Maria. Ella per privilegio del tutto singolare ha vinto il peccato con la sua concezione immacolata; perciò non fu soggetta alla legge di restare nella corruzione del sepolcro, né dovette attendere la redenzione del suo corpo solo alla fine del mondo.

Solennità di Maria Assunta in Cielo in Anima e Corpo

(Luca 1: 46,55)
«L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre» .

Davvero benedetto è il Tuo nome o Maria!
Grande sei Tu, perchè nella piccolezza e nell'umiltà Ti sei nascosta...
In Te l'umanità può trovare la più sublime tra tutte le creature.
Con Te l'umanità vuol camminare fino alla meta.
Amen
Dossier a cura dell'agenzia Fides sulla solennità:
http://www.fides.org/ita/documents/dossier_assunta_100807.doc

mercoledì 13 agosto 2008

La santità semplice




La santità semplice dei tre pastorelli

Dopo le apparizioni, Giacinta e Francesco Marto cominciarono a trascorrere lunghe ore in preghiera, specialmente nella recita del Santo Rosario, tanto raccomandato dalla Madonna. Le parole della Vergine: "Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Badate che molte, molte anime vanno all’Inferno perché non vi è chi preghi e si sacrifichi per loro…", si stamparono indelebilmente nel loro cuore, furono il faro di tutte le loro azioni.
Fin dal tempo delle prime apparizioni i bambini presero l’abitudine di dare la loro merenda ai poveri. Per saziare gli stimoli della fame si nutrivano alla meglio con radici, ghiande, frutti selvatici. "Così si convertiranno più peccatori" – diceva Giacinta. Le loro giornate erano puntellate di giaculatorie, atti d’amore a Gesù e Maria. Giacinta ripeteva spesso: "Voglio tanto bene a Nostro Signore e alla Madonna che non mi stanco mai di dir loro che li amo".
Sicuri, per la promessa della Madre Celeste, di dover lasciare presto la terra, essi preferivano spesso saltare la scuola per fermarsi in chiesa a pregare. Soprattutto Francesco, che provava un’attrazione vivissima a consolare Gesù per i peccati con cui veniva offeso, restando in silenziosa preghiera davanti al Tabernacolo, diceva sovente a Lucia: "Senti, va’ tu a scuola e io resto qui in chiesa con Gesù Nascosto. Tanto, per me non vale la pena di imparare: fra poco me ne vado in Cielo… Al ritorno passa a chiamarmi". E là lo ritrovava lei qualche ora dopo, in un angolo accanto al Tabernacolo.
Giacinta praticava l’immolazione nascosta per salvare i peccatori, portando una corda stretta attorno al corpo e sopportando in spirito di penitenza ogni contrarietà. Alla fine della sua vita, gravemente ammalata, fu internata in un Ospedale di Lisbona, dove morì da sola. "O mio Gesù – furono le sue parole –, ora puoi convertire molti peccatori, perché questo sacrificio è molto grande…".
Francesco giunse attraverso la preghiera del Rosario ai vertici della contemplazione. Consolare Gesù e Maria era il suo proposito. Stava molto tempo in solitudine, tra le rocce e gli alberi per pregare in silenzio, come un piccolo eremita.


"Nella vicenda di questi due bambini c’è un piccolo trattato di antropologia cristiana.

Chi è l’uomo? La tradizione illuminista lo vide una coscienza in grado di determinarsi. È una grande acquisizione. Ma ha rischiato di chiudere l’uomo su se stesso. Francesco e Giacinta, invece, vedono l’altro non come un estraneo, ma come qualcuno con cui solidarizzare fino al punto di assumersene il peso. È l’idea di un’antropologia relazionale, che in qualche modo è anche un riflesso della vita trinitaria".
Ciò che due bambini, per di più analfabeti, avevano allora compreso al lume della fede era di essere, anche con i loro pochi anni, membra vive del Corpo Mistico che è la Chiesa; di qui, il dovere di contribuire secondo le proprie forze alla salvezza delle anime. Ecco allora spiegate le preghiere incessanti e i sacrifici offerti per i peccatori, come la Santa Vergine aveva loro raccomandato.
Essi perciò sono proposti come modelli di santità, ha detto il loro Postulatore, il gesuita p. Paolo Molinari, "per come dei bambini hanno sviluppato il loro spirito di fede nel Signore e messo in pratica quello che la Madonna aveva loro detto: pregare il Rosario e sacrificarsi per i peccatori". La pedagogia della Madre di Dio non ha confronti. In pochi anni elevò Francesco e Giacinta alle vette della santità. Una vita molto breve, la loro, ma perfettamente compiuta, che si concluse durante l’epidemia di "spagnola" che falcidiò milioni di vite nel primo dopoguerra. Maria venne a prenderli personalmente, come aveva loro promesso.
Francesco ricevette la Prima Comunione il 3 aprile 1919 e il mattino dopo, all’età di undici anni, morì, stringendo la corona del Rosario, dopo aver detto alla mamma: "Guarda che bella luce vicino alla porta…". Il calvario di Giacinta fu più lungo. La Madonna la visitava spesso e le dava conforto nelle sue sofferenze, che erano indicibili. In breve tempo la piccola salì le vette della santità. Morì, sola, la sera del 20 febbraio 1920, come la Madonna le aveva annunciato. Non aveva che dieci anni di età.

Fatima - Un Segno dei Tempi


La santità dei due pastorelli di Fatima è consistita nell’aver aderito pienamente al messaggio della Vergine, di pregare e fare penitenza per la conversione dei peccatori e la salvezza del mondo.
"Volete offrirvi al Signore, pronti a fare sacrifici e ad accettare volentieri tutte le pene che Egli vorrà mandarvi per la conversione dei peccatori e in riparazione delle offese fatte contro l’Immacolato Cuore di Maria?".
Una vita breve, anzi brevissima, passata sulla terra come un lampo, ma che in una sola risposta, nello spazio di un sì pronunciato con slancio di fanciulli, ha aperto ad essi i cancelli del Cielo e donato la chiave della santità. Giacinta e Francesco Marto: due fratelli di sette e nove anni, pastorelli in uno sperduto villaggio del Portogallo. Non avevano neppure fatto la Prima Comunione quando apparve loro la "bella Signora", il 13 maggio 1917.
E il 13 maggio 2000 il Santo Padre Giovanni Paolo II, pellegrino a Fatima, li ha solennemente proclamati Beati.

La ‘bella Signora’ vestita di luce
All’epoca delle apparizioni Giacinta e Francesco non sapevano leggere; solo Lucia, la terza veggente, di dieci anni di età, aveva fatto già la Prima Comunione. Non erano bambini particolarmente devoti. Basti pensare al modo piuttosto birichino che essi avevano di recitare il Rosario: dicevano ‘Padre Nostro’ e poi, subito infilavano le parole ‘Ave Maria’, una dietro l’altra, fino al Pater successivo. Così il Rosario finiva in un baleno e loro potevano tornare, senza rimorsi, ai loro giochi infantili.
Il 13 maggio 1917, i tre fanciulli si trovano a pascolare nella conca chiamata Cova da Iria, a tre chilometri da Fatima, quando esplode un lampo nel cielo. "Dietro la montagna c’è il temporale" – dice Lucia, impensierita –; "torniamo a casa". Si stanno avviando a radunare le pecore quando un secondo lampo, più abbagliante del primo, li acceca. I bambini affrettano il passo, ma ecco che sopra un piccolo elce, alto poco più di un metro, splende una bellissima Signora vestita di luce, più luminosa del sole. Con un cenno grazioso li tranquillizza: "Non abbiate paura, non voglio farvi alcun male…".
Lucia domanda: "Di dove siete, Signora?".
"Il mio paese è il Cielo".
– "E che cosa volete da noi?".
– "Sono venuta a chiedervi di venire qui a quest’ora il giorno 13 di ogni mese per sei volte di seguito, fino a Ottobre. In Ottobre vi dirò chi sono e che cosa voglio da voi…".
– "Voi venite dal Cielo? E io andrò in Cielo?", la incalza Lucia.
– "Sì, ci verrai".
– "E Giacinta?".
– "Anche Giacinta".
– "E Francesco?".
La bella Signora avvolge in un lungo sguardo carezzevole il fanciullo e soggiunge: "Anche Francesco, ma prima dovrà recitare molti Rosari…".
Poi chiede:
"Siete disposti a offrirvi al Signore, pronti a fare sacrifici e ad accettare volentieri tutte le sofferenze che Egli vorrà mandarvi, in riparazione di tanti peccati con i quali viene offesa la sua Divina Maestà, per ottenere la conversione dei peccatori e in riparazione delle offese fatte contro l’Immacolato Cuore di Maria?".
Lucia di slancio, a nome anche degli altri, risponde: "Sì, lo vogliamo".
La Signora raccomanda ai bambini di dire il Rosario tutti i giorni e sparisce a poco a poco.

Il ‘miracolo del sole’

I tre, pieni di gioia, al tramonto raccolsero le pecore e tornarono a casa. Lucia aveva raccomandato ai cuginetti di tacere, ma Giacinta parlò con sua madre e la notizia presto si diffuse. E con la notizia cominciarono anche i guai. Minacce, vessazioni, scetticismo generale. I bambini furono arrestati e portati in prigione per essersi rifiutati di riferire ciò che la Madonna aveva loro rivelato; minacciati addirittura di finire in una caldaia di olio bollente. Ma non batterono ciglio.
Le apparizioni, in tutto sei, si susseguirono regolarmente il 13 di ogni mese. All’ultima, quella di Ottobre, c’erano oltre sessantamila persone presenti alla Cova da Iria insieme ai fanciulli. Gente venuta da ogni parte del Portogallo, per fede o per curiosità. Pioveva da varie ore e una malinconia autunnale avvolgeva gli infreddoliti pellegrini. Prima di mezzogiorno, Lucia dette ordine di chiudere gli ombrelli e di cominciare la recita del Rosario. Tutti obbedirono.
A mezzogiorno in punto la Signora apparve sull’elce. Sfavillava. I bambini la vedevano distintamente; la gente assiepata vedeva invece solo una nube bianca stagnare attorno ai tre piccoli.
Lucia le domandò: "Chi siete e che cosa volete da noi?".
La Signora rispose di essere la Madonna del Rosario e di volere che in quel luogo fosse costruita una chiesa in suo onore. Raccomandò la recita del Rosario quotidiano, poi disse che la guerra, la Prima Guerra Mondiale, stava per finire e che i soldati avrebbero presto fatto ritorno nelle loro case. "Ma bisogna che si convertano – disse – e non offendano più Nostro Signore, che è già tanto offeso…".
Stava per congedarsi quando col dito indicò il disco del sole. Allora Lucia gridò alla folla: "Guardate il sole!".
In quel momento la pioggia cessò, le nubi si squarciarono e apparve in mezzo ad esse il sole che incominciò a ruotare vorticosamente su se stesso, lanciando in ogni direzione fasci di luce: gialla, verde, rossa, azzurra, viola... A un tratto il disco solare sembrò staccarsi dal cielo e precipitare sulla folla. La gente lanciò un urlo: "Dio mio, misericordia!". Tutti caddero a terra in ginocchio.
Il fenomeno durò dieci minuti e fu visto anche a molti chilometri di distanza dalla Cova. Gli abiti dei pellegrini, prima zuppi di pioggia, erano misteriosamente asciutti.

martedì 12 agosto 2008

Intervista con S.E. Mons. Raymond L. Burke






S.E. mons. Raymond L. Burke, finora arcivescovo di Saint Louis, è stato chiamato lo scorso giugno in Vaticano dal Santo Padre Benedetto XVI per dirigere il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.




L'Eucarestia: diritto o dono?



Eccellenza, sembra che oggi prevalga una visione lassista nei riguardi della ricezione dell'Eucaristia. Perché? Crede poi che questo influenzi i fedeli nel modo di vivere come cattolici?



Una delle ragioni per cui credo che questo lassismo sia andato sviluppandosi è l'insufficiente enfasi nella devozione eucaristica: in modo speciale mediante il culto al Santissimo con le processioni; con le benedizioni del Santissimo; con tempi più lunghi per l'adorazione solenne e con la devozione delle Quaranta Ore. Senza devozione al Santissimo Sacramento la gente perde rapidamente la fede eucaristica. Sappiamo che c'è una percentuale elevata di cattolici che non crede che sotto le specie eucaristiche ci siano il corpo e il sangue di Cristo. Sappiamo inoltre esserci un'allarmante percentuale di cattolici che non partecipano alla Messa domenicale. Un altro aspetto è la perdita del senso di collegamento fra il sacramento della Eucaristia e quello della Penitenza. Forse nel passato c'è stata un'enfasi esagerata al punto che la gente credeva che ogni volta che si riceveva l'Eucaristia si doveva prima confessare anche se non avevano un peccato mortale. Ma ora la gente va regolarmente a comunicarsi e forse mai, o molto di rado, si confessa. Si è perso il senso della nostra propria indegnità per accostarci al Sacramento e del bisogno di confessare i peccati e far penitenza al fine di ricevere degnamente la Sacra Eucaristia. Si somma a questo il senso sviluppatosi a partire dalla sfera civile che consiste nel credere che ricevere l'Eucaristia sia un diritto. Cioè che come cattolici abbiamo il diritto di ricevere la Comunione. È vero che una volta che siamo stati battezzati e abbiamo raggiunto l'uso della ragione, dovremmo essere preparati per ricevere la Sacra Comunione e, se siamo ben disposti, dobbiamo riceverla. Ma d'altra parte noi non abbiamo mai un diritto di ricevere l'Eucaristia. Chi può rivendicare un diritto a ricevere il Corpo di Cristo? Tutto è un atto senza misure dell'amore di Dio. Nostro Signore si rende Egli stesso disponibile nel suo Corpo e nel suo Sangue, ma non possiamo mai dire di avere diritto a riceverLo nella Santa Comunione. Ogni volta che ci accostiamo a Lui, dobbiamo farlo con un senso profondo della nostra indegnità. Questi sarebbero alcuni degli elementi che spiegano l'atteggiamento lassista verso l'Eucaristia in genere. Lo vediamo anche nel modo con cui alcune persone vestono per ricevere la Sacra Comunione. Per esempio, vediamo gente che si avvicina alla Comunione senza unire le mani e persino a volte parlottando fra di loro. Alcuni perfino nel momento di ricevere l'Ostia, non dimostrano un'adeguata riverenza. Tutto ciò è indicazione del bisogno di una nuova evangelizzazione nei riguardi della fede e della pratica eucaristica.
Ci sono leggi della Chiesa per impedire condotte inadeguate da parte dei fedeli a beneficio della comunità. Potrebbe commentarle e spiegarci fino a che punto la Chiesa e la Gerarchia hanno un obbligo di intervenire allo scopo di chiarire e correggere. Nei riguardi dell'Eucaristia, per esempio, ci sono due canoni in particolare che hanno a che fare con la degna ricezione del Sacramento. Essi hanno come scopo due beni. Un bene è quello della persona stessa, perché ricevere indegnamente il Corpo e il Sangue di Cristo è un sacrilegio. Se lo si fa deliberatamente in peccato mortale, è un sacrilegio. Quindi per il bene della persona stessa, la Chiesa deve istruirci dicendoci che ogni volta che riceviamo l'Eucaristia, dobbiamo prima esaminare la nostra coscienza. Se abbiamo un peccato mortale sulla coscienza dobbiamo prima confessarci di quel peccato e ricevere l'assoluzione e, soltanto dopo, accostarci al sacramento eucaristico. Molte volte i nostri peccati gravi sono nascosti e noti solo a noi stessi e forse a pochi altri. In quel caso, dobbiamo essere noi a tenere sotto controllo la situazione ed essere in grado di disciplinarci in modo di non ricevere la Comunione.Ma ci sono altri casi di persone che commettono peccati gravi deliberatamente e sono casi pubblici, come un ufficiale pubblico che con conoscenza e con sentimento sostiene azioni che sono contro la legge morale Divina ed Eterna. Per esempio, pubblicamente appoggia l'aborto procurato, che comporta la soppressione di vite umane innocenti e senza difesa. Una persona che commette peccato in questa maniera è da ammonire pubblicamente in modo che non riceva la Comunione finché non abbia riformato la propria vita.Se una persona che è stata ammonita persiste in un peccato mortale pubblico e si avvicina per ricevere la Comunione, allora il ministro dell'Eucaristia ha l'obbligo di rifiutargliela. Perché? Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di compiere un sacrilegio. Ma anche per la salvezza di tutta la Chiesa, per impedire che ci sia scandalo in due maniere. Primo, uno scandalo riguardante quale debba essere la nostra disposizione per ricevere la Santa Comunione. In altre parole, si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di peccato mortale e accostarsi all'Eucaristia.Secondo, ci potrebbe essere un'altra forma di scandalo, consistente nell'indurre la gente a pensare che l'atto pubblico che questa persona sta facendo, che finora tutti credono sia un peccato serio, non debba esserlo tanto se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la Comunione. Se abbiamo una figura pubblica che apertamente e deliberatamente sostiene i diritti abortisti e che riceve l'Eucaristia, che finirà per pensare la gente comune? Essa può essere portata a credere che è corretto in un certo qual modo sopprimere una vita innocente nel seno materno. Ora la Chiesa ha queste discipline e sono molto antiche. In realtà risalgono ai tempi di san Paolo. Ma lungo la sua storia, la Chiesa ha sempre dovuto disciplinare la materia della ricezione della Comunione, che è il più sacro tesoro che essa possiede. È il dono del Corpo e del Sangue di Cristo. Disciplinare questa pratica in modo che, primo, la gente non si avvicini né riceva la Santa Comunione indegnamente a costo del proprio danno morale e, secondo, che la fede eucaristica sia sempre rispettata e i fedeli non siano indotti in confusione, persino in errore, nei riguardi della sacralità del sacramento e della legge morale.


Eccellenza, ci sono casi in cui figure pubbliche vanno a Messa, ricevono i sacramenti e pubblicamente dicono di essere cattolici ma che, in pratica, sostengono legislazioni contrarie alla morale cattolica. Alcuni di loro, come scusante, sostengono di sentire in coscienza che non fanno niente di sbagliato e che comunque è una vicenda privata. Lei potrebbe spiegare perché questa posizione è erronea e come la formazione della propria coscienza non sia una questione soggettiva.



È vero che dobbiamo agire in modo conforme ai dettami della nostra coscienza, ma essa deve essere adeguatamente formata. La nostra coscienza deve conformarsi alla verità delle situazioni.Essa non è una realtà soggettiva con cui giudico per me stesso cosa è bene e cosa è male. Anzi, essa è una realtà oggettiva per la quale devo conformare il mio pensiero alla verità. A volte si sente parlare del primato della coscienza nel senso di dire "qualsiasi cosa io decida in coscienza, questo devo fare", e un tale assioma poi regola la vita. Certo, questo è vero se la coscienza è stata formata adeguatamente. Amo ripetere quello che ha detto il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney: "anziché parlare di primato della coscienza dobbiamo parlare di primato della verità". Cioè, la verità della legge morale di Dio con la quale la nostra coscienza deve conformarsi. Fatto questo, allora sì che la coscienza ha quel primato che le viene attribuito.


Alcune persone dicono che è parte del diritto di ricevere la Comunione non sentirsi dire da nessuno, neppure da un vescovo, da un sacerdote o da un ministro dell'Eucaristia, cosa devono fare al riguardo. Cosa ne pensa?



Anzitutto bisogna dire che il Corpo e il Sangue di Cristo sono un dono dell'amore di Dio per noi. Il più grande dono, un dono che va oltre la nostra capacità di descriverlo. Dunque nessuno ha diritto a questo dono, esattamente come non abbiamo mai diritto a nessun dono che ci viene fatto. Un dono è gratuito, causato dall'amore, e ciò è precisamente quanto Dio fa ogni volta che partecipiamo alla Messa e riceviamo la Sacra Eucaristia. Pertanto, dire che abbiamo diritto di ricevere la Comunione non è corretto. Se vogliamo dire che, se siamo ben disposti, possiamo accostarci all'Eucaristia nella Messa che si sta celebrando, che abbiamo il diritto di ricevere la Comunione nel senso che abbiamo il diritto di avvicinarci per farlo, allora sì, questo è vero. Orbene, nella ricezione della Sacra Eucaristia sono coinvolti Nostro Signore stesso, la persona che la deve ricevere, e infine il ministro del sacramento, che ha la responsabilità di assicurarsi che l'Eucaristia sia data solo alle persone degne di riceverla. Certamente la Chiesa ha il diritto di dire a chi persiste in un serio peccato pubblico, che non potrà ricevere la Comunione finché non sarà ben disposto per farlo. Questo diritto del ministro di rifiutarsi a dare la Comunione a qualcuno che persiste nel peccato grave e pubblico è salvaguardato dal codice di Diritto Canonico sotto il canone 915. Altrimenti, se si vede negare il diritto del rifiuto a dare l'Eucaristia a un peccatore pubblico che si avvicini a riceverla dando scandalo a tutti, è il ministro che viene messo in situazione di violentare la propria coscienza al riguardo di una materia serissima. Ciò sarebbe semplicemente sbagliato.


Eccellenza, sembra che spesso la richiesta di adempire la legge canonica da parte di un vescovo, di un sacerdote e persino di un'autorità della Curia vaticana, è vista da alcuni come una crudeltà, come un atto prevaricatore nei riguardi dei fedeli. Non vedono questo come un atto di carità, finalizzato a evitare che qualcuno si accosti all'Eucaristia in modo indegno compromettendo la sua salvezza eterna. Per questa ragione la Chiesa ha le sue regole. Potrebbe commentare questo aspetto del ministero?



Sono d'accordo, certo. E il più grande atto di carità evitare che qualcuno faccia una cosa sacrilega. Prima si deve ammonire chi vuole farlo e poi si deve evitare di prendere parte a un sacrilegio.È una situazione analoga a quella del genitore che deve opporsi a che il bambino giochi col fuoco. A chi verrebbe di dire che il genitore non è caritatevole perché lo richiama alla disciplina? Anzi, diremmo che questo è un genitore che veramente ama il figlio. Lo stesso fa la Chiesa; nel suo amore Essa vieta di far cose gravemente offensive a Dio e gravemente dannose alle anime stesse.


Si dice a volte che quando un membro della Gerarchia ammonisce cattolici che sono figure pubbliche, stia usando la sua influenza per interferire nella politica. Come risponde a questa obiezione?



Il vescovo o l'autorità ecclesiastica, potrebbe essere anche il parroco, che interviene in queste situazioni, lo fa solo per il bene dell'anima della figura pubblica coinvolta. Non c'entra nulla la volontà di interferire nella vita pubblica, bensì nello stato spirituale del politico o dell'ufficiale pubblico che, se è cattolico, è tenuto a seguire la legge divina anche nella sfera pubblica. Se non lo fa, deve essere ammonito dal suo pastore. Dunque, è semplicemente ridicolo e sbagliato cercare di zittire un pastore accusandolo di interferire in politica affinché non possa fare il bene all'anima di un membro del suo gregge. Questo si desume anche da quanto ha denunciato il Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi, cioè il desiderio di alcune persone della nostra società di relegare completamente la fede religiosa nell'ambito privato, affermando che essa non ha niente a che fare con l'ambito pubblico. Questo è semplicemente sbagliato. Dobbiamo dare testimonianza della nostra fede non soltanto nel privato dei nostri focolari ma anche nel nostro interagire pubblico con gli altri, per dare una forte testimonianza di Cristo. Quindi dobbiamo finirla con l'idea che in un certo qual modo la nostra fede è una materia completamente privata che non c'entra con la nostra vita pubblica.


(fonte: Radici Cristiane)

lunedì 11 agosto 2008

Alberto Marvelli - Un giovane che ha risposto Sì, alla Santità.






Nato a Ferrara il 21 marzo 1918. Secondogenito di sei fratelli, cresce in una famiglia veramente cristiana, in cui la vita di pietà si coniugava con l’attività caritativa, catechetica e sociale.
Frequenta l’Oratorio salesiano e l’Azione Cattolica, dove matura la sua fede con una scelta decisiva: “il mio programma si compendia in una parola: santo”.
Prega con raccoglimento, fa catechismo con convinzione, manifesta zelo, carità, serenità. E’ forte di carattere, fermo, deciso, volitivo, generoso; ha un forte senso della giustizia. Ha un grande ascendente fra tutti i compagni. E’ un giovane sportivo e dinamico: ama tutti gli sport: il tennis, la pallavolo, l’atletica, il calcio, il nuoto, le escursioni in montagna. Ma la sua più grande passione sarà la bicicletta, anche come mezzo privilegiato del suo apostolato e della sua azione caritativa.
All’Università matura la sua formazione culturale e spirituale nella FUCI. Sceglie come modello Piergiorgio Frassati.
Conseguita la laurea in ingegneria meccanica il 30 giugno 1941 Alberto deve partire militare.
L’Italia è in guerra; una guerra che Alberto condanna con lucida fermezza: “scenda presto la pace con giustizia per tutti i popoli, la guerra sparisca sempre dal mondo”. Congedato, perché ha altri tre fratelli al fronte, lavora per un breve periodo alla FIAT di Torino.
Dopo i tragici eventi del 25 luglio, caduta del fascismo, e l’8 settembre 1943, occupazione tedesca del suolo italiano, Alberto torna a casa a Rimini. Sa qual è il suo compito: diventa l’operaio della carità. Dopo ogni bombardamento è il primo a correre in soccorso ai feriti, a incoraggiare i superstiti, ad assistere i moribondi, a sottrarre alle macerie i sepolti vivi.
Non solo macerie, ma anche fame. Alberto distribuiva ai poveri tutto quello che riusciva a raccogliere, materassi, coperte, pentole. Si recava dai contadini e negozianti, comperava ogni genere di viveri. Poi in bicicletta, carica di sporte, andava dove sapeva che c’era fame e malattia. A volte tornava a casa senza scarpe o senza bicicletta: aveva donato a chi ne aveva più bisogno.
Nel periodo dell’occupazione tedesca, Alberto riuscì a salvare molti giovani dalle deportazioni tedesche. Riuscì, con una coraggiosa ed eroica azione, ad aprire i vagoni, già piombati e in partenza nella stazione di Santarcangelo e liberare uomini e donne destinati ai campi di concentramento.
Dopo la liberazione della città, il 23 settembre 1945, si costituì la prima giunta del Comitato di Liberazione. Fra gli assessori c’è anche Alberto Marvelli: non è iscritto ad alcun partito, non è stato partigiano: ma tutti hanno riconosciuto ed apprezzato l’enorme lavoro da lui compiuto a favore degli sfollati.
E’ giovane, ha solo 26 anni, ma ha concretezza e competenza nell’affrontare i problemi, il coraggio nelle situazioni più difficili, la disponibilità senza limiti. Gli affidano il compito più difficile: la commissione alloggi, che deve disciplinare l’assegnazione degli alloggi in città, comporre vertenze, requisire appartamenti, non senza inevitabili risentimenti. Poi gli affidano il compito della ricostruzione, come collaboratore della Sezione distaccata del Genio Civile.
Su un piccolo block notes Alberto scrive. “servire è migliore del farsi servire. Gesù serve”. E’ con questo spirito di servizio che Alberto affronta il suo impegno civico.
Quando a Rimini rinascono i partiti, si iscrive al partito della Democrazia Cristiana. Sentì e visse il suo impegno in politica come un servizio alla collettività organizzata: l’attività politica poteva e doveva diventare l’espressione più alta della fede vissuta.
Nel 1945 il Vescovo lo chiama a dirigere i Laureati Cattolici. Il suo impegno si potrebbe sintetizzare in due parole: cultura e carità.
“Non bisogna portare la cultura solo agli intellettuali, ma a tutto il popolo”: Così dà vita ad una università popolare. Apre una mensa per i poveri. Li invita a messa, prega con loro; poi al ristorante scodella le minestre e ascolta le loro necessità. La sua attività a favore di tutti è instancabile: è tra i fondatori delle ACLI, costituisce una cooperativa di lavoratori edili, la prima cooperativa “bianca” nella “rossa” Romagna.
L’intimità con Gesù Eucaristico, non diventa mai ripiegamento su se stesso, alienazione dai suoi impegni e dalla storia. Anzi, quando avverte che il mondo attorno a lui è sotto il segno dell’ingiustizia e del peccato, l’Eucaristia diventa per lui forza per intraprendere un lavoro di redenzione, di liberazione, capace di umanizzare la faccia della terra.
La sera del 5 ottobre 1946 si reca in bicicletta a tenere un comizio elettorale; anche lui è candidato per l’elezione della prima amministrazione comunale. Alle 20,30 un camion militare lo investe. Morirà, a soli 28 anni, poche ore dopo senza aver ripreso conoscenza; la madre Maria, forte nel dolore, gli è accanto.
Largo fu in tutta Italia il rimpianto per la sua morte: nella storia dell’apostolato dei laici la figura di Alberto Marvelli è quella di un autentico precursore del Concilio Vaticano II, per quanto riguarda l’animazione l’impegno dei laici per l’animazione cristiana della società. Di lui il servo di Dio Giorgio La Pira scrisse: “La Chiesa di Rimini potrà dire alle generazioni nuove: ecco io vi mostro com’è l’autentica vita cristiana”.

venerdì 8 agosto 2008

Andrés Aziani - L'uomo sconosciuto

“....ricordatevi sempre: l’amore é piú forte della morte” (Andrés Aziani)


(di Antonio Socci)


I mass media parlano solo di politica, pettegolezzi, porcate, idiozie.

Come la gente di duemila anni fa. E noi non ci accorgiamo che intanto nel mondo c’è Lui, con i suoi amici…
E’ un milanese l’uomo che ha affascinato il cuore di uno dei paesi più poveri del Sud America, il Perù. Soprattutto nelle baraccopoli più misere di Lima, “Andrés” era considerato un angelo. Mercoledì scorso il suo cuore ancora giovane (55 anni) - che ardeva per questa gente – si è spezzato. E sabato, in una grande basilica di Lima affacciata sull’Oceano Pacifico, davanti a migliaia di persone in lacrime, si è celebrata la sua “nascita al cielo”. Nella stessa mattina di sabato, commosso, il cardinal Cipriani, arcivescovo di Lima, ha parlato di lui alla radio nazionale. Ma in Italia uomini come Andrea Aziani restano sconosciuti. Instancabile e radioso, Andrés, in quella megalopoli sull’oceano che è la capitale peruviana, viveva da 20 anni, mandato da don Giussani. Lo conoscevano tutti: dal presidente della Repubblica fino al venditore ambulante di “emolliente” che è venuto a dargli l’ultimo saluto in chiesa e fra la folla ripeteva piangendo: “gli volevo tanto bene”. Poteva discutere nella sua università con i ministri o con i maggiori intellettuali del Paese e subito dopo trascorrere ore nei pueblos più malfamati ad aiutare la povera gente delle baracche, a giocare con i bambini nella polvere delle strade, insegnando loro dei canti o delle preghiere. O portando loro di che vivere. Ce n’era una folla sabato in chiesa di questi suoi “figli”, di cui spesso era “padrino” di battesimo o della comunione o della cresima. Sebastiana é una di queste bambine. Giovedì sera, dopo la veglia, alcuni amici di Andrés, di Comunione e liberazione, sono andati ad accommpagnarla a “casa”. Hanno scoperto che vive in una poverissima capanna in cima a una collina di casupole. La fanciulla ha mostrato loro una cappellina mezza costruita fra le baracche: “il mio padrino ha aiutato tanto a farla...”. Ed è facile immaginare – per chi conosceva Andrés – che il suo è stato anche un aiuto materiale, da muratore improvvisato o manovale. Perché quella povera gente sentisse che Gesù è fra di loro.Pochi, anche fra i suoi amici, sapevano della gran quantità di persone che aiutava. Il cardinal Cipriani, andando a benedire il corpo, giovedì, lo ha detto: “vi accorgerete con il tempo di tutto il bene che umilmente faceva quest’uomo. Lui mi cercava per ripetermi che lui e il movimento di CL volevano servire la Chiesa e mi chiedeva sempre di dargli una missione”. Era uno dei figli di don Giussani. La sua è una storia da film: la storia di una compagnia di giovani che è la vera “meglio gioventù”, quella su cui nessuno farà un film. Andrea aveva partecipato alla nascita di Comunione e liberazione nelle università di Milano. Alla Statale, dove si iscrisse nel 1972 (facoltà di Filosofia), diventò presto il responsabile. Erano anni durissimi. Aggressioni, odio e calunnie dei giornali contro i ciellini che erano gli unici a esserci con una identità cristiana, come agnelli in mezzo ai lupi di ogni estremismo.Anche Andrea si sentiva dare del “fascista” lui che era cresciuto con un nonno, Emanuele Samek Lodovici, che era stato discriminato dal fascismo perché militante del Partito popolare di Sturzo e poi perseguitato a causa delle leggi razziali perché ebreo. Lui era di quella tempra lì. Malmenati nelle università i ciellini erano cacciati anche dai seminari perché i vescovi progressisti del post concilio li ritenevano “integralisti”. Andrea entrò nei Memores Domini, il gruppo dei consacrati laici di CL. Nel 1976 fu mandato da Giussani a Siena. Lì con tre amici iniziò una presenza cattolica nell’ateneo di una delle città più rosse d’Italia. Fu un ciclone. Non si era visto niente di simile dai tempi di santa Caterina. In Università quella ciellina diventò subito la presenza più forte (alle prime elezioni studentesche la lista cattolica prese più del 50 per cento mettendo in allarme tutto il locale apparato del Pci). Ma ad infiammare i cuori di tutti quei giovani non era la politica, era quell’amicizia con Gesù che Andrea proponeva con la sua stessa persona, così affascinante ed entusiasmante. Andrea si faceva in quattro per tutti, senza mai riposare, spesso saltando i pasti. Quando si laureò gli amici della comunità gli regalarono un po’ di vestiti (ne aveva davvero bisogno) e il giorno dopo erano già finiti a dei profughi cambogiani che erano scappati dall’inferno dei Khmer rossi e che – attraverso la Caritas – lui era riuscito a ospitare a Siena.Nel 1989, a 36 anni, ottenne finalmente – come desiderava da sempre - di essere mandato in una delle missioni di CL in Sud America, il Perù. Prima insegnò in alcuni atenei di Lima, poi, con alcuni amici e l’appoggio della Chiesa, fondò l’università “Sedes Sapientiae”. Una università che cerca di far accedere agli studi i più poveri e che è diventata già un modello contagioso per tutto il Sud America. Che senso ha fondare una università in un paese del terzo mondo? Andrea rispondeva: “la peggiore povertà non è quella economica, ma quella umana. Da lì viene la miseria, il degrado e la fame. Educare uomini nuovi significa far crescere una generazione capace di costruire e quindi di dare un futuro a questo povero paese”. E’ esattamente quello che sostiene il decano dei missionari, padre Piero Gheddo. Ed è così che la Chiesa è diventata dovunque una straordinaria sorgente di sviluppo umano. A leggere su un blog le centinaia di messaggi di studenti di Lima, sconvolti dalla morte del professor Aziani, sembra davvero che questa grande avventura sia vincente. E’ impressionante il segno che ha lasciato quest’uomo. Cito qualche espressione dei ragazzi: “che persona straordinaria!”, “gran hombre sabio”, “la passione che irradiava in tutto non lasciava indifferente nessuno”, “donava se stesso attraverso ciò che insegnava”, “la sua sapienza ci affascinava, ma soprattutto la sua grande umanità e la sua purezza di cuore”, “il suo sorriso caldo e amabile”, “un uomo senza paragoni, differente da tutti quelli che incontriamo”, “un vero Maestro, un padre, un amico… que vive en todos nosotros”, “ci dava sempre speranza guardandoci come figli”, “ringrazio Dio: che fortuna averti conosciuto!”, “sei stato un Maestro eccezionale, grazie per l’esempio della tua vita!”, “era entusiasmante”, “trasmetteva una passione per la vita e per gli altri impressionante”, “amico fedele di Gesù, un cuore semplice e puro”, “ricorderò sempre la sua immensa bontà, il suo amore verso tutte le cose”, “che modo straordinario di amare la vita e tutti quelli che incrociavano la sua strada”, “era sempre disponibile, soprattutto per chi aveva bisogno”, “la sua felicità ci ha segnati per sempre: caro amico, grazie per aver avuto fiducia in me”, “un grande uomo che ci ha insegnato a essere uomini”. Al funerale, sabato, il vescovo monsignor Panizza non é riuscito a terminare l’omelia per la commozione. C’erano 1500 persone in chiesa, altre mille all’universita dove gli studenti dalle finestre hanno lanciato una pioggia di petali di fiori. Avevano fatto cartelli con le sue frasi tipiche, come “Febbre di vita”. Il ragazzo che ha parlato ha riferito che Andrea ha terminato la sua ultima lezione dicendo: “ricordatevi sempre: l’amore é piú forte della morte”. Era sconvolgente vedere centinaia di giovani silenziosi in lacrime. Al cimitero altre mille persone. La sua tomba è già meta di pellegrinaggio. Ha un popolo che ora aiuta dal cielo.

In una lettera del 1993 a un amico, Andrea ricordava una frase di santa Caterina e scriveva: “Che qualcuno si innamori di ciò che ha innamorato noi. Ma perché sia così, noi dobbiamo bruciare, letteralmente, ardere di passione perché Cristo lo raggiunga. Perché attraverso questo bruciare sia Cristo a raggiungerlo”. Don Giussani un giorno lesse queste righe davanti a centinaia di persone e, commosso, commentò: “vi sfido a trovare una testimonianza simile. Dovunque!”.


Da “Libero”, 7 agosto 2008