domenica 31 luglio 2011

Somalia catastrofe che non ha paragoni.





Gheddo: catastrofe che non ha paragoni




C’è la crisi economica, in Italia, è vero. Ci sono troppe emergenze nel mondo ed è facile distrarsi, è vero anche questo. «Ma io mi rivolgo ai cristiani: a persone che non hanno diritto di distrarsi». Padre Piero Gheddo, missionario del Pime, nella sua vita le ha viste da vicino le «troppe emergenze» che piagano il mondo, e più volte in passato ha toccato con mano anche la miseria che annienta la Somalia.

Come tenere desta l’opinione pubblica di fronte a una tragedia che non può più aspettare?
Io faccio leva su noi cristiani, a partire da me stesso. Quando vedo situazioni apocalittiche come quella della Somalia, mi metto in gioco con la mia fede. La mia fede in Cristo che cosa vale, se non mi sento chiamato in causa di fronte a catastrofi simili? Dopo, in un secondo momento, vedremo che cosa fare, ma il primo passaggio è non restare indifferenti. Noi cristiani non siamo spettatori seduti davanti alla tivù a dire «poveretti» e poi cambiare canale: un fatto del genere chiama la mia umanità, il mio senso di fratellanza con tutti i popoli.

Che cosa è urgente che i nostri giovani capiscano?
Che noi siamo i privilegiati dell’umanità. Che tutti vorrebbero vivere come noi, in un Paese in cui sono garantiti il benessere, lo sviluppo, la libertà. Che il più povero che vive in Italia è comunque ricco di fronte alle vere carestie. Che l’abisso tra la nostra crisi economica e la Somalia che muore è spaventoso.

E non solo la Somalia: sono tante le nazioni allo stremo.
No, ai livelli della Somalia non c’è nessuno. Stiamo assistendo all’apocalisse di un popolo. Facciamo le dovute proporzioni: sarebbe come se in Italia, dove siamo 65 milioni, 25 milioni di abitanti stessero morendo denutriti. Gesù ci ha comandato «il vostro superfluo datelo ai poveri», non era un modo di dire, dobbiamo farlo, e il nostro superfluo è un’enormità. Non ci accontentiamo mai, aspiriamo ad avere sempre di più. Ecco, è dicendo queste cose che si svegliano le coscienze.

La gente ha paura che i soldi e gli aiuti non arrivino a chi ha bisogno, ma restino nelle maglie delle grandi agenzie internazionali o dei dittatori locali. In Somalia c’è il rischio shabaab, i violenti guerriglieri islamici...
Bisogna affidarsi alle persone giuste. In Somalia operano ong italiane validissime, come ad esempio "Agire", e la stessa Caritas. Sono molto ammirato da questi volontari che, non so come, sono riusciti a entrare a Mogadiscio. Hanno grande coraggio, in passato proprio in Somalia ne ho visti di torturati e uccisi. I volontari in genere sono rispettati, persino dagli shabaab, perché anche loro hanno bisogno. Il pericolo non è mai escluso, è vero, ma chi va in missione lo mette in conto. Quanto alle grandi agenzie dell’Onu, è vero che sprecano molto e pagano profumatamente i loro dipendenti in giro per il mondo, ma i tanti volontari delle ong, invece, mettono a rischio la loro vita gratuitamente o al massimo con lo stretto necessario per un rimborso spese. E ancora di più si donano i missionari.

Nei luoghi in cui il cristianesimo ha messo radici, lo sviluppo è evidente, altrove invece il cammino dei popoli è frenato.
In quasi tutti i Paesi islamici, pur ricchi di risorse, i problemi sono forti, questo è evidente. Ci sono radici culturali e religiose che bloccano lo sviluppo, e non occorre pensare ai taleban, basta guardare all’Egitto di Mubarak. A proposito di questa domanda, però, voglio tornare al discorso degli aiuti: il cristiano ha insita in sé la buona volontà di salvare l’uomo, basti vedere l’abnegazione dei missionari nel mondo e pensare che solo in Africa oggi operano settemila italiani tra preti e suore, fratelli e laici. Anche le Ong sono quasi tutte di ispirazione cristiana, e questo dimostra come la coscienza del popolo italiano sia profondamente cattolica e il forte senso di solidarietà passi in concreto attraverso la vita delle parrocchie e dei movimenti. In quest’ottica va letta la grande colletta nazionale istituita dalla Cei per il 18 settembre, quando in tutte le chiese d’Italia verranno raccolte offerte per il popolo somalo.

Una coscienza cristiana che fa parte, volenti o nolenti, delle nostre radici e che quindi si riverbera anche nella mentalità degli italiani non credenti. Non è vero?
Certamente sì, almeno finora. Perché da qualche tempo la crisi morale sta cambiando le cose, le famiglie non ci sono più, si dissolvono, i genitori non educano, e così questo patrimonio morale, prima solido, oggi è a rischio e va assolutamente recuperato: la nostra capacità di essere solidali e metterci in gioco per la vita degli altri passa proprio da qui.
Lucia Bellaspiga


fonte: Avvenire

Come contribuire:
La carestia del Corno d’Africa e l’afflusso di profughi in Kenya sono una sfida per la Chiesa africana.
«Soprattutto sono una opportunità – spiega il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi – per mostrare la nostra vicinanza ai sofferenti. Non lasciamo le responsabilità ai governi, dobbiamo stendere la mano e condividere il poco che abbiamo».

Njue ieri era a Roma per incontrare i vertici di Caritas italiana e definire una operazione umanitaria con la rete Caritas internazionale di 20 milioni di euro.

Caritas Kenya sta intanto distribuendo generi di prima necessità alle centinaia di migliaia di profughi ammassati dentro e fuori il megacampo di Dadaab. «La situazione è preoccupante – conferma il presidente della Conferenza episcopale kenyana– perché dai Paesi vicini stanno arrivando molte persone. Tramite la Caritas abbiamo lanciato una raccolta fondi».

Intanto prosegue la raccolta di offerte di Caritas italiana a sostegno degli interventi. Si possono inviare al conto corrente postale 347013 specificando la causale “Carestia Corno d’Africa 2011”.

Oppure sui conti bancari:
UniCredit, via Taranto 49, Roma - Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119
Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma - Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474
Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma - Iban: IT 95 M 03069 05098 100000005384
Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma - Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113

E infine con CartaSi e Diners telefonando allo 06 66177001 in orario d’ufficio.

venerdì 29 luglio 2011

Washington punta a rendere obbligatorio l’impianto di un microchip RFID per tutti gli americani.

fonte: ASTRONEWS


E’ confermato, il Progetto di Legge sulla Salute di Obama renderà obbligatorio l’impianto di un microchip RFID per tutti i cittadini americani.

L’obiettivo è di creare un registro nazionale di identificazione che permetterà di “seguire meglio i pazienti avendo a disposizione tutte le informazioni relative alla loro salute”.

Il nuovo progetto relativo alla salute (HR 3200) è stato adottato recentemente dal Congresso e alla pagina 1001, contiene l’indispensabile necessità per tutti i cittadini che usufruiscono del sistema sanitario di essere identificati con un microchip sottocutaneo.

In un documento ufficiale, vi è la prova che questi dispositivi fossero già previsti nel 2004. Questo documento della FDA (Food and Drug Administration), datato 10 Dicembre 2004 è intitolato Class II Special Guidance Document : Implantable Radiofrequency Transponder System for Patient identification and Health information ( Documento di orientamento speciale di classe II : Sistema di transponder impiantabile a Radiofrequenze per l'identificazione dei Pazienti e le informazioni relative alla salute).

L’impianto di un microchip per i pazienti che contenga le informazioni sulla loro salute era quindi già allo studio nel 2004. Nel Progetto di Legge intitolato America's Affordable Health Choices Act of 2009 (Legge del 2009 sulle scelte di salute finanziariamente abbordabili dell’America), si può leggere nel paragrafo Subtitle C – National Medical Device Registre ( Sottotitolo C – Registro nazionale dei Dispositivi Médici), che è prevista una scheda per ogni persona che ha o sarà munita di un dispositivo sottocutaneo: Il " Secretary " stabilirà un " registro nazionale dei dispositivi medici " (in quel paragrafo sono chiamati "registro") per facilitare l’analisi della loro sicurezza dopo la commercializzazione, con i dati di ogni dispositivo che è o è stato utilizzato su un paziente…”

microchip RFID


Quindi tutte le persone che avranno ricevuto il microchip saranno schedati in un nuovo registro che ancora non esiste.

Con il pretesto di assicurare meglio l’assistenza sanitaria e preservare la salute dei cittadini, tutta la popolazione sarà marchiata con un microchip elettronico e schedata. L’inizio della marcatura obbligatoria per tutti è previsto a partire dal 2013.

Alla pagina 1006 del progetto, è fatta una precisazione sulla data di entrata in vigore del dispositivo: “ENTRATA IN VIGORE. Il Ministro della Salute e dei Servizi Sociali, metterà in opera il registro in virtù dell’articolo 519 (g) della Legge Federale sul cibo, i farmaci e i prodotti cosmetici come da aggiunta nel paragrafo, non più tardi di 36 mesi dalla promulgazione della presente Legge, senza preoccuparsi se le regolamentazioni definitive per stabilire e utilizzare il Registro siano state promulgate o meno in quella data”.

Quindi 36 mesi a partire dalla data di entrata in vigore della Legge! Questo ci dà 3 anni. Il 2013 è l’anno in cui la marcatura obbligatoria dovrebbe incominciare. Da notare che entrerà in vigore anche se non sarà stata adottata nessuna regolamentazione sul suo utilizzo e che sia presente o meno un inquadramento ben definito sull’utilizzo del “registro”.



Tradotto da:

http://www.alterinfo.net/Washington-rend-obligatoire-l-implantation-d-une-puce-RFID-pour-tous-les-americains_a60324.html


"..Faceva sí che tutti ricevessero (...) un marchio sulla mano destra e sulla fronte... cioé il nome della bestia o il numero del suo nome.

Apocalisse 13 16-17 "


martedì 26 luglio 2011

Cancellare l'aborto, in Europa si può

















di Marco Respinti 26-07-2011

Abolire l’aborto dall’ordinamento giuridico di un Paese qualsiasi è possibile, e il farlo non viola affatto le norme del diritto internazionale, anche se il solo ipotizzarlo cozza contro il pensiero che oggi va per la maggiore praticamente in tutte le istituzioni del mondo occidentale.





Lo afferma e lo dimostra con uno studio dettagliato e approfondito l’avvocato Grégor Puppinck che a Strasburgo dirige lo European Centre for Law and Justice - una organizzazione non governativa internazionale dedita alla promozione e alla protezione dei diritti umani in Europa e nel mondo intero - partendo dal caso polacco.



A Varsavia, il 1° luglio scorso, con 254 voti contro 151, lo Sejm, la “Camera bassa” del parlamento, ha dato il via libera alla discussione di una proposta di legge d’iniziativa popolare che, forte di 600mila firme (sei volte più dei requisiti legali), chiede la cancellazione della legge che consente l’aborto anche nei casi “eccezionali” in cui oggi è permesso.



La strada di questa proposta popolare è evidentemente ancora lunga e certamente sarà difficoltosa (il testo è ora all’esame delle Commissioni competenti, poi tonerà al Sejm, dunque passerà eventualmente al Senato e infine approderà sul tavolo del presidente della repubblica), ma quel voto ha stabilito un punto fermo di portata storica in totale controtendenza rispetto alla mentalità dominante, e quindi di grande significato e rilievo. Accusato il colpo, le lobby filoabortiste sostengono adesso che semmai le istituzioni polacche dovessero finire per mutare quella proposta in legge cioè striderebbe non solo culturalmente ma anzitutto giuridicamente con le leggi europee. Ma non è affatto così.

Attualmente in Polonia l’aborto è consentito solo entro la dodicesima settimana di gestazione in tre casi "eccezionali": nel caso sia in pericolo la vita della madre (aborto terapeutico), nel caso la diagnosi prenatale indichi l’alto rischio di malformazioni per il feto o la presenza di una malattia incurabile che metta a repentaglio l’esistenza del nascituro (aborto eugenetico) e nel caso la madre sia dimostratamente rimasta vittima d’incesto o di stupro. Tutti sanno però che - ricorda Puppinck - dietro queste "eccezioni" si nascondono abbondanti e frequenti gli abusi, i quali inoltre rendono da un lato più difficile l’accesso all’aborto nei termini consentiti dalla legge, dall’altro consentono che un numero elevato di feti non certo rientranti nei suddetti casi "eccezionali" - soprattutto il secondo, quello relativo alle malformazione e alle malattie mortali del bambino nel grembo della madre - venga disinvoltamente abortito.

In ragione dunque di questa sua legislazione, che mirerebbe a porre limiti chiari e decisivi all’aborto legale ma che invece finisce per offrire troppo facilmente il fianco all’illegalità, la Polonia (assieme all’Irlanda) è stata di recente più volte giudicata colpevole dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di non possedere, in quest’ambito, «un quadro giuridico coerente ». Con un ragionamento in sé perfettamente logico, la Corte nota infatti che se a) la legge polacca vieta l’aborto se non a certe condizioni "eccezionali", ma pure b) non riesce, così com’è congegnata, a limitare l’aborto alle sole condizioni "eccezionali", allora c) le due cose sono in contraddizione giacché l’aborto che la legge vuole limitato si fa in realtà piuttosto generalizzato (illimitato) e questo anche a discapito della pari dignità delle persone coinvolte.

La Polonia (e pure l’Irlanda) deve quindi rimediare eliminando l’ostacolo che rende incoerente il quadro di riferimento giuridico in materia di aborto: cioè i suddetti casi "eccezionali", i quali possono evidentemente essere rimossi - sostiene freddamente, "meccanicamente", il ragionamento in sé perfettamente logico della Corte - tanto liberalizzando completamente quanto cancellando definitivamente l’aborto.

La prima opzione è quella caldeggiata da moltissimi (tra cui il cartello delle Sinistre polacche che per settembre promettono offensive in questo senso), ma alla seconda non vi è alcun giudice che in Europa o nel mondo possa muovere obiezione poiché - puntualizza Puppinck - essa «non romperebbe con il diritto internazionale e, in Europa, con quello comunitario». Il ragionamento, in sé perfettamente logico della Corte, non prevede cioè alcuno strumento per giudicare illegale l’azione sovrana di uno Stato membro, quale la Polonia è, che decidesse di eliminare del tutto e per sempre l’aborto anche nei casi "eccezionali" oggi consentiti.

Per di più, dalla completa compatibilità dell’abolizione dell’aborto polacco con le normative internazionali, consegue che, «detto molto semplicemente, non esiste alcun “diritto all’aborto” né alcun altro diritto che possa comprendere il "diritto all’aborto" in nessuno strumento vincolante a livello internazionale o, in Europa, comunitario».

Nonostante alcuni pareri diversi, è chiaro per esempio che tali diritti non esistono in un testo vincolante qual è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale anzi, al Titolo I, Diritti e libertà, articolo 2, Diritto alla vita, sancisce esattamente il contrario. E cioè - così si legge al punto 1 di quel testo - che «il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita» (salvo in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale o quando la morte risulti inflitta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario per difendere una persona da violenza illegale, per eseguire un arresto regolare, per impedire l’evasione di un detenuto o per reprimere in modo legale una sommossa). Che la Polonia rientri in questa provvisione è del resto del tutto evidente, giacché nel regolarizzare il proprio quadro giuridico di riferimento in merito all’aborto così come intimatole dalla Corte europea dei diritti dell’uomo essa agisce certamente entro i termini dell’autorità sovrana riconosciuta agli e dagli Stati membri dell’Unione Europea. La quale del resto proprio in tema di aborto demanda le decisioni legislative agli Stati membri che ritiene, sul punto, più competenti.

La battaglia per l’affermazione del diritto alla vita senza "se" e senza "ma" che il popolo polacco sta combattendo ora appoggiato da un parte sostanziale, e talora maggioritaria, dei suoi rappresentanti politici, non è insomma un gesto disperato, contrario al buon senso e destinato all’insuccesso. È invece uno sforzo grande e generoso per riaffermare un principio fondamentale di civiltà, non negoziabile e perfettamente obbediente ai criteri giuridici internazionali tutelati anche da quelle forze politiche e culturali che proprio sull’aborto la pensano in modo diametralmente opposto. È, insomma, una speranza concreta e possibile per tutti, in Europa e non solo.



Fermiamo il genocidio censurato


I Numeri Non Mentono!


L'aborto uccide il nostro futuro!

venerdì 22 luglio 2011

Verso la Beatificazione del Magistrato Livatino


Canicattì, 3 ottobre 1952 – Agrigento, 21 settembre 1990

Nasce a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952, primo e unico figlio di Vincenzo, avvocato, e di Rosalia Corbo. Negli anni del liceo studia intensamente, inoltre s’impegna nell’Azione Cattolica. Si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1975. A ventisei anni, nell’estate del 1978, fa il suo ingresso in Magistratura. Dopo il tirocinio presso il Tribunale di Caltanissetta, il 29 settembre 1979 entra alla Procura della Repubblica di Agrigento come Pubblico Ministero. Per la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vengono affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firma sentenze su sentenze: è entrato ormai nel mirino di Cosa Nostra. Il 21 settembre 1990 mentre sta percorrendo, come fa tutti i giorni, la statale 640 per recarsi al lavoro presso il Tribunale di Agrigento viene raggiunto da un commando di quattro sicari e barbaramente trucidato. L’Italia scopre nel sacrificio del “giudice ragazzino” l’eroismo di un giovane servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria vita alla luce del Vangelo. Di recente Mons. Carmelo Ferraro, vescovo di Agrigento, ha avviato la sua causa di beatificazione.


Il 21 settembre 1990, memoria di S. Matteo apostolo, è una giornata calda ma non afosa, tipica del mite autunno siciliano. Sono le otto, il giudice Rosario Livatino riordina alacremente i fascicoli processuali. Gesti preparatori, gli stessi di ogni mattina. Mancano appena due settimane al suo trentottesimo compleanno.
Alle 8.30 sta percorrendo, come fa tutti i giorni, la statale 640 per recarsi al lavoro presso il Tribunale di Agrigento. Sullo scorrimento veloce Agrigento-Caltanissetta viene raggiunto da un commando e barbaramente trucidato.
Un’ondata di commozione in quei giorni percorse allora il nostro Paese, nell’apprendere la sua storia dalle pagine dei giornali. L’Italia avrebbe scoperto nel sacrificio del “giudice ragazzino” l’eroismo di un giovane servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria vita alla luce del Vangelo.
Nato a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952, figlio unico di Vincenzo e Rosalia (il padre è avvocato, figlio a sua volta di avvocati), il piccolo Rosario è un bambino mite, silenzioso, dolcissimo, dai grandi occhi scuri e vellutati. I suoi giochi preferiti: macchinine e soldatini; e poi c’è a riempirgli assai presto le giornate la passione precoce per la lettura. Un’infanzia serena, la sua, vissuta nella semplicità e nel decoro di una famiglia borghese, appartata e schiva, che lo segue con attenzione e tenero affetto.
Negli anni del liceo Livatino è il ragazzo che scendeva di rado a fare ricreazione per restare in classe ad aiutare qualche compagno in difficoltà. Aperto ai bisogni degli altri, ma riservato su di sé, studia intensamente, inoltre s’impegna nell’Azione Cattolica.
(…)Per il liceale affascinato da Dio arriva infine il giorno fatidico della scelta: che cosa farà da grande? E non ha alcun dubbio: farà il giudice.
Nel ‘78, a ventisei anni, può coronare il suo sogno. Sulla propria agenda quel giorno scrive con la penna rossa, in bella evidenza: “Ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura”. E poi, a matita, vi aggiunge: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.
Livatino avverte infatti in maniera molto forte il problema della giustizia e lo assume ben presto come una vera missione. Il dramma del giudicare un altro essere umano, di dover decidere della sua sorte, non è cosa da poco per chi senta profondo in sé il tarlo della coscienza unito a un sincero senso di carità. Sono valori che riecheggiano pure nella Christifideles Laici (1988), sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, laddove si può anche leggere che “la carità che ama e serve la persona non può mai essere disgiunta dalla giustizia”(§ 42).
Ma come si fa, noi ci chiediamo, ad esercitare il diritto in Sicilia? Qui lo Stato è da sempre percepito – e sempre lo sarà – come “straniero”. La verità, si dice, ha sette teste. Come afferrarla? E come riuscire a farla trionfare nell’isola dai mille volti, l’isola “plurale” secondo la bella e calzante definizione di Gesualdo Bufalino?
E’ con questa difficile realtà che il giovane magistrato, fresco di laurea e di entusiasmo, dovrà fare i propri conti molto presto.
Il 29 settembre 1979 Livatino entra alla Procura della Repubblica di Agrigento come Pubblico Ministero. Dopo l’iniziale apprendistato, le prime inchieste importanti. E’ abile, intelligente, professionale; comincia a diventare un punto di riferimento per i colleghi della Procura.
Da Canicattì tutte le mattine raggiunge la sede del Tribunale, ad Agrigento, una manciata di chilometri percorsi con la sua utilitaria. Prima di entrare in ufficio, la visita puntuale alla chiesa di S. Giuseppe, vicino al Palazzo di Giustizia, dove si ferma a pregare; quindi, il lavoro indefesso al Tribunale fino a sera inoltrata.
Nell’aula delle udienze aveva voluto un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Un crocefisso teneva inoltre anche sul suo tavolo, insieme a una copia del Vangelo, tutto annotato: segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro.
(…)Il suo sincero senso del dovere messo al servizio della giustizia ne fa una specie di missionario: il “missionario” del diritto. Per la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vengono affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firma sentenze su sentenze: è entrato ormai nel mirino di Cosa Nostra.
Domanda che gli venga affidata una difficile inchiesta di mafia perché è l’unico tra i sostituti procuratori di Agrigento a non avere famiglia: con fiducia totale si affida nelle mani di Dio (“Sub Tutela Dei”, annota nella sua agenda).
Ma Rosario non era un eroe: faceva semplicemente il suo dovere. E lo faceva coniugando le ragioni della giustizia con quelle di una incrollabile e profondissima fede cristiana.
“Impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’eucaristia domenicale, discepolo del crocifisso”, sintetizzò nell’omelia delle esequie mons. Carmelo Ferraro, fotografandolo con pochi rapidi tratti. Uomo di legge, uomo di Cristo.
(…)Da quando Rosario non c’è più, lei non ha smesso un solo giorno di girare l’Italia in lungo e in largo, recandosi nelle scuole, ma anche in televisione, dovunque insomma la chiamassero per parlare del “suo” giudice. E’ la professoressa Ida Abate, che fu sua insegnante di latino e greco al liceo classico: per noi è stata un’autentica miniera di notizie, ricordi e documenti che ci hanno reso possibile ricostruire la vita di Rosario Livatino nel profilo che abbiamo realizzato per le Ed. Paoline.
Sull’allievo scomparso Ida Abate ha speso fiumi di parole, ha scritto molte lettere e testimonianze, e di recente è stata incaricata dal Vescovo di Agrigento, mons. Ferraro, di raccogliere le voci, i racconti, le dichiarazioni di quanti conobbero in vita Rosario, così da poter dare inizio a quel lungo e complesso iter che forse un giorno lo porterà – a Dio piacendo – sugli altari.
(…)Di Rosario molte cose si sono conosciute solo dopo la sua morte. Della sua carità, del suo amore per gli ultimi, per i poveri. Il custode dell’obitorio ricordava allora con le lacrime agli occhi tutte le volte che lo aveva visto pregare accanto al cadavere di individui di cui egli ben conosceva la fedina penale, pregiudicati in cui si era imbattuto svolgendo il suo lavoro di sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento, e ai quali aveva pure applicato la legge, ma che non per questo cessavano di essere suoi fratelli in Cristo nella sventura.
“Un martire della giustizia e, indirettamente, anche della fede…”, ha detto di lui Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993, in occasione della sua visita pastorale in Sicilia.
A dieci anni dalla sua morte, la lezione morale che ci trasmette è quella di un testimone radicale della Giustizia, che in essa credeva profondamente, come progetto di fede e come esercizio di carità.


Autore: Maria Di Lorenzo
fonte: Santi e Beati

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mercoledì 20 luglio 2011

Così il presidente della Casta si gode l'aumento della paga






Il bel gesto non gli è venuto in mente né nel 2007 con Romano Prodi quando arrivò la prima sforbiciata allo stipendio dei deputati, né l’anno scorso quando Camera e Senato tagliarono di mille euro i benefit dei parlamentari. Giorgio Napolitano, il presidente silenzioso della casta, ha preferito starsene zitto zitto e salvare non solo il suo stipendio, ma perfino gli scatti automatici previsti dalla legge.
Così da quando è stato eletto si è visto aumentare di circa due mila euro al mese il discreto appannaggio ricevuto, che ora ha raggiunto i 239.182 euro all’anno, cifra assai simile allo stipendio lordo di Nicolas Sarkozy (253.600 euro) che però fu raddoppiato tre anni orsono fra mille polemiche.
I vari governi che si sono succeduti hanno atteso che il primo cittadino d’Italia facesse almeno la mossa, chiedendo pubblicamente se non proprio di tagliare a lui come a tutti i dipendenti pubblici lo stipendio, almeno di rinunciare agli scatti automatici che recuperano l’inflazione. Ma l’attesa è stata vana. L’unica limatura accettata da Napolitano è stata una sforbiciatina alla dotazione del Quirinale: oggi è di 228 milioni di euro, nel 2009 era di 231 milioni. I risparmi sono quasi tutti arrivati però da una rinuncia non clamorosa: la riduzione del personale comandato da altre amministrazioni.
Eppure se si vuole iniziare a tagliare i costi della politica, bisognerebbe proprio iniziare dal palazzo sul colle più alto di Roma. Perché a tutt’oggi non esiste paragone possibile con altri palazzi presidenziali di Europa: il Quirinale costa più di tutti, palazzi reali compresi. Basta per tutti l’esempio più vicino all’Italia, quello francese. Napolitano e la sua squadra costano il doppio dello staff di Sarkozy e peraltro contano la metà. Non esiste nemmeno paragone fra i poteri che la Costituzione francese e quella italiana assegnano al presidente della Repubblica. Eppure il Quirinale costa 228 milioni di euro all’anno e l’Eliseo 112,5 milioni. Clamorosa la differenza dei costi per il personale dipendente: 129,4 milioni per il Quirinale, e 69,5 milioni per l’Eliseo. Perfino nell’acquisto di beni e servizi spendo meno la Francia per fare funzionare un’amministrazione operativa che l’Italia per fare funzionare uno squadrone la cui principale attività è quella cerimoniale.
Il presidente della casta spende come un emiro arabo e nonostante l’evidente stridore con il resto del paese, è assai geloso della segretezza dei suoi conti. Non esiste un bilancio certificato del Quirinale, non esiste una nota integrativa reale messa disposizione degli italiani, non esiste reale trasparenza di fronte a tanto scialacquare. L’unica comunicazione è contenuta nelle quattro o cinque paginette di sintesi dove in cui il segretario generale del Quirinale ogni anno illustra a grandi linee il suo bilancio. L’ultima volta, quasi a piangere povertà, si è magnificata la riduzione del personale, spiegando come in organico oggi il Quirinale abbia solo 843 dipendenti: 74 appartenenti alla carriera direttiva, 97 alla carriera di concetto, 204 alla carriera esecutiva e 488 alla carriera ausiliaria. Oltre a questi se ne aggiungono altri 103 di fiducia portati al Quirinale come staff personale da Napolitano e con un contratto che scadrà al termine del settennato. Di questi 77 sono in posizione di comando, e 26 collaboratori a contratto. Siamo a 946 dipendenti. E non bastano. Perché chi pensa alla sicurezza del Capo dello Stato? Nessuno di quei 946 è specializzato. Il problema è vissuto anche da Sarkozy, che può disporre di 243 militari specializzati all’Eliseo. La vita di Napolitano deve essere assai più preziosa e complicata da proteggere. Perché il personale “militare e delle forze di polizia distaccato per esigenze di sicurezza” ammonta a 861 unità, compresi i 258 ammiratissimi corazzieri. In tutto fanno 1807 collaboratori, più del doppio del personale dell’Eliseo.
Della presidenza della Repubblica francese si conosce ogni segreto, del Quirinale poco o nulla. Nessuno stipendio è pubblico, nessun benefit è raccontato nemmeno per sommi capi. Ogni tanto si alza un velo su qualcosa. L’altro anno grazie a Renato Brunetta abbiamo saputo qualcosina del parco auto blu: una Lancia Thesis limousine, tre Maserati, due Lancia Thesis blindate e una Lancia Thesis di riserva., oltre alle 2 Lancia Flaminia 335 del 1961 utilizzate per le sfilate del 2 giugno. Poi ci sono 14 auto (una di proprietà e 13 in leasing) a disposizione dei Presidenti emeriti della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi), del segretario generale (Donato Marra), del segretario generale onorario (Gateano Gifuni) e dei 10 consiglieri personali del presidente della Repubblica: c’è un’auto a testa senza bisogno nemmeno di fare i turni. Infine 10 auto di servizio.
Oltre al parco macchine però non si sa nulla. In Francia invece il bilancio dell’Eliseo finisce nelle mani della Corte dei Conti che gli fa le pulci. Si conosce ogni nota spesa di Sarkozy e dei suoi ospiti e perfino il costo di ogni volo blu e di ogni pasto offerto. Pizzicato sui 14 mila euro di spese personali, ha dovuto restituirli tutti sull’unghia. Ma è un altro modo di concepire la politica e la sua trasparenza.

di Franco Bechis



fonte: Libero.it

martedì 12 luglio 2011

Si tassa il divorzio, ma non sarebbero meglio provvedimenti per la famiglia!?





di Francesco Agnoli



12-07-2011

Dunque, nella nuova manovra finanziaria è prevista una tassa sul divorzio. Sono 37 euro per le separazioni consensuali e 85 per quelle conflittuali che comportano questioni giuridiche relative a beni e figli, quindi l’intervento del giudice. La novità è contenuta nel capitolo Disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie», dove viene modificato l’elenco dei procedimenti da affrontare in tribunale che ora sono a costo zero.

Secondo una stima resa nota dal quotidiano economico Il Sole-24 Ore, visto che nel 2010 le separazioni sono state circa 114mila separazioni e i divorzi oltre 66mila (nel 70% consensuali), la nuova tassa sul divorzio dovrebbe portare all’erario un gettito di circa 10 milioni e mezzo.

Di gioire, evidentemente non vi è ragione. Il divorzio è una piaga. Molto spesso uno dei coniugi finisce al lato pratico per subirlo anche quando non ne condivide “la filosofia”.
Inoltre, non può far piacere nemmeno l’idea che una nuova entrata per lo Stato (che di suo contribuisce a sanare i conti pubblici, cioè va a vantaggio del bene comune) sia generato da una norma iniqua. D’altro canto non si può trascurare, prima ancora di ogni giudizio etico, un fatto concreto: la nuova tassa rende il divorzio più difficile, se non altro più costoso.
Ciò detto, questi ragionamenti né esauriscono la questione, né la soddisfano. Ve ne sono infatti doverosamente altri da fare, e una volta tanto finalmente in positivo.

Ricordiamo anzitutto gli antefatti, poiché qualcosa di analogo accadde già in passato allorché qualche deputato, unendo considerazioni morali ed economiche, propose questo ragionamento: dal momento che ogni aborto procurato costa circa 1000 euro allo Stato, non si può prevedere che chi vi ricorre più volte, come purtroppo accade assai spesso, sia costretto almeno a pagarsi gli aborti successivi al primo?

Ci fu, ricordo, una levata di scudi imperiosa e sincronizzata. In Italia si possono pagare alcuni esami anche necessari in caso di gravidanza, per tutelare la salute della madre e del figlio, ma l’aborto deve essere libero e gratuito, sempre!
Alcuni anni dopo questa proposta, un altro deputato, l’onorevole Falsitta, lanciò un’altra idea interessante: quella di aumentare la tassazione sulla pornografia, con un duplice fine, fare cassa e scoraggiare un mercato vergognoso.
Ci fu una lunga discussione e si arrivò a questa conclusione: in Italia si tassa tutto, anche l’aria che respiriamo, ma i professionisti del porno, quelli vanno tutelati! Altrimenti il mercato crolla…
Vedremo dunque cosa succederà con la tassa sul divorzio.
Rispetto a cui, per intanto, è bene fare alcune considerazioni.

Anzitutto ci si poteva aspettare, da un governo alternativo alla Sinistra, una serie di provvedimenti a favore della famiglia, sul modello di quelli che esistono in altri paesi europei. Perché, per esempio, una mamma in Germania ha diritto di stare a casa con suo figlio per tre anni, e da noi questo è, di solito, assolutamente impossibile? Perché in Germania e Gran Bretagna i neonati, che vengono considerati una ricchezza del paese, ricevono un assegno mensile, mentre da noi un figlio è considerato un fatto esclusivamente personale?

Una politica per la famiglia sarebbe utile anche allo Stato, perché genererebbe ricchezza, forze nuove e stabilità sociale.
Detto questo analizziamo più nel dettaglio questo provvedimento.
Le domande che sorgono spontanee sono le seguenti: perché il governo propone questa tassa? Per fare cassa, o per aiutare la famiglia? O per entrambi i motivi? Domande interessanti, ma, forse, da accantonare: perché ognuno potrebbe avere una risposta diversa e perché il processo alle intenzioni, in certi casi, serve a ben poco.

Limitiamoci dunque ad alcune constatazioni inequivocabili.
La prima: fare cassa non sarà difficile. Mentre infatti cala ogni anno il numero dei matrimoni in Chiesa e il numero dei matrimoni in assoluto, cresce quello delle separazioni e dei divorzi. Oggi in Italia ci si sposa meno che negli anni in cui il nostro paese, durante la II guerra mondiale, era sotto i bombardamenti. Non c’è la guerra guerreggiata, insomma, ma l’effetto è ancora più devastante: non sui corpi, ma sulle anime, sull’entusiasmo, sulla voglia di vivere, sulla capacità di fare progetti, di guardare avanti, di fidare nella persona che si ha accanto e che si è scelta, con un atto di ragione e di volontà….

In compenso, se i matrimoni calano, i divorzi sono passati dai 10.618 del 1975 ai 27.038 del 1995, ai 33.510 del 1998, ai 61.153 del 2006… Questa crescita comporta anche un nuovo business dal momento che ogni divorzio, muove, inizialmente, molti soldi: avvocati, psicologi, necessità magari di trovare una seconda casa laddove prima ne bastava una…

La seconda constatazione: ammesso che questa tassa porterà soldi allo Stato, è anche vero che potrà scoraggiare qualche divorzio, soprattutto perché si aggiunge ad una crisi generale che ha già di per sé un effetto frenante. Infatti è abbastanza chiaro che ai numerosissimi divorzi che già esistono, se ne aggiungerebbero molti altri qualora certe coppie non fossero consapevoli dell’impossibilità di marciare divise. Accade cioè spesso che una coppia oggi attraversi un momento difficile, e lo superi, proprio per motivi economici: perché ci si rende conto che andare avanti senza più contare sull’aiuto reciproco sarebbe impossibile. Non sarà una motivazione alta, per tenere in piedi una storia d’amore, ma non di rado è proprio la realtà che ci può richiamare a ciò che è, in ultima analisi, il nostro bene. Renderci conto della nostra dipendenza dall’altro, può dunque essere un sano richiamo e un freno all’istintività e alla volontà nichilista ed egoista di disfare frettolosamente quello che si è pazientemente ricostruito.

Anche perché sappiamo bene che è sempre più incombente una nuova povertà. Una indagine pubblicata sul Corriere della Sera del 23 ottobre 2010 segnalava che “nel dormitorio dei disperati, uno su cinque è un papà separato”, costretto a lasciare la casa che condivideva con la sua famiglia. «Qui vengono alla fine - dichiarava padre Clemente, responsabile di un dormitorio di Milano- quando crollano. I primi mesi dormono sulle macchine, da amici, sul posto di lavoro», finché non sono costretti a ricorrere a qualche associazione caritatevole.

Una recente relazione sulla “nuove povertà”, a opera della Provincia di Trento, sottolineava come separazioni e divorzi “dimezzano le risorse affettive, relazionali ed economiche e raddoppiano le spese. Due case, due mutui o due affitti. Una mamma sola con uno o più figli, o un uomo solo, sono oggi, secondo le esperienze ascoltate durante le audizioni svolte, più vulnerabili”.

È sempre stato così: nella Unione Sovietica l’introduzione del divorzio libero e con effetto immediato generò una ondata di povertà, infanticidi, uxoricidi, abbandoni e disperazione. Stalin stesso, per evitare che questo fenomeno, che aveva raggiunto livelli terrificanti, travolgesse il paese, introdusse in due occasioni, nel 1936 e poi nel 1944, una serie di tasse e balzelli per frenare la corsa ai divorzi, con notevoli risultati.

Se dunque è facile che la nuova tassa, abbia effetti benefici sul tessuto sociale, occorre anche chiedersi, però, se sia giusta in se stessa o meno.
Prima di farlo si può ricordare che anche il governo britannico ha battuto lo stesso sentiero prima di noi. Scriveva a questo proposito Manuela Mirkos su La Bussola Quotidiana del 12 gennaio: «L’iniziativa [britannica] sortirebbe un doppio vantaggio, secondo i proponenti: da una parte quello di finanziare il complesso e costoso sistema statale che assiste nel mantenimento dei figli di divorziati e dall’altra scoraggiare la rottura del vincolo matrimoniale, inducendo la coppia in crisi a considerare la separazione esclusivamente come un rimedio estremo da evitare a tutti i costi».

Proprio queste considerazioni ci portano a un’ultima constatazione: il divorzio è sempre un grosso costo anche per la società, per lo Stato, soprattutto quando di mezzo ci sono i figli.
Esso comporta infatti, a livello macroscopico, un aumento enorme della instabilità sociale: delitti passionali e suicidi sono solo l’aspetto più evidente. Vanno poi considerati il maggior ricorso, di chi abbia vissuto o subito il divorzio, a medici, psicologi e servizi vari. Soprattutto questo accade per i figli dei divorziati: è certo infatti che queste creature vivono un trauma fortissimo, certificato per esempio dagli operatori del Telefono Azzurro, che si ripercuoterà molto spesso su tutta la loro vita futura, anche lavorativa oltre che familiare.

L’entrata sempre maggiore, nella scuola, di psicologi, insegnanti di sostegno e figure similari, estremamente costosi per la collettività, è proprio legata, in buona parte, a nuove problematiche dei giovani, scatenate dalla progressiva devastazione dell’istituzione familiare.
Una tassa per far fronte ad alcune di queste spese, che lo Stato già oggi sostiene, sembra dunque perfettamente legittima. Certo, il suo effetto sarà limitato.
Occorrerebbe iniziare a fare ragionamenti di più ampio respiro.

Ma se vogliamo rimanere sul terreno delle tasse, ci aspettiamo quantomeno che qualcuno torni a proporre che i 1000 euro pagati dalla collettività per ogni aborto procurato, siano a carico di chi vi ricorre, e che analoga cifra sia invece data a chi i figli li accetta, li serve e li educa. Aspettiamo anche che qualcuno torni a proporre una maggior tassazione sulla pornografia: potrebbe essere, per esempio, la nuova battaglia delle donne nuovamente riunitesi proprio in questi giorni nel movimento “Se non ora quando?”. Se non altro darebbero un segnale chiaro di non aver fatto tutto solamente per immediati scopi politici.



lunedì 4 luglio 2011

Mese di luglio dedicato al Preziosissimo Sangue di Gesù






1 luglio

Un mistero di Sangue.

La Redenzione umana è insieme un fatto e un mistero
: il fatto ci è narrato dalla storia, il mistero ci viene proposto dalla fede e spiegato, quanto è possibile, dalla dottrina teologica. Ora, nel fatto, o meglio, nell’intreccio dei fatti, noi troviamo un’orditura di sangue; e tutto il mistero della nostra redenzione è un mistero di Sangue: appunto, del Sangue dell’Uomo-Dio. Senza di esso la Redenzione non si comprende, e nemmeno si sarebbe compiuta, nel piano prestabilito e rivelato dalla Divina Provvidenza. Apriamo il Santo Vangelo. La prima e l’ultima pagina recano tracce di sangue.

Le effusioni di sangue.

Gesù era nato da sette giorni, fiore appena sbocciato, olezzante il profumo del Paradiso; ed eccolo, fra le braccia materne, subire lo strazio e l’ignominia della circoncisione. Poche stille di sangue consacrano il Nome di Gesù, che significa salvatore: dolente primizia di una Redenzione che doveva essere copiosa, nel flusso sanguigno, come negli effetti. Tale fu l’epilogo della missione di Cristo, il rosso tramonto della sua vita.

Nell’orto degli ulivi, fra le ombre della notte e le tenebre di una tristezza mortale, Gesù suda sangue: il torchio stritola il cuore e ne spreme le gocce turgide che gemono dai pori e cadendo irrigano il volto e tutta la persona, ne intridono le vesti, ne chiazzano il terreno. Così nell’amarezza, nella solitudine, nell’abbandono; e il Profeta gli chiede: «perché dunque il tuo paludamento è rosso e la tua veste come quella di chi pigia nello strettoio?». La risposta è desolante: «Da me solo ho spremuto il torchio e delle genti nessuno è con me» (Is 63,3). Era il torchio di un amore infinito.

Nel pretorio di Pilato la scena si fa selvaggia. Denudato, legato alla colonna, i flagelli agitati dai legionari con furia di tempesta lo colpiscono dovunque; e dalle carni illividite, scorticate, sprizza il sangue veemente, arrossando dintorno ogni cosa. Quasi non basti, si aggiunge alla flagellazione la barbarie della incoronazione. Un fascio di spinosi virgulti piegati in cerchio gli è posto sul capo. Le spine lunghe e resistenti, battute da canne, entrano nelle tempie e nel cervello; e nel giro della testa appare un diadema di sangue. Orrenda ma degna corona al re dell’amore e del martirio!

Fino al supremo sacrificio.

Lungo la via del Calvario «del suo divino Sangue segna la terra dove posa il piede» (S.Alfonso M de’ Liguori). E quando inciampa, o barcolla cadendo oppresso dal legno enorme, nuovi strappi alle ginocchia e alle mani danno ancora sangue. La Veronica pietosa gli asciuga il volto, che a tracce sanguigne resta disegnato stupendamente nel lino.

Poi, quando in cima al colle la Vittima si distende sull’altare della croce, e i chiodi squarciano le mani e i piedi fissandoli al rovere, fiotti di sangue escono dalle squarciature; e quando la croce è alzata col suo carico, un fitto gocciolio gronda da tutte le ferite, finché le vene si esauriscono e il cuore dà l’estremo palpito: Consummatum est!

Ma no, c’è ancora un tesoro da scoprire. Il centurione infigge di colpo la lancia sul costato a sinistra e dal cuore spaccato esce «acqua e sangue». L’ultima effusione prodigiosa rivela, meglio di ogni altra, le ineffabili profondità di questo mistero. In tale aspetto, in tale sublime atteggiamento il Divino Crocifisso doveva restare, immutato e immortale, nei secoli.



Fioretto

Offrirò le pene e le gioie di questo primo giorno di luglio al Sangue Preziosissimo di Gesù ed in unione alla sua opera redentrice.

Giaculatoria

Adoramus te, santissime Domine Jesu Christe, et benediciums tibi, quia per sanctama crucem tuam redemisti mundum

Noi ti adoriamo, o santissimo Signore Nostro Gesù Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.