sabato 30 ottobre 2010

«Sul problema dell’omelia...qualche sommesso consiglio»


Vittorio Messori insegna ai preti come si predica
di Andrea Tornielli

«A quanti capiscono poco o nulla di quello che si dice durante la Messa, ma sono devoti, più attenti di un teologo...». È quanto afferma il teologo don Nicola Bux in Come andare a Messa e non perdere la fede (Piemme, pagg. 196, euro 12, nelle librerie dal 2 novembre).
Titolo volutamente provocatorio per un libro serio che, presentando le origini e la storia della messa cattolica – nella sua versione ordinaria del rito romano scaturita dalla riforma conciliare, e nella sua forma antica, ripristinata da Benedetto XVI – la paragona alla liturgia orientale e ne approfondisce il significato. Un libro che s’inserisce nella scia dei contributi che intendono favorire quella «riforma della riforma» liturgica (espressione oggi politicamente scorretta, nonostante sia stata coniata da un certo cardinale Joseph Ratzinger) auspicata da quanti vogliono recuperare, pur senza sguardi nostalgici al passato, una maggiore sacralità del rito, e mettere fine ai non rari abusi.
Nel volume di don Bux è pubblicato un significativo contributo di Vittorio Messori, autore di best seller sui fondamenti della fede cristiana. Messori si sofferma sul «problema dell’omelia», uno dei punti dolenti della messa, offrendo «qualche sommesso consiglio» da «fruitore domenicale». Dopo una pagina ironica e gustosissima, nella quale lo scrittore nota, citando André Frossard, come «dopo il Concilio, per farsi più comprensibile all’uomo comune» la Chiesa sia «passata dal latino al greco» - e gli esempi non mancano, dato che si sprecano parole come carisma, presbitero, kerygma, kénosis, sinassi, agape, dossologia, teandrico, escatologico, pneumatologico (qui ha a che fare con il soffio dello Spirito Santo, non con problemi polmonari), parenetico, mistagogico, ecumenico, esegetico, soteriologico – Messori consiglia al prete di predicare secondo queste tre regole auree del giornalismo: 1) semplificare, 2) personalizzare, 3) drammatizzare.
Consiglia di concentrarsi su un solo argomento e di riuscire sempre a parlare rivolgendosi al meno colto dei fedeli. «Soprattutto un cristiano – scrive – dovrebbe essere ben conscio di una verità: non esiste nessuna realtà o nessun concetto (per quanto “alti”) che non possano essere espressi con parole comprensibili alla maggioranza». Al tempo stesso, il buon predicatore, secondo Messori, dovrebbe saper far passare certe idee «più che attraverso un ragionamento astratto, attraverso le vicende di persone concrete con nome, cognome, età... Alla gente non importano i proclami, ma le esperienze; non le teorie, ma le storie. Di qualunque cosa vogliate parlare, evidenziatene il risvolto umano». Ma lo scrittore, a sorpresa, invita a non dimenticare che i giornali più letti e le trasmissioni tv più viste sono quelle sportive, dove il dibattito è più acceso e dove si individua sempre un antagonista. Una predica appassionerà di più, spiega scagliandosi contro la «disastrosa melassa buonista», se ritroverà degli antagonisti, dei «nemici»: «Non delle persone, certo – precisa Messori –. Ma perché non delle idee? Perché non il diavolo? Perché non noi stessi e il peccato che è in noi?».

Il Papa: «Non temere l'ostilità nella difesa della vita»


28 OTTOBRE 2010
VATICANO
Il Papa: «Non temere l'ostilità
nella difesa della vita»

«Oggi voglio parlarvi di come la Chiesa nella sua missione di fecondare e fermentare la società umana con il Vangelo, insegna all’uomo la sua dignità di figlio di Dio e la sua vocazione alla comunione con tutti gli uomini, da cui risulta l'esigenza della giustizia e della pace sociale, secondo la sapienza divina». Lo ha detto stamattina Benedetto XVI, ricevendo un gruppo dei vescovi della Conferenza episcopale del Brasile (Regione Nordeste V), in visita ad limina. «Tuttavia – ha aggiunto –, il dovere di operare per un giusto ordine sociale è proprio dei fedeli laici, che, come cittadini liberi e responsabili, si sforzano di contribuire a una giusta configurazione della vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e l’ordine morale naturale». Ai vescovi tocca «contribuire alla purificazione della ragione e risvegliare le forze morali necessarie alla costruzione di una società giusta e fraterna». Per il Papa, «quando, tuttavia, i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo richiedono, i pastori hanno il grave dovere di emettere un giudizio morale anche in materia politica». Nel formulare questi giudizi, i pastori devono prendere in considerazione il valore assoluto dei precetti morali negativi, «moralmente inaccettabili» alla base di una particolare azione «intrinsecamente cattiva e incompatibile con la dignità della persona».
La scelta di azioni cattive, ha chiarito il Pontefice, «non può essere riscattata dalla bontà di qualsiasi ordine, scopo, conseguenza o circostanza». Pertanto, «sarebbe totalmente falsa e illusoria qualsiasi difesa dei diritti umani politici, economici e sociali che non comprendesse un’energica difesa del diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale». Perciò, «quando i progetti politici contemplano, apertamente o velatamente, la depenalizzazione dell’aborto o dell’eutanasia, l’ideale democratico – che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana – è tradito nelle sue fondamenta».
«Cari fratelli nell’episcopato – ha chiarito il Santo Padre – nella difesa della vita, non dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo”. Per “aiutare meglio i laici a vivere il loro impegno cristiano e socio-politico in modo unitario e coerente, è necessaria una catechesi sociale e un’adeguata formazione alla Dottrina sociale della Chiesa». «I Pastori – ha concluso - devono ricordare a ogni cittadino il diritto, che è anche un dovere, di usare liberamente il proprio voto per promuovere il bene comune».

IL PAPA ALLA PONTIFICIA ACCADEMIA DELLE SCIENZE
La “stima della Chiesa” e “la sua gratitudine” per “la continua ricerca scientifica”. Ad esprimerla è Papa Benedetto XVI ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze riuniti in sessione plenaria e ricevuti oggi dal Santo Padre. “I progressi compiuti nelle conoscenze scientifiche nel XX secolo, in tutte le sue varie discipline – ha detto il Papa – ha portato a una consapevolezza molto maggiore del posto che l'uomo e il pianeta occupano nell'universo”.
Il Papa ha osservato come nell’ultimo secolo, l’uomo ha compiuto più progressi che “in tutta la storia precedente dell'umanità”. Da qui la gratitudine della Chiesa per i risultati raggiunti. Allo stesso tempo il Papa ha sottolineato come gli scienziati stessi comincino ad apprezzare “sempre più la necessità di aprirsi alla filosofia”, riconoscendo che il mondo “esiste indipendentemente da noi”. Ed ha aggiunto: L'esperienza dello scienziato “è quindi quella di percepire una costante, una legge, un logos che lo scienziato non ha creato ma che può solo osservare”. La ricerca infatti conduce “ad ammettere l'esistenza di una ragione onnipotente, che è diverso da quello dell'uomo, e che sostiene il mondo. Questo è il punto di incontro tra le scienze naturali e la religione. La scienza pertanto diventa un luogo di dialogo, un incontro tra uomo e natura e, potenzialmente, anche tra l'uomo e il suo Creatore”.

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domenica 24 ottobre 2010

IO NON CI STO, VOGLIO RACCONTARE TUTTI I MISFATTI DEL RISORGIMENTO


(23/10/2010) - Qualche giorno fa il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, come gli capita spesso in questi mesi, fa discorsi con riferimenti espliciti al Risorgimento, non mancando di incensarlo in continuazione. Mi ha colpito una sua frase, dobbiamo liberare l'unità d'Italia dal revisionismo. Napolitano non poteva essere così esplicito e preciso. Mi sembra come quei cani da guardia che definiscono la 'storia patria' vigilano pronti a stroncare ogni tentativo 'revisionista'.
In questi mesi di preparazione ai festeggiamenti dei 150 anni dell'unità d'Italia mi sembra che anche in certi ambienti di centrodestra si raccomanda di non calcare troppo la mano contro i cosiddetti padri della patria vedi Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini e soprattutto ci dicono che mettendo in discussione tutto il periodo risorgimentale si rischia di sfasciare tutto e di remare a favore delle contrapposizioni qualunquistiche, di un certo meridionalismo becero e rivendicazionista, e soprattutto di favorire la politica del secessionismo di matrice leghista.
Allora oggi noi che cosa possiamo fare dopo 150 anni? Cancellare l'unità d'Italia? Certamente no. E' stata fatta, ce la teniamo, detto questo però vogliamo raccontare la Verità: il come è stata fatta e soprattutto contro chi è stata fatta.
E' paradossale che proprio ora dopo la caduta del Muro di Berlino, e finalmente liberi da quegli schemi ideologici che ci hanno tenuti legati almeno per tutto il periodo della guerra fredda, proprio ora che il muro della leggenda risorgimentale comincia a presentare vistose crepe, anche se ancora permane purtroppo nei testi scolastici, ora che è possibile finalmente raccontare la Vera Storia del cosiddetto risorgimento, mi devo stare zitto o almeno soprassedere su quegli aspetti violenti che potrebbero cancellare l'oleografia creata ad arte dai cosiddetti storici di professione e che naturalmente ora non vogliono che si metta in discussione.
Ecco io a questo gioco non ci sto, quando posso cercherò sempre in tutti i modi di raccontare quello che so, che ho studiato, che mi hanno raccontato. La mia conoscenza dell'altra storia è iniziata negli anni della mia adolescenza, leggendo il bellissimo libro di Carlo Alianello, La Conquista del Sud, edito dalla coraggiosa casa editrice Rusconi di Milano. Dalla lettura di questo libro e poi di tanti altri, soprattutto quello di Patrick Keyes O' Clery, La Rivoluzione Italiana, edito in Italia per la prima volta da Ares di Milano, un corposo scritto di ben 780 pagine, l'autore irlandese l'ha scritto in due tempi nel 1875 e nel 1892. Una lettura utile obiettiva, che non riduce la Storia a un complotto, e se condanna il modo di unificazione dell'Italia da parte di una ristretta èlite liberale, lo fa sempre presentando le fonti risorgimentali, liberali. Come fa del resto anche la storica Angela Pellicciari, in particolare nel libro Risorgimento da riscrivere.
Ma oltre ai libri, non posso non ricordare la grande influenza che ha avuto su di me l'opera catechizzante di Alleanza Cattolica che oltre a essere un'agenzia volta a far conoscere il magistero sociale della Chiesa, lavora per fare un'opera di controstoria, soprattutto degli ultimi duecento anni.
Leggendo e ascoltando insigni storici ho scoperto con grande sorpresa che quello che mi avevano raccontato fin dalla scuola elementare spesso erano favole da refezione scolastica, come ha ben scritto Giovanni Cantoni nella prefazione al libro Rivoluzione e Controrivoluzione. Nessuno mi aveva mai raccontato la Verità sui fatti: che l'unità d'Italia è stata fatta per cancellare l'identità cattolica del popolo italiano, della Chiesa Cattolica. Che il Piemonte era uno strumento in mano alle lobby massoniche che lottavano per “unire”, “fare” gli italiani secondo i principi liberali e massonici.
Per fare questa unità culturale prima occorreva conquistare e annientare tutti i regni italiani, a cominciare da quello del Regno delle due Sicilie, uno stato millenario, che Vittorio Emanuele II, definito re 'galantuomo' ha aggredito senza nessuna giustificazione uno Stato sovrano, per giunta cercando di giustificarsi con la falsa teoria che i popoli meridionali hanno chiesto aiuto, il famigerato grido di dolore , tra l'altro mai levatosi. Gli inglesi approntarono una campagna diffamatoria, basata su calunnie diffuse in tutta Europa a danno dei Borboni e delle Due Sicilie, dipingendo gli uni come tiranni spietati e i loro sudditi come popoli semibarbari. Bisognava fare terra bruciata attorno al nemico. Più avanti lo stesso Gladstone, primo ministro inglese, confessò di essersi inventato tutto. “Si doveva far passare il piano eversivo di pochi uomini senza scrupoli, prezzolati dallo straniero, quale spontanea rivolta popolare. Far passare per epiche battaglie delle pallide scaramucce che consentirono a una masnada male assortita di banditi, ladri ed ex galeotti, di impadronirsi di un magnifico regno quasi senza far uso delle armi se non nella fase finale della conquista. Tra l'altro tutto questo, sarebbe stato vano se i fedelissimi soldati delle Due Sicilie avessero avuto la possibilità di battersi contro questa ciurmaglia di miserabili scalzacani. In pratica la fantasmagorica passeggiata (di Garibaldi & Co) da Marsala a Napoli non sarebbe mai avvenuta”. (Bruno Lima, Due Sicilie 1860, l'invasione. Fede & Cultura).
Ecco io dovrei tacere tutte queste cose? Dovrei tacere che l'esercito piemontese, 120 mila uomini, hanno messo a ferro e a fuoco tutto il territorio meridionale, facendo rastrellamenti molto simile a quelli operati dai nazisti nel 43-45 in Italia, massacrando migliaia di italiani, definiti briganti. In pratica i popoli delle Due Sicilie vennero privati della loro libertà e soggiogati da un esercito straniero, derubati dei loro beni privati e pubblici. Conseguenza di tutto questo per sottrarsi a un destino senza speranza milioni di meridionali non ebbero altra scelta che abbandonare per sempre il loro paese.
Inoltre l'immenso tesoro del Regno che ammontava a 443,2 milioni di lire del tempo fu sperperato per sanare il devastante debito pubblico piemontese. L'accanimento nel saccheggio del Mezzogiorno - continua don Bruno - e lo sfruttamento incontrollato dei suoi abitanti produsse uno stato di miseria riconducibile storicamente solo alle depredazioni barbariche e a quelle dei pirati berberi. Ecco si dovrebbero tacere tutte queste cose. Impossibile, la verità tutta o niente, è l'unica carità concessa alla storia, scriveva uno scrittore francese. E’ vero: la “liberazione” del Sud è stata, né più né meno, una conquista. E pure spietata. Scrive Pellicciari, soltanto che oggi il problema non è quello di contrapporre il Nord contro il Sud. Partire solo da questo costituisce, a mio modo di vedere, un’operazione riduttiva e miope. Non si può contrapporre, come fa Bernardo Bruno Guerri, tra i briganti (i meridionali) e gli italiani civili (i settentrionali). Piuttosto “la contrapposizione vera però non è tanto fra Nord e Sud, quanto fra illuminati (liberali sia settentrionali che meridionali) e cattolici (il 99% degli italiani). I liberali hanno tentato, in nome della libertà e della costituzione, di imporre agli italiani un cambiamento di identità. Hanno voluto che rinunciassimo alla nostra religione, alla nostra cultura, alla nostra arte e alla nostra organizzazione socio-economica”. (Angela Pellicciari, Povera Unità, 19.10.2010 Il Tempo).
La Pelliciari insiste l’unità d’Italia fatta contro la chiesa e cioè, conviene ripeterlo, contro gli italiani, è un dramma che a distanza di 150 anni non riesce a passare. E non passa perché lo si nega. Ora viene alla luce la realtà della conquista del Sud. Nessuno ricorda la violenza anticattolica ai danni di tutta l’Italia, di cui la violenza antimeridionale è diretta conseguenza.

DOMENICO BONVEGNA
domenicobonvegna@alice.it

fonte: IMGPress

sabato 23 ottobre 2010

giovedì 21 ottobre 2010

Così le cliniche della "disonestà intellettuale" aggirano la legge 40



giovedì 21 ottobre 2010

L’introduzione, a partire dal 1978, delle procedure di fertilizzazione extracorporea (fecondazione in vitro; FIV) per la generazione di embrioni umani da trasferire nell’utero della donna (embryo transfer; ET) al fine di ottenere una gravidanza, altrimenti impossibile o improbabile a motivo di uno o più fattori di sterilità femminile o maschile, è stata celebrata nelle scorse settimane in occasione dell’assegnazione del premio Nobel 2010 per la medicina a Robert G. Edwards, che della FIV umana è stato uno dei pionieri.

Come ogni “novità” biotecnologica, anche questa ha prodotto un mutamento non solo nelle procedure cliniche relative al trattamento di una patologia, ma ha generato uno “sguardo” diverso nella pratica della biologia e della medicina, “trasfigurando” – per così dire – la posizione del ricercatore e del medico, che di questa capacità tecnica decidono di avvalersi, di fronte alla vita umana, talora senza che gli stessi professionisti avvertano inizialmente la portata culturale e sociale di questo mutamento.

Tra le conseguenze che la FIV-ET ha introdotto nell’ultimo quarto del secolo scorso vi è anche la possibilità pratica, fino ad allora irrealizzabile (e anche, a detta di molti, impensabile), di manipolare in laboratorio il concepito nei primi giorni del suo sviluppo, già a partire dalla fertilizzazione, quando l’embrione è costituito da una sola cellula fino a poco più di un centinaio di cellule. L’essere umano all’inizio della sua esistenza, che sino a qualche decennio fa era “nascosto” e “protetto” nelle vie genitali femminili – la salpinge e la cavità uterina – e, prima del suo impianto endometriale, non poteva neppure essere “osservato” indirettamente attraverso l’ecografia, è così divenuto un “oggetto” biologico disponibile per ogni genere di studi, di tipo invasivo o non invasivo.

Fatto crescere, a 37 gradi centigradi e in presenza di ossigeno, in un apposito terreno di coltura contenente numerose sostanze, l’embrione viene osservato al microscopio ottico, le sue cellule vengono misurate e contate in funzione delle ore che trascorrono dalla messa a contatto dell’ovocita con gli spermatozoi, e anche, talora, prelevate (una o poche di esse) per analizzarle citogeneticamente e molecolarmente.

Gli embrioni – solitamente più di uno per ogni ciclo di stimolazione ovarica, prelievo degli ovociti e FIV – sono così classificati in diverse categorie standardizzate (un processo che gli inglesi chiamano “embryo scoring”: letteralmente, “assegnare un punteggio all’embrione”) sulla base della loro morfologia e della loro sviluppo nel tempo: solamente quelli ritenuti “vitali” (ossia in grado di continuare a svilupparsi regolarmente e di impiantarsi nell’endometrio dopo l’ET) vengo trasferiti mediante un sottile catetere nella cavità uterina della donna durante i primi giorni della fase luteale del suo ciclo ovarico, in un numero che viene deciso dall’équipe di procreazione medicalmente assistita (PMA) con il consenso della madre, tenuto conto della sua età, degli eventuali precedenti “fallimenti” della FIV-ET, del rischio di una gravidanza multipla che essa è disposta ad accettare e della legislazione vigente nel Paese (in Italia, non più di tre embrioni).


Nonostante il monitoraggio della “qualità” degli embrioni (il termine, purtroppo, è entrato nel gergo della PMA ed è un’altro amaro frutto della deriva culturale introdotta nell’antropologia della procreazione umana dalla FIV-ET) generati in vitro e “selezionati” per il trasferimento in utero, ordinariamente svolto solo attraverso l’osservazione microscopica (senza biopsia cellulare), possa sembrare così severo, esso non consente di escludere che uno o più embrioni destinati all’ET sia affetto da una anomalia cromosomica (che può riguardare il numero dei cromosomi, differente dalle 23 coppie di un soggetto euploide, oppure la loro morfologia, come nel caso delle traslocazioni e di altre aberrazioni cariologiche) o da un difetto genomico (mutazione patogenetica), capaci di influenzare negativamente lo sviluppo e la salute del nascituro.

Talora, in un numero limitato di casi, il difetto è già presente nella famiglia di origine del padre e/o della madre e vi è una data probabilità che esso possa venire trasmesso al figlio o alla figlia. Più frequentemente, il timore per la nascita di un figlio da FIV-ET non sano è generico, cioè riferito alla probabilità generale dell’insorgenza di malattie da anomalie cromosomiche (come la sindrome di Down, quella di Ullrich-Turner e altre) o legate a mutazioni geniche presenti nella popolazione cui gli aspiranti genitori appartengono. Vi è, infine, la non infondata paura che le stesse manipolazioni dei gameti e dell’embrione legate alla FIV possano avere provocato, seppure raramente, dei difetti cromosomici nel concepito.

Al “desiderio di un figlio”, solo per compiere il quale le coppie infertili sembravano disposte a ricorrere alla FIV-ET quando essa fu originalmente resa disponibile nella pratica clinica ed esclusivamente per rispondere al quale alcuni medici si erano inizialmente dedicati a questa nuova procedura ostetrico-ginecologica, si è successivamente aggiunto il “desiderio di un figlio sano”.

Cosa, in sé, legittima – la salute è un bene prezioso dell’uomo e “desiderarla” per i nostri figli così come per noi stessi è una aspirazione positivase il “desiderio” non si trasformasse in una “pretesa” nei confronti della PMA tale da indurre taluni dei suoi specialisti (biologi, genetisti e medici), che accondiscendono a una simile “pretesa”, ad introdurre un “filtro selettivo” degli embrioni, prima del ET, non più legato esclusivamente alla loro “vitalità” (così come emerge dalla divisione cellulare, dalla regolarità morfologica e da altri parametri osservazionali), ma basato sulla “qualità” cariotipica e/o genotipica del concepito.

Lo si voglia designare con questo termine oppure no, lo scivolamento dal “desiderio” (o “invocazione”) alla “pretesa” (o “condizione”) della salute per ogni figlio nato attraverso la FIV-ET rappresenta una deriva in senso eugenetico della PMA capace di effetti dirompenti, a livello sociale, sulla riconosciuta uguaglianza nella dignità e nei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani che iniziano la loro vita su questa terra, indipendentemente dal loro patrimonio genetico e dalle caratteristiche biologiche (fisiologiche o patologiche) del loro corpo e della loro mente
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Nel nostro Paese, la legge 40 sulla PMA vieta (art. 13) la selezione genetica degli embrioni nel corso della FIV-ET. Cedendo a pressioni (o alimentando la “domanda”: accade anche questo) delle coppie infertili di avere i propri concepiti in vitro selezionati prima dell’impianto in utero per escludere quelli portatori di difetti cromosomici o genomici, alcuni centri italiani di PMA hanno deciso di predisporre studi sperimentali o applicare protocolli collaudati in altre nazioni per la cosiddetta “diagnosi preimplantatoria” (DPI) sugli embrioni.

Alcuni di essi, confidando su sentenze giudiziarie che sconvolgono lo spirito e la lettera della legge, si stanno attrezzando per la “classica” DPI, quella eseguita sull’embrione a più cellule (stadio di pre-morula o morula) che prevede il prelievo di una o più di esse, una procedura invasiva che, tra l’altro, non è priva di qualche rischio per lo sviluppo regolare dell’embrione biopsiato. Pochi altri centri, invece, hanno cercato di aggirare il divieto della legge 40 prospettando una diagnosi eseguita sul gamete femminile, l’ovocita, in sostituzione di quella sull’embrione (non è tecnicamente possibile eseguire un’analisi cariotipica o genomica sul gamete maschile, lo spermatozoo, senza distruggerlo).

Si tratta di una tecnica che prevede il prelievo e l’analisi di uno o di entrambe i cosiddetti “globuli polari”, (corpuscoli collocati nello spazio sottostante la zona pellucida che la riveste l’ovocita). Il primo contiene quella metà dei cromosomi omologhi della madre che non sarà trasmessa al figlio attraverso la fecondazione. Per differenza dal corredo materno, è così possibile conoscere (non senza un certo margine di errore, dovuto al fenomeno della “ricombinazione genica” che avviene solo dopo che lo spermatozoo è penetrato nell’ovocita) se l’embrione che dovesse risultare dalla fertilizzazione avrà oppure no un difetto genetico.

Nel caso sia portatore del difetto, l’ovocita non sarà fecondato e si dovrà procedere ad analizzarne altri, alla ricerca di uno esente. Se ci si limita al prelievo e all’analisi del primo globulo polare, non si interviene ancora sul concepito (non è ancora avvenuta la fecondazione), ma solo sulla cellula germinale della donna, e questo non viola il dettato della legge 40 a proposito della sperimentazione, selezione e distruzione di embrioni umani generati mediante la FIV (artt. 13-14)

Per ridurre il margine di errore di questo tipo di DPI, altri centri di PMA hanno invece deciso di analizzare anche il secondo dei due globuli polari, che si forma dopo fase della meiosi in cui è possibile una “ricombinazione genica”, ossia quando la penetrazione dell’ovocita da parte dello spermatozoo è già avvenuta. Dopo l’analisi del secondo globulo polare è nato da FIV-ET in Italia, a settembre, il primo bambino selezionati per l’esenzione da difetti cromosomici.


Contrariamente a quanto un uso improprio del termine “ovocita” ha lasciato intendere ai non addetti ai lavori, la selezione non è avvenuta sul gamete femminile prima della fecondazione (se così fosse, non sarebbe stato possibile analizzare anche il secondo globulo polare), ma dopo, ossia sul concepito allo stadio di una sola cellula (il cosiddetto “zigote pronucleato”). Per quanto esso si trovi nelle prime ore del suo sviluppo, si tratta di un essere umano che racchiude in sé il patrimonio genetico ricevuto dalla madre e dal padre, ossia tutte le informazioni necessarie per la sua crescita ed il suo impianto nell’utero materno.

Sottigliezze biologiche e filosofiche, qualcuno potrebbe dire. In realtà, è proprio sulla lealtà (un tempo la si sarebbe chiamata “onestà intellettuale”) con la quale si guarda la realtà dell’inizio della vita umana individuale che si gioca tutto il rispetto e l’amore che si ha verso di essa, sia da parte dei genitori che chiedono alla medicina di essere aiutati a concepire un figlio, sia da parte dei medici che si mettono al servizio dei genitori e, così facendo, anche di Colui che dona loro un figlio: il Mistero da cui proviene il nostro essere e quello di ogni altro uomo che viene al mondo.

Che l’uomo non sia riducibile a un “prodotto” da selezionare – anche quando, purtroppo, non è generato dall’atto d’amore di una madre e di un padre, ma attraverso una procedura biotecnologica – è la stessa ragione che lo suggerisce: la nostra vita non è la somma di quantità e di qualità che non ineriscono ad alcunché e stanno sospese in un “vuoto d’essere”, disponibili per essere prese o lasciate, ma essa consiste in un soggetto, un “io” unico e irripetibile, che solo è capace di dare consistenza a tutto ciò che gli appartiene, incluse le sue quantità e qualità biologiche e psicologiche.

Un soggetto, dunque, che chiede di essere accolto per quello che è, non per ciò che ha o non possiede (ancora). Questo è l’uomo che, all’inizio della sua esistenza, la FIV-ET ha messe nelle mani dell’uomo: una responsabilità pesante per chi decide di avvalersene, rispetto alla quale la società non può dichiararsi estranea o “neutrale”. La civiltà di una nazione non si misura forse dalla sua capacità di difendere e promuovere i diritti di coloro il cui grido non è la “povera voce di un uomo che non c’è”, ma implora silenziosamente “che il respiro della vita non abbia fine”?

mercoledì 20 ottobre 2010

I più bravi allievi di Ratzinger sono in Sri Lanka e Kazakhstan

Sono i vescovi Ranjith e Schneider. Seguono l'esempio del papa in campo liturgico più e meglio di tanti loro colleghi in Italia e in Europa. Un test rivelatore: il modo di dare la comunione nella messa.

di Sandro Magister



ROMA, 14 ottobre 2010 – Nello Sri Lanka i vescovi e i sacerdoti cattolici vestono tutti di bianco, come si può vedere nell'insolita foto qui sopra: con l'intero clero della diocesi di Colombo, la capitale, in diligente ascolto del suo arcivescovo Malcolm Ranjith, probabile nuovo cardinale nel prossimo concistoro.

Nella sua diocesi, l'arcivescovo Ranjith ha indetto uno speciale anno dell'eucaristia. E per prepararlo ha riunito tutti i suoi sacerdoti in tre dense giornate di studio a Colombo, dove ha fatto arrivare da Roma due oratori d'eccezione: il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della congregazione vaticana per il culto divino, e padre Uwe Michael Lang, membro della medesima congregazione e consultore dell'ufficio delle celebrazioni liturgiche pontificie.

Lang, tedesco di nascita, oratoriano, è cresciuto in Gran Bretagna alla scuola del grande Henry Newman, fatto beato da Benedetto XVI lo scorso 19 settembre a Birmingham. È autore di uno dei libri che più hanno fatto discutere negli ultimi anni, in campo liturgico: "Rivolti al Signore", nel quale sostiene che l'orientamento giusto nella preghiera liturgica è verso Cristo, sia da parte dei sacerdoti che dei fedeli. Il libro era introdotto da una prefazione partecipe di Joseph Ratzinger, scritta poco prima della sua elezione a papa.

L'arcivescovo Ranjith, che prima di tornare in Sri Lanka era segretario della congregazione vaticana per il culto divino, è stato ed è un entusiasta estimatore e propagatore della tesi del libro di Lang, oltre che persona di fiducia di Benedetto XVI. Così come lo è il cardinale Cañizares Llovera, non a caso definito in patria "il Ratzinger della Spagna". chiamato a Roma dal papa per far da guida alla Chiesa in materia liturgica, obiettivo centrale di questo pontificato.

Non solo. Per offrire ulteriori lumi ai suoi sacerdoti nelle tre giornate di studio, l'arcivescovo Ranjith ha fatto arrivare dalla Germania uno scrittore cattolico di primo piano, Martin Mosebach, anche lui autore di un libro che ha fatto molto discutere: "Eresia dell'informe. La liturgia romana e il suo nemico". E l'ha chiamato a parlare proprio sugli sbandamenti della Chiesa in campo liturgico.

Tutto questo per quale finalità? Ranjith l'ha spiegato in una lettera pastorale alla diocesi: per ravvivare la fede nella presenza reale di Cristo nell'eucaristia e per educare a esprimere tale fede in segni liturgici adeguati.

Ad esempio col celebrare la messa "rivolti al Signore", col ricevere la comunione nella bocca invece che in mano, e col riceverla in ginocchio. Insomma con quei gesti che sono tratti distintivi delle messe celebrate da papa Ratzinger.

*

Ciò che colpisce, di questa come di altre notizie analoghe, è che l'azione di Benedetto XVI per ridare vitalità e dignità alla liturgia cattolica sembra meglio capita e applicata nella "periferia" della Chiesa che nel suo baricentro europeo.

Non è un mistero, ad esempio, che il canto gregoriano è oggi più vivo e diffuso in taluni paesi dell'Africa e dell'Asia che in Europa.

Tra le indicazioni date dall'arcivescovo Ranjith per l'anno eucaristico nella diocesi di Colombo c'è infatti anche quella di educare i fedeli a cantare in latino, nelle messe, il Gloria, il Credo, il Sanctus, l'Agnus Dei.

Allo stesso modo, la decisione di Benedetto XVI di liberalizzare l'uso del messale antico accanto a quello moderno – per un reciproco arricchimento tra le due forme di celebrazione – pare essere compresa e applicata in Africa e in Asia meglio che in talune regioni d'Europa.

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Un'ulteriore prova di ciò riguarda il modo con cui la comunione è data ai fedeli: in mano o nella bocca, in piedi o in ginocchio.

L'esempio dato da Benedetto XVI – comunione in bocca e in ginocchio, in tutte le sue messe a partire dal Corpus Domini del 2008 – trova pochissimo seguito soprattutto in Europa, in Italia e nella stessa Roma, dove si continua quasi ovunque a dare la comunione in mano a chiunque si avvicini a chiederla, nonostante le norme liturgiche lo consentano sono in casi eccezionali.

A Palermo, dove il papa si è recato lo scorso 3 ottobre, alcuni sacerdoti del posto hanno rifiutato di mettersi in fila per ricevere la comunione da lui, pur di non sottostare a un gesto che non condividono.

Si è inoltre diffusa la diceria che nelle messe celebrate dal papa ci si inginocchia perché si è davanti a lui, e non per adorare Gesù nel santissimo sacramento. Una diceria che trova ascolto nonostante da qualche tempo diano la comunione in bocca e al fedele inginocchiato anche i cardinali e i vescovi che celebrano su mandato del papa.

Non sorprende che il servizio che www.chiesa ha dedicato a metà settembre al significato dell'inginocchiarsi in adorazione davanti a Dio e all'eucaristia abbia sollevato le proteste di vari lettori, tra i quali dei sacerdoti. L'argomento principe portato contro l'inginocchiarsi alla comunione è che la messa ha come suo modello e origine l'ultima cena, dove gli apostoli stavano seduti e mangiavano e bevevano con le loro mani.

È il medesimo argomento addotto dai neocatecumenali per giustificare il loro modo "conviviale" di celebrare la messa e di fare la comunione, al quale continuano ad attenersi grazie al permesso che le autorità della Chiesa – tra cui vantano dei sostenitori, come il sostituto segretario di stato Fernando Filoni – hanno dato loro di "ricevere la comunione in piedi restando al loro posto" (articolo 13.3 del loro statuto).

Anche qui, per trovare le parrocchie, le diocesi, i sacerdoti e i vescovi che agiscono e insegnano in piena sintonia con Benedetto XVI è più facile cercare nella "periferia" della Chiesa: ad esempio nel remoto Kazakhstan, nell'Asia centrale ex sovietica.

Lì, nella diocesi di Karaganda, i fedeli ricevono tutti la comunione in bocca e in ginocchio. E lì c'è un giovane vescovo, l'ausiliare di Karaganda Athanasius Schneider, che ha scritto sul tema un libretto splendente come una pietra preziosa, dal titolo: "Dominus est. Riflessioni di un vescovo dell'Asia centrale sulla sacra comunione".

Il libretto è in due parti. La prima racconta le vite eroiche di quelle donne cattoliche che negli anni del dominio comunista portavano in segreto la comunione ai fedeli, sfidando le proibizioni. E la seconda spiega la fede che era all'origine di quell'eroismo: una fede così forte nella presenza reale di Gesù nell'eucaristia da offrire per essa la vita.

Ed è su questo sfondo che il vescovo Schneider rivisita i Padri della Chiesa e la storia della liturgia in occidente e in oriente, illuminando il nascere e il consolidarsi del modo adorante di ricevere la comunione in ginocchio e nella bocca.

Quando papa Ratzinger lesse il manoscritto del vescovo Schneider, subito ordinò alla Libreria Editrice Vaticana di pubblicarlo. Il che fu fatto, in italiano e in spagnolo, nel 2008.

L'edizione in lingua inglese del libro ha la prefazione dell'arcivescovo di Colombo, Ranjith.

domenica 17 ottobre 2010

I "segni" dei tempi !


Le grandi trasformazioni avvengono sempre attraverso piccoli ma significativi segnali.

Uno di questi è rappresentato dalla vicenda della scuola elementare cattolica del Sacro Cuore di Blackburn nel Lancashire inglese.
La Sacred Heart Roman Catholic Primary School Blackburn, questo il nome ufficiale della scuola, vanta origini storiche più che dignitose, risalenti a centodieci anni fa.
La prima pietra fu posata il 5 maggio 1900 da Sua Eccellenza monsignor John Bilsborrow, Vescovo di Salford, ed il 14 gennaio 1901 la scuola fu ufficialmente inaugurata, accogliendo i primi ventotto alunni.
Perché questo centenario istituto scolastico cattolico sia diventato un segno dei tempi è presto detto.
Alla fine di settembre è stato dato l’annuncio che la Sacred Heart Roman Catholic Primary School di Blackbury sarà quasi certamente rilevata dalla locale moschea Masjid-e-Tauheedul, e diventerà una scuola islamica.
La presenza degli alunni cattolici, che dieci anni fa si attestava attorno al novanta per cento, oggi non raggiunge il tre per cento, rappresentando una sparuta minoranza rispetto agli altri studenti di origine asiatica quasi tutti musulmani.
Da qui la decisione delle autorità religiose di lasciare l’istituto.
La diocesi di Salford ha dichiarato, infatti, di non ritenere più appropriato definire come cattolica la scuola, che oggi ha 197 alunni, di cui solo cinque o sei appartenenti alla Chiesa di Roma. Geraldine Bradbury, responsabile diocesana dell’educazione, ha ammesso di «non aver mai assistito ad un cambiamento di tali dimensioni prima d’ora», ed ha comunque difeso la decisione di abbandonare le elementari del Sacro Cuore, ritenendo giusto «dare alle esigenze educative della comunità un’adeguata risposta». Quindi, disco verde alla scuola musulmana. Del resto, il consiglio di amministrazione delle elementari del Sacro Cuore si è già dimesso, adducendo la motivazione che l’orientamento cattolico dell’istituto da tempo non rispecchia più il sentire religioso della comunità locale.
A questo punto la legge impone all’amministrazione comunale di Blackburn l’obbligo di indire una gara pubblica per individuare l’organizzazione che dovrà gestire la scuola.
La moschea Masjid-e-Tauheedul appare in pole position per l’aggiudicazione, visto che, oltretutto, uno studio fatto eseguire dalla medesima amministrazione comunale ha rilevato come una scuola islamica rappresenti, in realtà, la migliore risposta alle istanze della popolazione locale, in maggioranza musulmana.(!!) La stessa moschea, peraltro, gestisce già un istituto superiore femminile a Blackburn, il Tauheedul Islam Girls’ High School, il cui preside, Hamid Patel, ha definito più che ragionevole il subentro nella gestione della scuola elementare del Sacro Cuore, visto quasi tutti gli allievi della scuola cattolica sono ormai musulmani.

Questa vicenda paradigmatica contiene in sé i due fattori che caratterizzano l’avanzata dilagante dell’islam in Gran Bretagna: il progressivo allontanamento dalla tradizionale fede religiosa cristiana, e la crescita demografica a ritmi esponenziali della comunità musulmana.
Ignorare questa evidenza, significa eludere la realtà, perdere il senso di ciò che accade, e cedere alla mortale logique de l’autruche. Non è nascondendo la testa sotto la sabbia che si affronta un fenomeno epocale come quello del rapporto con l’islam. Serve semmai un giudizio che, attraverso l’intelligenza, la coscienza e la ragione, sia in grado di comprendere la natura, l’essenza ed il significato di tale fenomeno.

Dando un’occhiata al sito web della diocesi di Salford, ed in particolare allo spazio dedicato all’educazione, si può leggere quanto segue a proposito delle scuole cattoliche:

Com’è noto, San Pietro una volta disse: «Siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi. Ma fate questo con dolcezza e rispetto» (1 Pietro 3,15). La Chiesa cattolica ha sempre mostrato una particolare attenzione all’educazione per essere in grado di testimoniare l’azione salvifica di Gesù Cristo in una maniera convincente e rispettosa. Tale compito richiede un’adeguata formazione delle menti e dei cuori. La diocesi di Salford fornisce i mezzi con cui i cristiani possono essere formati ed educati nella fede.

Beh, dopo la vicenda delle scuole elementari del Sacro Cuore di Blackburn forse sarebbe meglio che i responsabili diocesani facciano qualche riflessione in più. E non solo loro.

giovedì 14 ottobre 2010

LE STRATEGIE VINCENTI PER L'APPLICAZIONE DEL MOTU PROPRIO SUMMORUM PONTIFICUM


Anche Pistoia avrà la sua Messa festiva nella forma straordinaria
da Coordinamento Toscano Benedetto XVI


Tra poche settimane, anche Pistoia avrà la sua Messa festiva in rito romano antico.


Si tratta della venticinquesima celebrazione regolare in Toscana (più altre due assicurate dalla Fraternità di S. Pio X), il che dimostra, ancora una volta, che l'attaccamento all'antica tradizione liturgica gode, nella nostra regione, di una sorprendente vitalità. Come si è giunti a tale importante risultato? Non bisogna credere che la Toscana sia un'isola felice, dove i problemi e le opposizioni nei confronti del rito antico non esistono o sono meno gravi che altrove. La situazione, qui, non è diversa dalle altre regioni di Italia: molti gruppi di laici (piccoli ma molto decisi) intenzionati a far applicare il motu proprio nella propria città, molti fedeli comuni potenzialmente interessati, pochi o pochissimi ecclesiastici disposti a seguirli e a dar seguito alle loro legittime richieste. Ciò che probabilmente fa la differenza, è l'aiuto reciproco che i fedeli toscani legati al rito antico hanno deciso di darsi, riunendosi in un Coordinamento di associazioni. A Pistoia, in particolare, si è seguito un iter ben preciso, durato meno di un anno, che ha consentito di giungere al traguardo della Messa festiva settimanale. Vediamo quale.
Esisteva a Pistoia un piccolo gruppo di fedeli non organizzato, che, pur avendo la possibilità di frequentare la Messa tradizionale a Prato, desiderava avviare una celebrazione regolare nella propria diocesi. Le prospettive non erano rosee: nessuno dei sacerdoti contattati sembrava disposto ad "accogliere benignamente", come dispone il motu proprio (art. 5, § 1), la loro richiesta. In questi casi, è facile lasciarsi abbattere dall'impressione che le difficoltà siano insormontabili e far cadere la cosa. Alcuni sono ancora convinti che, nonostante il provvedimento pontificio, l'effettiva concessione della liturgia tradizionale dipenda ancora dalla discrezione dei vescovi. Inoltre, la mancanza di esperienza, normale nei gruppi di recente formazione, fa sì che molti non sappiano come comportarsi di fronte ad un rifiuto. Per quanto possa apparire paradossale, sono questi, più che l'opposizione del clero (che esiste dovunque), i motivi per cui tante volte non si riesce ad ottenere la Messa in rito antico, anche quando i fedeli interessati non mancano. I pistoiesi, tuttavia, non si sono lasciati scoraggiare. Si sono rivolti al Coordinamento Toscano "Benedetto XVI" e, grazie ad esso, hanno avuto modo di confrontarsi con gruppi di più consumata esperienza, per delineare una strategia di azione che consentisse loro di far valere i diritti garantiti dal motu proprio.
Per prima cosa, il direttivo del Coordinamento ha consigliato di indire una riunione a livello diocesano e di costituire un'associazione dotata di statuto e cariche. Non si trattava di una mera formalità o di una complicazione burocratica, ma di un mezzo che si era già sperimentato efficace (per esempio a Pisa) per presentarsi come realtà unitaria e coesa di fronte alle autorità ecclesiastiche. Il motu proprio, è vero, non la richiede, ma l'esperienza dimostra che in molti casi essa si rivela indispensabile. Alla prima riunione, organizzata congiuntamente da alcuni fedeli pistoiesi e dal direttivo del Coordinamento, ha partecipato un numero di fedeli sorprendente, se si pensa che l'iniziativa era stata divulgata solo tramite il passaparola. Al termine, i presenti si sono accordati nel costituire un'associazione intitolata alla Madonna dell'Umiltà (cui a Pistoia è dedicata una celebre basilica) e nel designare due di loro come presidente e segretario. L'associazione ha immediatamente aderito al Coordinamento Toscano "Benedetto XVI". Poco tempo dopo, si è anche dotata di uno statuto che ne determinava la natura, le finalità, il funzionamento.
Espletata la fase "aggregativa", era possibile passare a quella "attiva". Il presidente e il segretario hanno inviato alla Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" un'informativa in cui si dava notizia della nuova associazione. Un'altra lettera veniva mandata poco dopo al vescovo diocesano per domandare udienza. Nella situazione attuale, è fondamentale che la Santa Sede sia informata della nascita di nuove associazioni finalizzate a promuovere il rito antico, ed è pure fondamentale che l'ordinario diocesano sappia che la Santa Sede è informata. In questo modo l'associazione, da un lato dimostra di agire con la massima trasparenza, e dall'altro previene, se mai ce ne fosse bisogno, i tentativi di insabbiamento della richiesta. A proposito della richiesta: l'esperienza dimostra che è bene non includerla nella lettera in cui si dà notizia dell'associazione e si domanda udienza. Meglio avanzarla, a voce, nel corso dell'udienza stessa. Soltanto a fronte di un rifiuto o di una "concessione" (utilizziamo questo termine in modo puramente convenzionale, perché di fatto il vescovo non concede un privilegio, ma applica una legge) puramente nominale, che stenta a tradursi in pratica anche dopo qualche tempo, soltanto allora, dicevamo, è consigliabile presentare una richiesta scritta, inviandola anche "per conoscenza" all'Ecclesia Dei. Nel caso di Pistoia, il vescovo ha accolto subito la richiesta dell'associazione. Dopo alcuni mesi, necessari per discutere la questione col consiglio presbiterale (oggi , si sa,bisogna gestire tutto in modo collegiale...) e per individuare un sacerdote disposto a seguire il gruppo, siamo giunti alla fine. La celebrazione sarà avviata tra poche settimane, in una delle chiese più belle e centrali di Pistoia (anche se, purtroppo, non parrocchiale) e con un sacerdote molto convinto e motivato.
Il merito va senza dubbio agli amici dell'Associazione "Madonna dell'Umiltà", che hanno seguito l'iter con pazienza e tenacia. Ma, senza il Coordinamento, senza un organismo in grado di mettere a frutto l'esperienza comune dei gruppi legati alla Tradizione, probabilmente non sarebbe stato possibile catalizzare le forze presenti sul territorio. Questo importante risultato, quindi, costituisce un'ulteriore prova dell'utilità delle federazioni regionali. Per conseguirlo ci sono voluti diversi mesi e non poca fatica. Ma ne è valsa la pena.

da Coordinamento Toscano Benedetto XVI


I Segreti di Fatima



Video interessante tratto dal programma televisivo "La Storia Siamo Noi" di Giovanni Minoli

mercoledì 13 ottobre 2010

La trascrizione integrale della straordinaria omelia a braccio del Papa


La trascrizione integrale della straordinaria omelia a braccio del Papa nella prima sessione del sinodo speciale sul Medio Oriente. Capitali finanziari, terrorismo, droga, ideologie dominanti. L'ascesa e caduta delle potenze di questo mondo, interpretate alla luce dell'Apocalisse.



Cari fratelli e sorelle, l'11 ottobre 1962, quarantotto anni fa, papa Giovanni XXIII inaugurava il Concilio Vaticano II. Si celebrava allora l'11 ottobre la festa della Maternità divina di Maria, e, con questo gesto, con questa data, papa Giovanni voleva affidare tutto il Concilio alle mani materne, al cuore materno della Madonna. Anche noi cominciamo l'11 ottobre, anche noi vogliamo affidare questo sinodo, con tutti i problemi, con tutte le sfide, con tutte le speranze, al cuore materno della Madonna, della Madre di Dio.Pio XI, nel 1930, aveva introdotto questa festa, milleseicento anni dopo il Concilio di Efeso, il quale aveva legittimato, per Maria, il titolo "Theotókos", "Dei Genitrix". In questa grande parola "Dei Genitrix", "Theotókos", il Concilio di Efeso aveva riassunto tutta la dottrina di Cristo, di Maria, tutta la dottrina della redenzione. E così vale la pena riflettere un po', un momento, su ciò di cui parla il Concilio di Efeso, ciò di cui parla questo giorno.In realtà, "Theotókos" è un titolo audace. Una donna è Madre di Dio. Si potrebbe dire: come è possibile? Dio è eterno, è il Creatore. Noi siamo creature, siamo nel tempo: come potrebbe una persona umana essere Madre di Dio, dell'Eterno, dato che noi siamo tutti nel tempo, siamo tutti creature? Perciò si capisce che c'era forte opposizione, in parte, contro questa parola. I nestoriani dicevano: si può parlare di "Christotókos", sì, ma di "Theotókos" no: "Theós", Dio, è oltre, sopra gli avvenimenti della storia. Ma il Concilio ha deciso questo, e proprio così ha messo in luce l'avventura di Dio, la grandezza di quanto ha fatto per noi. Dio non è rimasto in sé: è uscito da sé, si è unito talmente, così radicalmente con quest'uomo, Gesù, che quest'uomo Gesù è Dio, e se parliamo di lui, possiamo sempre anche parlare di Dio. Non è nato solo un uomo che aveva a che fare con Dio, ma in lui è nato Dio sulla terra. Dio è uscito da sé. Ma possiamo anche dire il contrario: Dio ci ha attirato in se stesso, così che non siamo più fuori di Dio, ma siamo nell'intimo, nell'intimità di Dio stesso.La filosofia aristotelica, lo sappiamo bene, ci dice che tra Dio e l'uomo esiste solo una relazione non reciproca. L'uomo si riferisce a Dio, ma Dio, l'Eterno, è in sé, non cambia: non può avere oggi questa e domani un'altra relazione. Sta in sé, non ha relazione "ad extra", non ha relazione con me. È una parola molto logica, ma è una parola che ci fa disperare. Con l'incarnazione, con l’avvenimento della Theotókos, questo è cambiato radicalmente, perché Dio ci ha attirato in se stesso e Dio in se stesso è relazione e ci fa partecipare nella sua relazione interiore. Così siamo nel suo essere Padre, Figlio e Spirito Santo, siamo nell'interno del suo essere in relazione, siamo in relazione con lui e lui realmente ha creato relazione con noi. In quel momento Dio voleva essere nato da una donna ed essere sempre se stesso: questo è il grande avvenimento. E così possiamo capire la profondità dell’atto di papa Giovanni, che affidò l’assise conciliare, sinodale, al mistero centrale, alla Madre di Dio che è attirata dal Signore in lui stesso, e così noi tutti con lei.Il Concilio ha cominciato con l'icona della "Theotókos". Alla fine papa Paolo VI riconosce alla stessa Madonna il titolo "Mater Ecclesiæ". E queste due icone, che iniziano e concludono il Concilio, sono intrinsecamente collegate, sono, alla fine, un’icona sola. Perché Cristo non è nato come un individuo tra altri. È nato per crearsi un corpo: è nato – come dice Giovanni al capitolo 12 del suo Vangelo – per attirare tutti a sé e in sé. È nato – come dicono le lettere ai Colossesi e agli Efesini – per ricapitolare tutto il mondo, è nato come primogenito di molti fratelli, è nato per riunire il cosmo in sé, cosicché lui è il capo di un grande corpo. Dove nasce Cristo, inizia il movimento della ricapitolazione, inizia il momento della chiamata, della costruzione del suo corpo, della santa Chiesa. La Madre di "Theós", la Madre di Dio, è Madre della Chiesa, perché Madre di colui che è venuto per riunirci tutti nel suo corpo risorto.San Luca ci fa capire questo nel parallelismo tra il primo capitolo del suo Vangelo e il primo capitolo degli Atti degli Apostoli, che ripetono su due livelli lo stesso mistero. Nel primo capitolo del Vangelo lo Spirito Santo viene su Maria e così partorisce e ci dona il Figlio di Dio. Nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli Maria è al centro dei discepoli di Gesù che pregano tutti insieme, implorando la nube dello Spirito Santo. E così dalla Chiesa credente, con Maria nel centro, nasce la Chiesa, il corpo di Cristo. Questa duplice nascita è l’unica nascita del Christus totus, del Cristo che abbraccia il mondo e noi tutti.Nascita a Betlemme, nascita nel cenacolo. Nascita di Gesù Bambino, nascita del corpo di Cristo, della Chiesa. Sono due avvenimenti o un unico avvenimento. Ma tra i due stanno realmente la croce e la risurrezione. E solo tramite la croce avviene il cammino verso la totalità del Cristo, verso il suo corpo risorto, verso l'universalizzazione del suo essere nell'unità della Chiesa. E così, tenendo presente che solo dal grano caduto in terra nasce poi il grande raccolto, dal Signore trafitto sulla croce viene l'universalità dei suoi discepoli riuniti in questo suo corpo, morto e risorto.Tenendo conto di questo nesso tra "Theotókos" e "Mater Ecclesiæ", il nostro sguardo va verso l'ultimo libro della Sacra Scrittura, l'Apocalisse, dove, nel capitolo 12, appare proprio questa sintesi. La donna vestita di sole, con dodici stelle sul capo e la luna sotto i piedi, partorisce. E partorisce con un grido di dolore, partorisce con grande dolore. Qui il mistero mariano è il mistero di Betlemme allargato al mistero cosmico. Cristo nasce sempre di nuovo in tutte le generazioni e così assume, raccoglie l'umanità in se stesso. E questa nascita cosmica si realizza nel grido della croce, nel dolore della passione. E a questo grido della croce appartiene il sangue dei martiri.Così, in questo momento, possiamo gettare uno sguardo sul secondo salmo di questa ora media, il salmo 81, dove si vede una parte di questo processo. Dio sta tra gli dei, ancora considerati in Israele come dei. In questo salmo, in un concentramento grande, in una visione profetica, si vede il depotenziamento degli dei. Quelli che apparivano dei non sono dei e perdono il carattere divino, cadono a terra. "Dii estis et moriemini sicut homine" (cfr. Salmo 82 [81], 6-7): il depotenziamento, la caduta delle divinità.Questo processo che si realizza nel lungo cammino della fede di Israele, e che qui è riassunto in un'unica visione, è un processo vero della storia della religione: la caduta degli dei. E così la trasformazione del mondo, la conoscenza del vero Dio, il depotenziamento delle forze che dominano la terra, è un processo di dolore. Nella storia di Israele vediamo come questo liberarsi dal politeismo, questo riconoscimento – "solo lui è Dio" – si realizza in tanti dolori, cominciando dal cammino di Abramo, l'esilio, i Maccabei, fino a Cristo. E nella storia continua questo processo del depotenziamento, del quale parla l'Apocalisse al capitolo 12; parla della caduta degli angeli, che non sono angeli, non sono divinità sulla terra. E si realizza realmente proprio nel tempo della Chiesa nascente, dove vediamo come col sangue dei martiri vengono depotenziate le divinità, tutte queste divinità, cominciando dall'imperatore divino. È il sangue dei martiri, il dolore, il grido della Madre Chiesa che le fa cadere e trasforma così il mondo.Questa caduta non è solo la conoscenza che esse non sono Dio. È il processo di trasformazione del mondo, che costa il sangue, costa la sofferenza dei testimoni di Cristo. E, se guardiamo bene, vediamo che questo processo non è mai finito. Si realizza nei diversi periodi della storia in modi sempre nuovi. Anche oggi, in questo momento, in cui Cristo, l'unico Figlio di Dio, deve nascere per il mondo con la caduta degli dei, con il dolore, il martirio dei testimoni.Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi, pensiamo ai capitali anonimi che schiavizzano l'uomo, che non sono più cosa dell’uomo, ma sono un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati. Sono un potere distruttivo, che minaccia il mondo. E poi il potere delle ideologie terroristiche. Apparentemente in nome di Dio viene fatta violenza, ma non è Dio: sono false divinità, che devono essere smascherate, che non sono Dio. E poi la droga, questo potere che, come una bestia vorace, stende le sue mani su tutte le parti della terra e distrugge: è una divinità, ma una divinità falsa, che deve cadere. O anche il modo di vivere propagato dall'opinione pubblica: oggi si fa così, il matrimonio non conta più, la castità non è più una virtù, e così via.Queste ideologie che dominano, così che si impongono con forza, sono divinità. E nel dolore dei santi, nel dolore dei credenti, della Madre Chiesa della quale noi siamo parte, devono cadere queste divinità, deve realizzarsi quanto dicono le lettere ai Colossesi e agli Efesini: le dominazioni, i poteri cadono e diventano sudditi dell'unico Signore Gesù Cristo.Di questa lotta nella quale noi stiamo, di questo depotenziamento degli dei, di questa caduta dei falsi dei, che cadono perché non sono divinità, ma poteri che distruggono il mondo, parla l'Apocalisse al capitolo 12, anche con un'immagine misteriosa, per la quale, mi pare, ci sono tuttavia diverse belle interpretazioni. Viene detto che il dragone mette un grande fiume di acqua contro la donna in fuga per travolgerla. E sembra inevitabile che la donna venga annegata in questo fiume. Ma la buona terra assorbe questo fiume ed esso non può nuocere. Io penso che il fiume sia facilmente interpretabile: sono queste correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa, la quale non sembra più avere posto davanti alla forza di queste correnti che si impongono come l'unica razionalità, come l'unico modo di vivere. E la terra che assorbe queste correnti è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi e salva la madre e salva il figlio. Perciò il salmo dice, il primo salmo dell’ora media: "La fede dei semplici è la vera saggezza" (cfr. Salmo 118, 130). Questa saggezza vera della fede semplice, che non si lascia divorare dalle acque, è la forza della Chiesa. E siamo ritornati al mistero mariano.E c'è anche un'ultima parola nel salmo 81, "Movebuntur omnia fundamenta terrae" (Salmo 82 [81], 5), vacillano le fondamenta della terra. Lo vediamo oggi, con i problemi climatici, come sono minacciate le fondamenta della terra, ma sono minacciate dal nostro comportamento. Vacillano le fondamenta esteriori perché vacillano le fondamenta interiori, le fondamenta morali e religiose, la fede dalla quale segue il retto modo di vivere. E sappiamo che la fede è il fondamento, e, in definitiva, le fondamenta della terra non possono vacillare se rimane ferma la fede, la vera saggezza.E poi il salmo dice: "Alzati, Signore, e giudica la terra" (Salmo 82 [81], 8). Così diciamo anche noi al Signore: "Alzati in questo momento, prendi la terra tra le tue mani, proteggi la tua Chiesa, proteggi l'umanità, proteggi la terra". E affidiamoci di nuovo alla Madre di Dio, a Maria, e preghiamo: "Tu, la grande credente, tu che hai aperto la terra al cielo, aiutaci, apri anche oggi le porte, perché sia vincitrice la verità, la volontà di Dio, che è il vero bene, la vera salvezza del mondo". Amen.

domenica 10 ottobre 2010

Bimbo nasce da un embrione congelato venti anni fa


Agghiacciante!

ROMA (10 ottobre) - Il giornale Fertility and Sterility ha annunciato la nascita, nel maggio scorso, di un bambino sano da un embrione congelato quasi vent'anni fa. La madre, 42 anni, dopo 10 anni di trattamenti anti-infertilità, ha ricevuto l'embrione l'anno passato e ha partorito nel maggio di quest'anno. La notizia data dalla rivista americana coincide con l'introduzione, in Gran Bretagna, di leggi che consentono di mantenere un embrione congelato fino a un massimo di 55 anni. «L'innovazione - scrive il Sunday Times in prima pagina - potrebbe dare alle donne la possibilità di posticipare il momento in cui mettere su famiglia in età più avanzata».

L'embrione fu congelato con altri quattro nel 1990. La coppia che si era sottoposta al trattamento li diede in adozione dopo essere riuscita ad avere un figlio con la fecondazione assistita. Dopo 16 anni sono stati dati alla 42enne e suo marito. «È una persona molto determinata - ha detto il dottor Sergio Oehninger, direttore del Jones Institute for Reproductive Medicine presso la Eastern Virginia medical school - È una nostra paziente sin dal 2000».

Solo due embrioni sono sopravvissuti allo scongelamento. Impiantati entrambi nell'utero della donna, solo uno ha dato luogo a una gravidanza. Il record precedente appartiene alla Spagna, dove un embrione era rimasto nel congelatore per 13 anni prima di poter dar vita a un bambino.

Nessuno sa fino a quanto un embrione può sopravvivere al congelamento: stando alle ultime ricerche, questa tecnica non sembra influire sulla capacità di dar vita a un bimbo sano. Oehninger ha dichiarato di non essere comunque favorevole all'idea di avere embrioni congelati vecchi di 40 anni o più. «Significherebbe - ha spiegato - usare gli embrioni della generazione precedente».
fonte: Il Messaggero

venerdì 8 ottobre 2010

CRISTO E LA CHIESA: MISTERO DI GLORIA E DI SOFFERENZA






Cristo, apparso in questo mondo con maestà, potenza e autorità, fu perseguitato e crocefisso.
La Chiesa, che nasce da Lui, che ne è il corpo mistico e ha la missione di prolungarlo nel mondo, non può non assomigliare al suo Capo: essa è forte, serena, maestosa, ma nello stesso tempo si trova in balia delle persecuzioni, soffre, è crocifissa ogni giorno per mano dei suoi persecutori.
Non solo: il mistero s’infittisce quando la vedo fallire proprio nei suoi membri interni, che divengono le sue piaghe, quando vedo cioè la mediocrità di molti cristiani e la mostruosità di alcuni suoi ministri. Anche Cristo conobbe l’abiezione, ma gli venne dal di fuori, mentre alla Chiesa proviene anche dall’interno.
Chi si scandalizza di questo fatto non dimostra di avere un esatto concetto della Chiesa e della sua azione. Proveniente da Cristo di cui prolunga l’azione redentrice, essa si sforza incessantemente di conquistare gli uomini, strapparli da tutto ciò che li macchia e li svilisce, per investire tutte le loro attività al fine di rettificarle, elevarle, divinizzarle; però non lavora su materia bruta, ma su libere volontà, che possono sì cedere e abbandonarsi all’azione di Cristo, ma possono lasciarsi dominare dalle forze ostili, che spingono l’uomo al falso amore di se stesso; e allora, per quanto battezzati o consacrati, semplici fedeli o dignitari della Chiesa, si vive nella mediocrità e si può perfino discendere negli abissi del vizio.
Ora, chi vede questa mediocrità, queste cadute, dovrebbe sempre ricordare che avvengono non perché si è cristiani, ma perché non lo si è abbastanza; si diviene cosi, non per eccesso di Chiesa, ma per difetto!

mercoledì 6 ottobre 2010

Le mani sulla vita e ti danno pure il Nobel !


5 ottobre 2010
Il premio per il padre di una tecnica inventata per gli animali


L’inventore della fecondazione umana in vitro, l’inglese Robert Edwards, riceverà dunque il premio Nobel 2010 per la medicina. Certamente premiare un àmbito di ricerca che suscita cospicui e fondati turbamenti etici significa una netta scelta di campo. E i turbamenti nascono dal fatto che la fecondazione in vitro è fortemente criticata per l’irrefrenabile voglia che genera di mettere le mani in quello che il compianto Enzo Tiezzi – uno dei padri dell’ecologismo in Italia – chiamava blue print il cuore pulsante della vita. E dato che la procreazione in provetta genera inquietudine tra chi si rende conto che la vita di un embrione d’uomo è una vita pienamente umana – quanti embrioni finiscono distrutti o congelati in seguito alle tecniche fecondative? –, sinceramente ci sarebbe piaciuto che il Nobel fosse andato a chi segue ricerche di minor impatto mediatico, spesso emarginate e senza fondi, quali quelle sulle malattie rare, o sulla terapia per la sindrome di Down, che rara non sarebbe se non fosse che invece di cercare di curarla la società occidentale ha risolto culturalmente il problema cessando di scandalizzarsi per l’aborto selettivo dei bimbi segnati dalla trisomia.

Non ci sembra infatti che all’industria della provetta scarseggino i fondi, mentre scarseggiano terribilmente quelli per la cura delle malattie "orfane". Che occasione sprecata: non si poteva finalmente dare un Nobel a chi si impegna eroicamente in un campo che non assicura un ritorno economico come quello garantito dalla procreazione artificiale?

Assegnazioni di premi come questa sono scelte che fanno riflettere, proprio per lo scarso valore che riconoscono a un tipo di ricerca non da prima pagina e per l’alto valore che invece affermano nella ricerca di tecniche che implicano la morte di embrioni umani. Attenzione tuttavia agli equivoci: non è in questione il progresso scientifico, che va disciplinato ma non certo scoraggiato. Qui si vuole dir chiaro che la fecondazione in vitro era stata inventata ben prima di Edwards, ma questo nessuno ha interesse a raccontarlo nell’ansia di lodare il "coraggio" dell’Accademia di Stoccolma. Anche perché bisognerebbe ricordare come, in barba alla vulgata che vuole la Chiesa "nemica" della scienza, era stato un prete, l’abate Lazzaro Spallanzani, a scoprire e sperimentare gli accoppiamenti artificiali prima tra rane, poi tra mammiferi. Solo che Spallanzani governava, manipolava e muoveva nella sua ricerca i gameti di cani e rane, e non interferiva con la vita umana; e se si perdeva un embrione non era poi così grave, almeno non come la perdita di un essere umano. Ecco la differenza, che pare essersi perduta nella percezione della nostra cultura impregnata di tecnoscientismo.

Chi si scandalizza allora se chiediamo un po’ di prudenza sulla strada della provetta applicata all’uomo? In quest’àmbito abbiamo visto di tutto: impianti multipli fino a otto embrioni, magari poi seguiti da aborti selettivi; inseminazione con seme di persone defunte senza un loro esplicito consenso da vivi; figli con una madre biologica e una "portatrice" che poteva essere la zia, o la nonna; embrioni congelati per poi chiamare i genitori a firmare per autorizzarne la morte; compravendita di ovociti; e ancora, le conseguenze delle pesanti stimolazioni ormonali sulle donne, fino ai rischi per i bambini. Può bastare?
Non va demonizzato nessuno, ma ci si permetta almeno di chiedere un po’ di sobrietà, realismo e completezza informativa evitando esaltazioni del tutto fuori luogo per un Nobel quantomeno discutibile.
Carlo Bellieni

fonte: Avvenire

lunedì 4 ottobre 2010

Il vero volto di S. Francesco di Assisi


da Marco MESCHINI


Nell’ottavo centenario della conversione del santo di Assisi, papa Benedetto XVI ricorda alla Chiesa e al mondo le vere caratteristiche di Francesco. Ne esce un’immagine un po’ diversa da quella sostenuta dalla cultura dominante.


Lo scorso 17 giugno Benedetto XVI ha visitato Assisi, una delle città che, al mondo, più consentono di "toccare" la presenza del divino sulla terra. È lo stesso Pontefice ad aver ricordato, nel discorso lì pronunziato, l'eccezionale testimoniano za religiosa che anche le «pietre» assisiate riescono a trasmettere a chi vi si reca, per turismo o per caso, in cerca di Dio o sulle tracce dei santi, come appunto ha fatto il Papa quest'anno in occasione dell'VIII centenario della conversione di san Francesco (1207).Ed è proprio a partire dalla memoria di quella storica conversione che Benedetto XVI ha riproposto una sintetica, ma completa, rilettura dell'esperienza del grande mistico medievale, spazzando via - con la consueta chiarezza e mansuetudine - i travisamenti che da decenni si ripetono intorno alla sua figura. Il Papa ha infatti rimosso le etichette che, da più parti, sono state appiccicate addosso a Francesco al fine di renderlo un simbolo dell'ecologismo, del pacifismo e del relativismo religioso: «Voler separare, nel suo messaggio, la dimensione "orizzontale" da quella "verticale" significa rendere Francesco irriconoscibile». Vediamo in che senso.


Nel nome del Creatore

«Laudato sie mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole... Laudato si' mi' Signore, per sora luna e le stelle... per frate vento, et per aere et nubilo et sereno et onne tempo... per sor'aqua... per frate focu.. per sora nostra matre terra... ». Sono tra le parole più note del famoso Cantico di frate sole, una delle ultime opere (in volgare) di Francesco che, nato nel 1182 morì nel 1226. E sono pure - con la celebre predica agli uccelli - uno degli appigli più ricorrenti di quanti cercano di farne un ecologista ante-litteram.È certamente vero che Francesco visse un amore profondo per la creazione e le creature tutte, animate e inanimate, ma l'errore di chi vorrebbe trasformarlo in un iscritto di Green Peace sta nel fatto che, per Francesco, la lode al creato non era separabile da quella al Creatore: «Laudato sie mi' Signore, cum tucte le tue creature». Per Francesco, come per il Medioevo in genere, la creazione rimandava visibilmente a Dio e alla sua potenza e bontà eterne, secondo un procedimento tipico della teologia patristica e poi medievale, compendiato dall'espressione ad invisibilia per visibilia. E cioè la capacità di giungere «alle realtà invisibili» (in primis Dio stesso) «attraverso quelle visibili», in questo caso le creature. Insomma non si può capire la passione "ecologica" di Francesco senza il suo ardore per il Signore, giacché è da quest'ultimo che la prima viene generata. In altri termini, Francesco non ama Dio perché ci sono le creature, ma ama queste perché esiste Dio. Ecco dunque perché cade in errore chi vorrebbe sganciare il "Francesco verticale" da quello "orizzontale": l'amore peri il creato non può sussistere senza il desiderio di Dio, giacché Egli è la sorgente di tutto.


Tu sei la pace

Una simile "svista" traligna anche a proposito della pace in Francesco: quante volte abbiamo assistito a sedicenti "marce per la pace" che hanno puntato su Assisi per fare della città stessa una bandiera da schierare al fianco dei drappi con i colori dell'arcobaleno? Sia chiaro: sono sostenitore di ogni sforzo a favore della pace, anche tramite manifestazioni pubbliche (purché siano a loro volta pacifiche e non, come purtroppo accade spesso, ricettacolo di estremisti e violenti) ma da qui a far diventare multicolore il saio francescano ce ne corre.Francesco fu senz'altro un uomo di pace: rinunciò da giovane alla carriera militare per abbracciare le armi della povertà e dell'obbedienza, ma per farne cosa? Ancora una volta, chi vuole deturpare la vera immagine del Poverello prende spunto dalla sua mansuetudine per contrapporlo genericamente all'uso della forza, quasi che Francesco abbia contestato la possibilità per il potere terreno di ricorrervi in taluni casi. Non è così, come ho già mostrato nel numero di marzo del Timone, quando ho spiegato i rapporti intercorsi tra il santo e l'lslam. Qui voglio solo ricordare che Francesco non condannò la crociata, intesa come guerra giusta (e santa) di «recupero» della Terrasanta, ingiustamente occupata dai musulmani. Francesco testimoniò anche che la vera (la sola...) pace è quella che viene da Dio, perché Egli è la pace, come recitano le sue Lodi dell'altissimo Dio (in latino): «Tu sei il bene, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gioia, tu sei soavità e letizia, tu sei giustizia e temperanza, tu sei ogni nostra ricchezza e ciò ci basta». Sono parole chiarissime, che spazzano via anche il pauperismo fine a se stesso o inteso come contestazione della società del tempo, come qualche storico vorrebbe interpretare la rinuncia di Francesco ai beni del padre mercante: certo, egli rifiutò uno dei modelli propostigli dal suo tempo (il godimento dei beni terreni: salute, ricchezze, amicizie facili...) ma non per una forma di protesta sociale, bensì per la profondità della sua unione con Dio e in Dio: «Tu sei ogni nostra ricchezza e ciò ci basta».


Tu sei la Verità

«Il Signore Dio vivo», che è «amore e sapienza», è anche «vero»: sono ancora parole delle Lodi dell'altissimo Dio, che annichilano l'ultima tendenza erronea che ho denunciato in apertura, quella del "relativismo religioso". Secondo taluni, Francesco avrebbe voluto dai cristiani una "pura" testimonianza, muta, non missionaria, quasi che ciascuno potesse scegliersi indifferentemente la propria religione perché, al fondo, esse sono tutte uguali. Niente di più falso: non si capisce il Dio di Francesco senza il Crocifisso della Porziuncola; non si capisce il Cristo che Francesco sposò nel suo spirito senza il matrimonio ultimo della carne, con i segni eccezionali delle stimmate.Si possono, si devono rispettare tutti gli uomini e le loro fedi, ma non per questo si deve tacere della «bellezza, letizia, felicità, dolcezza» di Cristo, «Salvatore misericordioso». E ricordiamo che i francescani assunsero la predicazione, in collaborazione con la Chiesa del tempo, tra i loro compiti fondamentali: predicazione, cioè missione, sia verso quanti, già cristiani, avevano smarrito il cammino della santità che il battesimo traccia in ognuno di noi (ma non era forse questa la strada percorsa dallo stesso Francesco?), sia quanti ancora non conoscevano il Vangelo, vale a dire la persona di Cristo.Alla luce di tutto ciò risulta chiaro, una volta di più, come anche i celebri "incontri di preghiera per la pace" che Giovanni Paolo Il volle indire proprio ad Assisi non rappresentavano un cedimento a quel relativismo di cui si diceva. Ed è proprio per questo che papa Ratzinger è tornato sulle tracce del suo predecessore, sia perché non li avversò quando era cardinale, sia perché vuole proseguire il cammino di pace e missione che ha trovato tracciato.


IL TIMONE - N.66 - ANNO IX - Settembre/Ottobre 2007 pag. 28 - 29

sabato 2 ottobre 2010

Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede.



Città del Vaticano (AsiaNews)




Ciò che conta, per i giovani, più che il “posto sicuro” è avere salde radici di fede, che offre prospettive immensamente più ampie di quelle che la società di oggi tende a esaltare, promettendo quasi un “Paradiso senza Dio”, che in realtà diventa un inferno nel quale “prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza”. Di qui la necessità di essere "Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede", tema della XXVI Giornata mondiale della gioventù che sarà celebrata dal 16 al 21 agosto 2011 a Madrid, in vista della quale è stato pubblicato oggi il messaggio di Benedetto XVI.

Un documento nel quale non mancano, da parte del Papa, riferimenti alla sua stessa giovinezza e alla sua decisione di divenire sacerdote.


“In ogni epoca - scrive - anche ai nostri giorni, numerosi giovani sentono il profondo desiderio che le relazioni tra le persone siano vissute nella verità e nella solidarietà. Molti manifestano l’aspirazione a costruire rapporti autentici di amicizia, a conoscere il vero amore, a fondare una famiglia unita, a raggiungere una stabilità personale e una reale sicurezza, che possano garantire un futuro sereno e felice. Certamente, ricordando la mia giovinezza, so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza. Certamente, ciò dipendeva anche dalla nostra situazione. Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, ‘inchiusi’dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all’aperto per entrare nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo. Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all’abituale ci sia in ogni generazione. È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande. Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente”

“La cultura attuale - si legge ancora nel documento - in alcune aree del mondo, soprattutto in Occidente, tende ad escludere Dio, o a considerare la fede come un fatto privato, senza alcuna rilevanza nella vita sociale. Mentre l’insieme dei valori che sono alla base della società proviene dal Vangelo – come il senso della dignità della persona, della solidarietà, del lavoro e della famiglia –, si constata una sorta di ‘eclissi di Dio’, una certa amnesia, se non un vero rifiuto del Cristianesimo e una negazione del tesoro della fede ricevuta, col rischio di perdere la propria identità profonda. Per questo motivo, cari amici, vi invito a intensificare il vostro cammino di fede in Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Voi siete il futuro della società e della Chiesa! Come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani della città di Colossi, è vitale avere delle radici, della basi solide! E questo è particolarmente vero oggi, quando molti non hanno punti di riferimento stabili per costruire la loro vita, diventando così profondamente insicuri”.

“Il relativismo diffuso, secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento. Voi giovani avete il diritto di ricevere dalle generazioni che vi precedono punti fermi per fare le vostre scelte e costruire la vostra vita, come una giovane pianta ha bisogno di un solido sostegno finché crescono le radici, per diventare, poi, un albero robusto, capace di portare frutto”.

“C’è un momento, da giovani – prosegue Benedetto XVI - in cui ognuno di noi si domanda: che senso ha la mia vita, quale scopo, quale direzione dovrei darle? E’ una fase fondamentale, che può turbare l’animo, a volte anche a lungo. Si pensa al tipo di lavoro da intraprendere, a quali relazioni sociali stabilire, a quali affetti sviluppare… In questo contesto, ripenso alla mia giovinezza. In qualche modo ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la Guerra, quando in seminario e all’università ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza. Ho dovuto chiedermi: è questa veramente la mia strada? È veramente questa la volontà del Signore per me? Sarò capace di rimanere fedele a Lui e di essere totalmente disponibile per Lui, al Suo servizio? Una tale decisione deve anche essere sofferta. Non può essere diversamente. Ma poi è sorta la certezza: è bene così! Sì, il Signore mi vuole, pertanto mi darà anche la forza. Nell’ascoltarLo, nell’andare insieme con Lui divento veramente me stesso. Non conta la realizzazione dei miei propri desideri, ma la Sua volontà. Così la vita diventa autentica”.

“Siate ‘radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede’ (cfr Col 2,7). La Lettera da cui è tratto questo invito, è stata scritta da san Paolo per rispondere a un bisogno preciso dei cristiani della città di Colossi. Quella comunità, infatti, era minacciata dall’influsso di certe tendenze culturali dell’epoca, che distoglievano i fedeli dal Vangelo. Il nostro contesto culturale, cari giovani, ha numerose analogie con quello dei Colossesi di allora. Infatti, c’è una forte corrente di pensiero laicista che vuole emarginare Dio dalla vita delle persone e della società, prospettando e tentando di creare un ‘paradiso’ senza di Lui. Ma l’esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un ‘inferno’: prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza. Al contrario, là dove le persone e i popoli accolgono la presenza di Dio, lo adorano nella verità e ascoltano la sua voce, si costruisce concretamente la civiltà dell’amore, in cui ciascuno viene rispettato nella sua dignità, cresce la comunione, con i frutti che essa porta. Vi sono però dei cristiani che si lasciano sedurre dal modo di pensare laicista, oppure sono attratti da correnti religiose che allontanano dalla fede in Gesù Cristo. Altri, senza aderire a questi richiami, hanno semplicemente lasciato raffreddare la loro fede, con inevitabili conseguenze negative sul piano morale. Ai fratelli contagiati da idee estranee al Vangelo, l’apostolo Paolo ricorda la potenza di Cristo morto e risorto. Questo mistero è il fondamento della nostra vita, il centro della fede cristiana. Tutte le filosofie che lo ignorano, considerandolo ‘stoltezza’ (1 Cor 1,23), mostrano i loro limiti davanti alle grandi domande che abitano il cuore dell’uomo. Per questo anch’io, come Successore dell’apostolo Pietro, desidero confermarvi nella fede (cfr Lc 22,32). Noi crediamo fermamente che Gesù Cristo si è offerto sulla Croce per donarci il suo amore; nella sua passione, ha portato le nostre sofferenze, ha preso su di sé i nostri peccati, ci ha ottenuto il perdono e ci ha riconciliati con Dio Padre, aprendoci la via della vita eterna. In questo modo siamo stati liberati da ciò che più intralcia la nostra vita: la schiavitù del peccato, e possiamo amare tutti, persino i nemici, e condividere questo amore con i fratelli più poveri e in difficoltà”.

“Cari giovani – conclude il messaggio - la Chiesa conta su di voi! Ha bisogno della vostra fede viva, della vostra carità creativa e del dinamismo della vostra speranza. La vostra presenza rinnova la Chiesa, la ringiovanisce e le dona nuovo slancio. Per questo le Giornate Mondiali della Gioventù sono una grazia non solo per voi, ma per tutto il Popolo di Dio”.