lunedì 27 ottobre 2008

"Ero gay, mi hanno curato ora sogno di avere un figlio"




Sabato 25 ottobre 2008 , di Giornale.it
di Gaia Cesare
Il racconto di Luca, ex attivista dell'Arcigay, che si è sottoposto alla terapia riparativa: "Ho sposato una donna e ritrovato la felicità". "Ero un egocentrico ossessionato dal sesso. Così ho contratto l'Hiv ora aiuterò chi come me vuole cambiare" «È successo tutto dopo un festino. Un amico stava preparando un esame di psicologia e ha dimenticato un mucchio di appunti sulla scrivania della mia stanza. Ho cominciato a leggere e ho scoperto della terapia riparativa. È iniziato tutto da lì». Party notturni, alcol, sesso facile e promiscuo. Fino ai 27 anni Luca viveva di «festini» - come li chiama lui - di rapporti occasionali, consumati anche all'aperto, o come si dice in gergo di «cruising». «Questa era la mia vita e quella dei gay come me. Fino a quel momento», racconta disinvolto davanti a una tazza di tè, in un bar nel centro di Milano, dopo una giornata di lavoro. «Non ho fretta, no, ma poi devo prendere un treno per raggiungere mia moglie - dice sorridente -. Abitiamo fuori Milano. Stiamo così bene lontano dalla città». Non è una doppia vita quella che Luca ha deciso di raccontarci. È una nuova vita. Fino a qualche anno fa Luca di Tolve - che ora di anni ne ha 36 - faceva public relations per i locali omosex, era un attivista dell'Arcigay: si occupava di turismo e organizzava viaggi per la comunità. Un omosessuale convinto, insomma. «Convinto sì, credevo che quella fosse la mia condizione, irreversibile. Ero un egocentrico, palestrato, schiavo dei locali notturni, ossessionato dai soldi, convinto di provare attrazione unicamente per i maschi e finito nel vortice del sesso compulsivo». «Fino a quel momento». Cioè fino a che Luca non si è imbattuto nella “terapia riparativa” dell'americano Joseph Nicolosi. Da allora, dopo un percorso lungo cinque anni, lo scorso agosto è arrivato il matrimonio con Lisa (il nome è di fantasia), è nato il gruppo di auto-aiuto che Luca dirige, il gruppo Lot, di ispirazione cattolica, è esplosa l'idea di scrivere un'autobiografia e la convinzione che come lui molti potrebbero «riscoprire la loro parte maschile, ma soprattutto smetterla di soffrire». «Sì, perché - racconta Luca - quando ero omosessuale ero un infelice. Credevo di essere io lo sfortunato che non trovava l'anima gemella. Poi mi sono reso conto che attorno a me tutto era impostato in modo frivolo, superficiale, che ero circondato da infelici, molti dei quali ossessionati dalla pornografia e dal sesso. E poi la morte: l'ho vista consumarsi negli amici attorno a me e alla fine ho dovuto farci i conti anch'io dopo aver scoperto di essere sieropositivo». L'incubo Hiv Luca lo ha scoperto sulla sua pelle a 25 anni. «Altro che gaiezza tra gli omosessuali - dice ricordando gli anni della trasgressione -. Dopo quelle nottate estreme, tra cocaina e popper, torni a casa con un carico emozionale enorme ma con un senso di solitudine infinito. E oggi pago con la mia salute il peso enorme di quei comportamenti». Così Luca si presenta alla libreria Babele di Milano, specializzata nelle tematiche gay. «Gli appunti lasciati quella sera da un amico parlavano delle teorie di Nicolosi, del fatto che le pulsioni nei confronti dell'altro sesso spariscono se smetti di idolatrare gli uomini perché tu non riesci ad essere come loro, che l'omosessualità può nascere da un senso di rivalsa di un bimbo che vorrebbe avere più attenzioni da un padre assente. Insomma sono entrato in libreria ma il libro di Nicolosi non l'ho trovato. E lì ho capito che c'era una realtà che il mio mondo omosessuale cercava di tenere nascosta». Così Luca comincia a incuriosirsi, si indispone anche di fronte alle teorie di Nicolosi («insisto, ero un gay convinto, non è stato facile mettermi in discussione»), fino a che non decide di provare la terapia riparativa. «Non ero felice e volevo capire il perché. Ci ho messo cinque anni per realizzare di avere sofferto dell'assenza di un padre, di aver idealizzato i maschi perché li sentivo più forti di me e per cominciare a incuriosirmi dell'universo femminile», racconta Luca. Ma guai a parlargli di lavaggio del cervello: «Non ci sto. Sono una persona in grado di intendere e di volere come lo ero quando ero un gay. La vera violenza è dire che è impossibile uscire dall'omosessualità», si difende. E insiste: «Basta con questa accusa di omofobia. Chi discrimina è chi pensa che gay si nasce. Non esiste certo un gene. La mia scelta ha richiesto coraggio, anche perché non ho dovuto lottare solamente contro le mie abitudini, praticare l'astinenza per un periodo, ma ho dovuto rinunciare anche ai privilegi di una società in cui essere gay è trendy, ti serve a trovare un lavoro più facilmente e a fare soldi più in fretta», dice Luca attaccando la comunità omosessuale. Poi precisa: «Certo che ci sono gay che vivono la loro condizione con naturalezza e in tranquillità. Ma io voglio dire a tutti quelli che invece vivono il disagio che ho attraversato io che non devono vergognarsi, che possono rivolgersi a strutture che li aiutano e che alla fine possono trovare la felicità». Luca ci crede davvero: «Le strade sono tante, non c'è solo la terapia riparativa, ci sono i gruppi e i corsi living waters, la cristoterapia per chi - com'è successo a me - vuole trovare conforto e motivazione nella preghiera. Io voglio solo che si sappia che c'è un'omosessualità che è il frutto di un disagio e che può essere curata come si fa con la depressione o con i disturbi alimentari. Lo scriva, è importante», dice serio Luca. Che si addolcisce quando comincia a parlare di sua moglie: «L'idea di poter avere un bambino da una ragazza di cui sono innamorato mi elettrizza e mi commuove. L'ho conosciuta a Medjugorie. È stato come ricevere una grazia. Lisa mi ha accettato per quello che sono, col mio passato, senza pregiudizi e con grande amore. È bello che un rapporto si fondi sulla diversità. La favola della famiglia gay è politica, un modo per ottenere un riconoscimento. Ma i figli devono crescere con una madre e un padre, con degli esempi. Anch’io ora voglio pensare al futuro. Sono sieropositivo ma posso sottopormi a un trattamento, previsto dalla nostra legislazione e accettato anche dalla Chiesa, per avere un figlio sano. È la mia nuova vita. Non vedo l'ora».










Il dott. Joseph Nicolosi si occupa da diversi anni di terapia riparativa dell'omosessualità; è cofondatore e direttore dell'Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell'Omosessualità (NARTH), membro dell'Associazione Psicologica Americana, autore di numerosi libri e articoli scientifici. In italiano sono disponibili i seguenti volumi: JOSEPH NICOLOSI, Omosessualità maschile, un nuovo approccio, Milano, Sugarco Edizioni, 2002; JOSEPH NICOLOSI, LINDA AMES NICOLOSI, Omosessualità: una guida per i genitori, Milano, Sugarco Edizioni, 2003. Il sito del NARTH, sul quale è disponibile materiale in italiano, ha il seguente URL: http://www.narth.com/menus/translations.html

leggi anche: http://omosessualitaeidentita.blogspot.com/

(foto dal web)




sabato 25 ottobre 2008

Luigi Gedda - vita instancabile vissuta al servizio del Papa




La sera di martedì 26 settembre 2000 si spegneva nella sua casa romana Luigi Gedda, alla bella età di 98 anni.Lucido sino alla fine, conservava ancora la direzione dell’Istituto di cura e ricerca “Gregorio Mendel”, da lui stesso fondato, dove aveva continuato a ricevere, oltre che i suoi collaboratori, anche gli amici di un tempo; e anche alcuni antichi avversari.Massimo Caparra, già segretario particolare di Palmiro Togliatti, ha scritto, all’indomani della scomparsa di Gedda, di averlo incontrato l’estate scorsa, insieme a Padre Migliaccio – che fu assistente ecclesiastico dei Comitati Civici – e di aver ripercorso <>.Erano tempi difficili quelli per l’Azione Cattolica, e in particolare per la Gioventù. Nel 1931 era stata messa in atto una campagna persecutoria contro i circoli giovanili cattolici da parte del fascismo, che voleva mantenere una sorta di monopolio dell’educazione della gioventù italiana. Una campagna ispirata dal filosofo Giovanni Gentile e portata avanti con grossolana virulenza dal Segretario de Partito Nazionale Fascista, Augusto Turati. Dovette intervenire personalmente Pio XI con la famosa enciclica <> (scritta in lingua italiana) per fermare quella persecuzione. Gedda rivelò ben presto doti eccezionali di uomo d’azione, sapientemente coniugate ad una spiritualità profonda. Un organizzatore formidabile. Fu Presidente della Giac dal 1934 al 1946. Presidente dall’Unione Uomini da A.C. dal 1952 al1959. Fondò l’Associazione Medici Cattolici Italiani nel 1944 e la presiedette sino al 1976. Promosse la Federazione Internazionale dei Medici Cattolici, di cui fu Presidente sino al 1966. Va detto, in proposito, che – anche se oberato da tanti incarichi e dalle relative responsabilità cui assolveva con dedizione totale – non dimenticò mai di essere medico: non trascurò mai l’aggiornamento nel suo campo professionale. E lo stesso Pio XII, di cui è noto l’interesse per i problemi della medicina, si serviva spesso della consulenza di Gedda. E dietro richiesta di questi, Pio XII compose quella bella <> che fu recitata per la prima volta nell’ottobre del 1957, durante un convegno di medici cattolici a San Giovanni Rotondo, da Padre Pio da Pietralcina. L’attivismo di Luigi Gedda portava il marchio di origine di una esigenza da lui largamente avvertita: l’animazione spirituale della società. Ed è in questa logica che si inserisce l’episodio del 18 aprile del 1948, e l’organizzazione dei Comitati Civici. Il 18 aprile del 1948 (oggi lo riconoscono, con maggiore o minore convinzione, un po’ tutti, anche quelli che furono gli sconfitti di allora) non fu un semplice capitolo dei tanti della storia di questo primo cinquantennio dell’Italia repubblicana, ma quello che ha consentito lo svolgersi delle tante altre vicende, gettando le basi solide per il processo lento, difficile e faticoso, della democrazia italiana.Fu un momento decisivo. Era lo spartiacque tra un versante contrassegnato dalle fosche prospettive di una dittatura stalinista, e un versante contrassegnato dalla speranza di un processo di libertà e di democrazia, con i suoi alti e bassi, con i suoi chiaroscuri, con le sue incertezze, ma comunque illuminato dai principi e dai traguardi che una libera comunità si propone. A distanza di oltre cinquant’anni possiamo dirlo: il 18 aprile segnò la vittoria di un sistema: il sistema democratico. Luigi Gedda fu l’animatore di quell’importante mobilitazione del mondo cattolico. Fu sua l’idea di costituire i Comitati Civici. Con tale formula si aggirava l’ostacolo giuridico del Concordato, che vietava alle organizzazioni dell’Azione Cattolica di immischiarsi nelle cose politiche. I Comitati civici, strutturati su base diocesana, si avvalsero di oltre trecentomila volontari: uomini, donne, giovani impegnati nella duplice direzione, di combattere l’astensionismo e di orientare il voto in senso antimarxistico e cristiano.La propaganda svolta dai Comitati Civici, oltre che capillare, insistente, galvanizzante, fu di un’efficacia straordinaria. Intelligente. Ricordo i manifesti. Non insulsi e folcloristici, come quelli delle attuali campagne elettorali, con molte facce e poche idee. Erano ciascuno di essi come un capitoletto di un libro di idee e programmi. Trasmettevano direttamente un messaggio. Quella mobilitazione, così rapida, inaspettata, del mondo cattolico impressionò Togliatti. Essa sconvolgeva ogni strategia. Era cambiata la posta in gioco. Non si trattava di scegliere tra America e Russia, ma per Cristo o contro Cristo. E qui Togliatti sentiva di trovarsi spiazzato. Dopo il 18 aprile, scrisse una lettera a Gedda riconoscendolo come il vero vincitore delle elezioni. Devo aggiungere che sull’operazione Gedda non mancarono dubbi e riserve anche in campo cattolico. Ma prevalse la chiara percezione della gravità del momento storico: era in pericolo la democrazia in Italia, e con la democrazia tutti i valori ad essa collegati, tra cui la libertà di credo religioso. Non si poteva stare a sottilizzare. Primum vivere…Pio XII fugò dubbi e riserve, accordando pieno sostegno al progetto geddiano. I tempi sono cambiati. La Chiesa non ha più bisogno dei Comitati Civici, perché non c’è più Annibale che preme alle porte. La Chiesa è sempre in trincea nella esaltante battaglia della dignità dell’uomo, legata al messaggio della salvezza di cui essa è annunciatrice perpetua; ma questo non significa essere sempre nella trincea politica. L’esperienza di Gedda era ormai superata già dieci anni dopo, quando con Giovanni XXIII la Chiesa scelse altre strategie pastorali, più adatte ai nuovi tempi. Un Gedda non serviva più in un’Europa in cui la pressione della barbarie comunista non aveva più la virulenza e la pericolosità di dieci, quindici anni prima. E Gedda fu congedato. Ma l’epoca del dialogo di Giovanni XXIII intanto poté maturare in quanto l’epoca dello scontro era stata affrontata alla maniera di Gedda e di Pio XII, ed era stata vittoriosamente superata. Alla luce dei fatti successivi, è lecito chiedersi che cosa sarebbe successo, quale decorso avrebbe avuto il processo democratico italiano ed europeo, senza i risultati del 18 aprile 1948. L’uomo vive il momento storico che la Provvidenza gli assegna: deve affrontare il suo presente con la responsabile determinazione che esso richiede.Ritirandosi dalla scena e dall’impegno sociale e politico, Gedda si dedicò con maggiore responsabilità ai suoi studi medici. Quale è stato il segreto di questa vita instancabile vissuta al servizio del Papa, della Chiesa, dell’Italia e poi della scienza? La sua profonda spiritualità: una vita interiore che è stata <>. Allo storico contemporaneo, ai tanti giornalisti che si sono interessati a lui, probabilmente questo sfugge, per cui esso risulta l’aspetto meno noto della sua personalità; e invece ne è quello dominante. E costituisce la chiave di lettura fondamentale per capire appieno i suoi comportamenti, in ogni momento della sua movimentata esistenza, nell’ora della solitudine e della mortificazione. Luigi Gedda era convinto che, quali che fossero le capacità del singolo, senza un saldo ancoraggio ad una profonda spiritualità, quelle doti e quelle risorse non sarebbero approdate a nessun risultato duraturo. Ecco perché nella sua impegnata esperienza, se da una parte non si risparmiava nell’affrontare e risolvere i tanti e non facili problemi che si ponevano alle sue responsabilità, sino a curare i piccoli dettagli organizzativi del suo lavoro, dall’altra parte non sottraeva un minuto ai tempi della preghiera, come esigeva la sua spiritualità. L’uomo che capeggiò – con il genio dell’organizzatore e il carisma del trascinatore – l’epica battaglia dell’aprile del 1948, è lo stesso che sei anni prima, nel 1942, aveva fondato la Società Operaia, la cui finalità era quella di formare e rinsaldare una forte vita interiore a fondamento del vero apostolato. Erano nate le Case di esercizi spirituali di Casale Corte Cerro (Novara) e di Paestum (Salerno), chiamate Getsemani, perché il loro programma era ispirato a Gesù agonizzante nell’orto degli ulivi, che conclude il suo colloquio di sofferenza col Padre con le parole: <>. La spiritualità getsemanica era per Gedda <> E’ lo stesso uomo che, nel 1947, insieme alla sorella Mary – oggi serva di Dio – fondò una rivista di spiritualità dal titolo significativo di <>. Questa profonda carica di spiritualità, che dette a Luigi Gedda l’energia necessaria per assolvere ai suoi difficili compiti, gli fornì altrettanta energia necessaria per affrontare con forza e dignità gli anni della emarginazione e dell’oblio. E’ stato forse <>. De Gasperi gli aveva offerto un seggio senatoriale sicuro, a Viterbo (la città dove Mario Fani e Giovanni Acquaderni avevano fondato la Società della Gioventù Cattolica, nel 1868), ma egli rifiutò. Amò la Chiesa e il Papa, ne fu fedele servitore. Ma l’amore per la Chiesa ed il Papa nasceva dal grande amore che aveva per Dio. Gedda era cosciente che l’uomo sarà giudicato da Dio e dalla storia sui comportamenti tenuti nell’ora delle responsabilità e della emarginazione. Beato colui, che alla fine dei suoi giorni, potrà dire: Ho combattuto la mia battaglia quando il momento della responsabilità mi chiamava; ho saputo vivere nell’umiltà (e qualche volta nell’umiliazione) del silenzio e dell’isolamento, quando non ero (o ad altri pareva che non fossi) più utile. E’ allora che si vede la vera grandezza, e la vera nobiltà dell’uomo. Grande negli incarichi e negli onori, più grande nel ritiro e nella rimozione, coerente sempre nei principi professati e nello stile di vita prescelto. Così si comporta un vero cristiano. Ed è per questo che, al di là di vicende che lo hanno visto protagonista della storia d’Italia, Luigi Gedda è rimasto e rimane <>.

venerdì 24 ottobre 2008

Società Operaia

"Non mea voluntas sed tua fiat".


SIMBOLO DELLA "SOCIETA' OPERAIA"


Noi crediamo in Dio Padre e lo ringraziamo per la vocazione che ci diede.

Noi crediamo in Dio Figlio e ci consacriamo come suoi Operai.

Noi crediamo in Dio Spirito Santo e Gli chiediamo i lumiper bene intendere la via delle Opere alla quale vogliamo dedicarci: con spirito di santificazione, così che ogni Opera venga anzitutto costruitacon la preghiera, il sacrificio e le virtù cristiane;

con spirito di rinunciacosì che ogni Opera costruitanon appartenga agli Operai come tali, ma alla Chiesa attraverso le persone e gli entiche naturalmente devono possederla;

con spirito di rispetto, per le altre organizzazioni, iniziative e persone.

Noi crediamo in Maria, nella Sua onnipotente intercessionee Le chiediamo di poter conoscere e farela volontà di Dio per confortare i dolori di Gesù nel Getsemani;

Le chiediamo inoltre di servire la Chiesa e il Papa, con il cuore ardente dei primi cristianie secondo i bisogni dell’ora che volge.

Sia aperta la nostra via a quanti ne comprendono la bellezzae siano tutti, al cospetto di Dio e del mondo, buoni Operai.

Così sia.

Attacco massonico contro la Chiesa. Il caso Zolli e Pio XII


Era stato profeta Eugenio Zolli. Dice la figlia Myriam:


Solo a partire dagli anni '50 cominciò a diffondersi in tutta Europa una nuova sensibilità nella valutazione delle responsabilità circa la Shoah.
In questa linea abbiamo avuto, da parte cattolica, molte dichiarazioni di Episcopati nazionali, fino all'ultimo documento vaticano: "Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah ". Ma non è contraddittorio il tentativo di scaricare la principale responsabilità della Shoah sulle spalle di Pio XII, che pochi anni prima si elogiava per le sue benemerenze a difesa degli ebrei perseguitati?
Il secondo fatto è il cosiddetto "silenzio" di Pio XII, che è poi l'accusa principale. Su questo silenzio bisogna bene intendersi. Scrive il P.Gumpel:
"La verità è che Pio XII condannò ripetutamente e pubblicamente la persecuzione di gente innocente "solo a causa della loro razza". "A quei tempi, chiunque capiva a chi si stesse riferendo". E a conferma cita vari testi dei massimi vertici nazisti che manifestano ostilità per il Papa "portavoce dei guerrafondai ebrei".
E’ vero però che Pio XII nelle sue proteste pubbliche non ha mai usato il termine "ebreo", né ha fatto dichiarazioni veementi. Possiamo capire un po' di più le ragioni di questo atteggiamento?
Qualche osservatore fa notare quanto sia difficile, con la sensibilità di oggi, in un contesto culturale profondamenmte diverso, poter giudicare le scelte che la coscienza di Pio XII si trovò a prendere. Altri sottolineano la formazione diplomatica ricevuta da Papa Pacelli, e come egli avesse più fiducia nell'azione diplomatica spiegata in tutte le direzioni, piuttosto che nelle pubbliche dichiarazioni. E si attenne a questa impostazione. Ma ascoltiamo il grido del cuore di Pio XII:
"Più volte avevo pensato a fulminare di scomunica il nazismo, a denunciare al mondo civile la bestialità dello sterminio degli ebrei! Abbiamo udito minacce gravissime di ritorsione, non sulla nostra persona, ma sui poveri figli che si trovano sotto il dominio nazista; ci sono giunte vivissime raccomandazioni, per diversi tramiti, perché la Santa Sede non assumesse un atteggiamento drastico.
Dopo molte lacrime e molte preghiere, ho giudicato che una mia protesta, non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli ebrei... Forse la mia protesta solenne avrebbe procurato a me una lode nel mondo civile, ma avrebbe procurato ai poveri ebrei una persecuzione anche più implacabile di quella che soffrono"
Questa era la convinzione di Pio XII. E che fosse molto fondata, lo conferma quello che successe alla Chiesa d'Olanda. Domenica 26 luglio 1942 fu letta in tutte le chiese cattoliche una lettera di protesta contro le deportazioni di intere famiglie ebree (più di 10.000 persone).
E quale fu il risultato? Non solo la deportazione degli ebrei di sangue e di religione venne accelerata, ma, come ritorsione diretta contro i Vescovi, autori della protesta, furono deportati innanzi tutto gli ebrei battezzati (tra questi, Edith Stein e sua sorella Rosa), che da questo momento sarebbero stati considerati "i nostri peggiori nemici".
Quando Pio XII fu avvertito di questa tragedia, si recò in cucina e personalmente bruciò due grandi fogli scritti molto fitti, dicendo: "E’ la mia protesta contro la spaventosa persecuzione antiebraica. Stasera sarebbe dovuto comparire sull'Osservatore Romano. Ma se la lettera dei Vescovi olandesi è costata l'uccisione di quarantamila vite umane, la mia protesta ne costerebbe forse duecentomila. Perciò è meglio non parlare in forma ufficiale e agire in silenzio, come ho fatto finora, per tutto ciò che è umanamente possibile per questa gente".

Attestato del Gran Rabbino di Roma, Israele Zolli.
Ma chi era Eugenio Zolli?
Un silenzio impenetrabile e inspiegabile è calato sulla figura e sulla vicenda del personaggio Zolli, che per tutto il periodo della guerra fu a Roma Gran Rabbino della comunità israelitica, a capo, cioè, di una delle più antiche e autorevoli comunità della diaspora, e Direttore del Collegio Rabbinico italiano. In nessun documento, neppure da parte cattolica, si cita quanto egli, a parole e con i fatti, testimoniò a favore di Papa Pacelli.
In una intervista data a Stefano Zurlo e pubblicata sul Giornale, 31 marzo 1998, la figlia Myriam (che vive e abita a Trastevere) racconta: "Quando i nazisti chiesero 50 chili d'oro per risparmiare la vita agli abitanti del Portico d'Ottavia, mio padre disperato corse in Vaticano... Il Santo Padre gli fece sapere che il Vaticano avrebbe messo a disposizione i 15 chili mancanti. Da allora Israele Zolli stabilì un rapporto di simpatia umana, quasi di identificazione con Pacelli".
Purtroppo il tesoro non servì a placare l'ira dei nazisti. Fra il 15 e il 16 ottobre 1943 i tedeschi rastrellarono il ghetto. "Mio padre - aggiunge Myriam - aveva capito anche questo: come sarebbe andata a finire. Lui non si fidava delle SS, e in precedenza aveva suggerito ai leader della comunità di bruciare i registri e di far fuggire la gente. Gli diedero del visionario. Anche perché avevano avuto notizie rassicuranti dall'allora capo della polizia Carmine Senise."
Sempre a proposito del rastrellamento del ghetto, in un simposio su "Cristiani ed ebrei durante la persecuzione nazista a Roma", svoltosi nella capitale il 23 marzo 1999, alla domanda fatta da Emanuele Pacifici, presidente dell'Associazione "Amici di Yad Veshem": "Ma dov'era Pio XII in quel 16 ottobre?", il P.Gumpel, gesuita e relatore nel processo per la beatificazione di Pio XII, senza citare Zolli e l'offerta dei chili d'oro, ricorda che Papa Pacelli non era stato a guardare. Aveva incaricato P.Pancrazio Pfeiffer di recarsi dal comandante dell'esercito, il generale Stahel, perché fermasse l'operazione. Il generale mandò un telegramma a Himmler spiegando che l'operazione sarebbe stata controproducente perché avrebbe potuto provocare una reazione violenta. Ottenne solo un ritardo di qualche giorno (Cf. Avvenire, 24 marzo 1999, p.22).

 

Uno dei treni che arrivavano ad Auschwitz con gli Ebrei deportati
Ritornando al rabbino Zolli, ci domandiamo: che cosa ha provocato la sua scomparsa dalla Storia? Non c'è altra ragione se non il fatto che egli, profondo studioso dei testi biblici dell'Antico e del Nuovo Testamento, nonché profondo conoscitore delle tradizioni talmudiche, dopo anni di solitaria ricerca, sulle orme del "Servo sofferente di Isaia", partecipando intimamente alle sofferenze del suo popolo e fra molte lacrime, aveva riconosciuto nel Cristo crocifisso il Volto del Servo.
Agli inizi del 1945 Israele Zolli chiese e ottenne il battesimo, prendendo il nome di Eugenio, come segno di ringraziamento al Papa Eugenio Pacelli per quanto aveva fatto in aiuto degli ebrei. Questa conversione suscitò un grande scandalo.
Il cardinale Paolo Dezza, recentemente scomparso, ha testimoniato: "Gli fu fatto il vuoto intorno... Il nome di Zolli fu addirittura cancellato dall'elenco dei rabbini di Roma, il settimanale ebraico uscì listato a lutto. Gli Zolli che vivevano ancora a due passi dalla sinagoga, ricevettero telefonate piene di insulti e dovettero cercarsi una nuova abitazione. Nell'attesa lo ospitai all'Università Gregoriana di cui ero rettore, mentre la moglie e la figlia trovarono ricovero in un convento di suore" (Il Giornale, ib. p. 9).
Qui è in ballo la condizione previa a ogni dialogo: il rispetto della persona umana e della libertà religiosa. Per noi cattolici sono state acquisizioni di altissimo valore. E per i fratelli ebrei? Il gran Rabbino di Roma, in piena libertà (nelle sue meditazioni autobiografiche) scrive: "Mai nessuno ha tentato di convertirmi... forse la mia anima si sarebbe esacerbata." Rinuncia a tutte le cariche per imboccare una strada irta di difficoltà per sé e per i suoi: "Sono povero, i nazisti mi hanno portato via tutto, non importa, vivrò povero, morirò povero, ho fiducia nella Provvidenza."
A un giornalista ebreo che gli aveva dato del "serpente scaldato nella comunità", risponde: "Lei non sa immaginare quante lacrime ho versato e quante ne verso anche in questi giorni nelle mie preghiere per gli israeliti perseguitati e barbaramente trucidati. Il tuo popolo è il mio popolo, il ceppo è comune."
"A chi, per incomprensione, mi domandò come avessi potuto 'rinnegare' me stesso, risposi: Non ho rinnegato, ho la coscienza chiara e sicura di aver soltanto affermato me stesso senza rinnegare nulla". Ecco come l'ebreo fatto cristiano sente di non aver ripudiato l'ebraismo: "Non ho mai altercato con me stesso... Tutto, pur trasformandosi, si armonizzava. L'anima andava saturandosi di valori spirituali nuovi senza espellere... i vecchi, ma trasformandoli sino al giorno in cui l'otre vecchio era pieno e riboccante del vino nuovo" . Siamo nel 1945, e, ancora oggi, per noi quelle parole sembrano una acquisizione audace!
Mi rendo conto che qui tocchiamo un nervo scoperto nei rapporti fra ebraismo e cristianesimo. Nessuno pretende che la scelta fatta dal rabbino Zolli sia condivisa dai suoi correligionari. Così dice la figlia Myriam in questa intervista: "Meglio non parlare di Zolli, nemmeno 40 anni dopo la sua morte (2 marzo 1956). E’ meglio non accostarlo a Pio XII. Troppi luoghi comuni scricchiolerebbero" (Il Giornale, stessa intervista).
A un uomo di tale levatura intellettuale e morale, di estremo disinteresse e di impegno in prima persona per le sorti del suo popolo perseguitato (già negli anni 30, a Trieste, dove era Gran Rabbino, si era adoperato a favorire l'espatrio di molti ebrei tedeschi), giustizia vuole che si rispetti la sua scelta, e si riconosca l'importanza della sua testimonianza a favore di Pio XII, forse, più efficace di tutte le altre.
(fonte: www.gesuiti.it)

lunedì 20 ottobre 2008

Derive Liturgiche





L’innovazione controproducente delle “ministranti femmine”, ministri straordinari dell’Eucaristia fuori controllo, sacerdoti “attori”: Monsignor Malcom Ranjith, segretario della Congregazione del Culto Divino, fotografa alcune diffuse derive liturgiche.

di Andrea Galli

«In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un'autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile».

Così Benedetto XVI descriveva, nella lettera di accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum, il clima che accompagnò in molte chiese locali la riforma liturgica.
Ne parliamo con monsignor Malcolm Ranjith, numero due della Congregazione che si i occupa di liturgia e disciplina dei sacramenti.

Eccellenza, qual è la posizione della Chiesa riguardo alle ministranti femmine, alle chierichette, che nel giro di pochi anni si sono diffuse a macchia d'olio in tutte le diocesi italiane?

«Si tratta di una prassi diffusasi in diversi Paesi, nata nell'atmosfera di una rivendicazione di pari diritti tra uomo e donna, un movimento di opinione che accanto a punti condivisibili ne presenta altri che possono essere problematici. La Congregazione ha pubblicato nella sua rivista Notitiae, nel numero di gennaio-febbraio 2002, una lettera inviata ad un vescovo in cui non si opponeva a tale prassi, ma ne parlava con toni cauti. Voleva che il vescovo, esercitando il suo ruolo di moderatore della liturgia nella sua diocesi, giudicasse bene la situazione locale, la sensibilità dei fedeli e le ragioni per introdurre le chierichette. Nei Paesi in cui questa abitudine si è radicata si è infatti notato negli anni un aumento delle femmine fra i ministranti e una corrispondente diminuzione dei maschi. Questo probabilmente perché durante l'infanzia e la prima adolescenza molti maschi non si sentono a loro agio nello svolgere il servizio all'altare insieme alle coetanee femmine. Ma se si pensa che il servizio all'altare è sempre stato un momento molto importante per la nascita di vocazioni - è lì che un bambino percepisce, spesso in modo molto profondo, l'importanza dell'Eucaristia e il mistero della liturgia - si può capire quale sia l'effetto negativo di questo allontanamento dei maschi dall'altare. Difatti nella lettera sopra citata la Congregazione, alludendo ad una sua precedente lettera circolare sull'argomento, ricordava «l'obbligo di promuovere gruppi di fanciulli ministranti, non da ultimo, per il ben noto aiuto che, da tempo immemorabile, tali iniziative hanno assicurato nell'incoraggiamento di future vocazioni sacerdotali» (Litterae Congregationis, Prot. N. 2451/00/L del 27 luglio 2001, in Notitiae 38 [2002] 48). Essa raccomandava di consultare la Conferenza Episcopale, anche se il parere di quest'ultima non doveva togliere «la necessaria libertà di azione del singolo vescovo diocesano» (Ibid. p. 47). Inoltre, non si può dire che il maggior protagonismo delle bambine incrementi le vocazioni femminili alla vita consacrata: al contrario, l'esperienza insegna che dove si è diffusa questa pratica le vocazioni femminili sono calate ancor più della norma. In sostanza, anche solo per una ragione di prudenza o lungimiranza pastorale, direi che questa prassi è da scoraggiare».

Accanto alla "novità" delle chierichette, si nota sempre più spesso una sciatteria nel servizio all'altare dei chierichetti in generale.

«Questo è un riflesso della crisi del senso della liturgia fra il clero, che è il vero problema. Non sono ovviamente i ministranti a decidere come devono vestirsi, come devono atteggiarsi, cosa devono fare. Il servizio del ministrante, quando io ero un ministrante, era curato con grande scrupolo dai sacerdoti. Si organizzavano dei ritiri appositi, c'erano prove rigorose prima delle cerimonie, ecc. Se un sacerdote ama il proprio sacerdozio si impegnerà nel curare la liturgia in tutti i suoi aspetti, compresa la formazione dei ministranti. Se non ama il proprio sacerdozio, che è incentrato sull'evento eucaristico, avrà un atteggiamento superficiale e approssimativo per quanto riguarda la liturgia. E ciò è una vera disgrazia per la Chiesa».

Un'abitudine che si è diffusa tra i sacerdoti che celebrano con il Novus Ordo è quella di intercalare con propri commenti o battute qualsiasi momento della Messa.

«Qui c'è un problema che va al di là del protagonismo o del carattere estroso del singolo sacerdote: l'essere rivolto verso il popolo fa sì che il sacerdote si senta e sia percepito come il protagonista principale della Messa. È un po' come se salisse su un palcoscenico e si mettesse di fronte al pubblico: l'esigenza di soddisfare la platea diventa spontanea, è una dinamica psicologica. A questo punto, però, l'assemblea rischia di trasformarsi in un raduno puramente umano, dove l'elemento divino passa in secondo o terzo piano. D'altronde quella di celebrare rivolti verso il popolo non è stata un'indicazione del Concilio e si può dire, dopo ormai molti anni, che ha causato diversi problemi per la liturgia. Penso che bisognerà fare qualcosa a questo riguardo. Ci possono essere certamente delle parti della Messa in cui il sacerdote si rivolge al popolo, come le letture o l'omelia, ma bisogna recuperare quell'orientamento al Signore che il Santo Padre ci sta indicando con la reintroduzione del crocifisso sopra l'altare. Nell'essere rivolto al Signore insieme all'assemblea, il sacerdote smette di essere l'attore principale sul palcoscenico e diventa un umile servo di fronte a Dio. Se non si fa questo cambiamento, il problema del celebrante che cerca di accattivarsi la simpatia dei fedeli e che improvvisa, insomma il problema di una liturgia "do it yourself" (fai da te) continuerà. Allo stesso tempo, mi permetta una sottolineatura, è necessario tornare ad insegnare anche ai fedeli cos'è la liturgia, è necessario spiegare loro perché il sacerdote attore o presentatore, che va di qua e di là durante la Messa con la chitarra al collo o il microfono in mano, e che magari a loro piace, è una figura che non ha nulla a che fare con la liturgia cattolica. Il protagonista principale di ogni atto liturgico non è nessun altro che Cristo, perché, come definisce la Sacrosanctum Concilium, la costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, la liturgia è "Actio Christi Sacerdotis" (SC 7)».

Può dirci qualcosa sugli avvisi dopo la Messa, che sembrano diventati a tutti gli effetti una parte della liturgia romana?

«Qui va seguito il buon senso. Direi che la cosa migliore è verificare se questi avvisi possono essere fatti appena prima dell'inizio della Messa, magari da un laico, oppure attraverso l'uso di notiziari o bollettini parrocchiali. Se non si possono adottare queste soluzioni, nel leggere gli avvisi dopo la comunione bisognerà usare sobrietà e poche parole».

In molte parrocchie si nota un uso regolare dei ministri straordinari dell'Eucaristia nel distribuire la comunione durante la Messa. Non si tratta di un abuso?

«Le norme emanate dalla Congregazione nel gennaio 1973, Immensae Caritatis, sono chiarissime: il ministro ordinario della comunione è il vescovo, a seguire il sacerdote e il diacono, (C/C 910 §1). Ministro straordinario può essere un accolito o un lettore, un seminarista, un religioso o una religiosa. Il catechista o un fedele, uomo o donna, lo possono diventare solo dopo un'apposita formazione e uno speciale permesso/mandato del vescovo. Ma, una volta che lo sono diventati, devono attenersi al loro ruolo, che è appunto straordinario. Intanto devono presentarsi all'altare vestiti in modo decoroso, ma soprattutto non devono distribuire la Comunione là dove non ce ne sia strettamente bisogno. Come dice il documento sopra citato, tale ministero viene esercitato solo se manchino il presbitero, il diacono o l'accolito, se non possono distribuire la Santa Comunione perché impediti da un altro ministero pastorale, o perché vecchi o malati, e se i fedeli desiderosi di comunicarsi sono talmente tanti da far prolungare in modo eccessivo la Messa. Devo dire che a questo riguardo spesso non si vede molta serietà. Capita di assistere a Messe con 50 parrocchiani e 4 o 5 ministri straordinari dell'Eucaristia che corrono all'altare al momento della distribuzione della Comunione, con il sacerdote che magari delega a loro il compito: una prassi completamente erronea. I ministri straordinari, lo dice il nome, devono essere impiegati in occasioni davvero eccezionali. E non tutti insieme».

Ci può ricordare quali sono i modi opportuni per comunicarsi?

«Quando ci si comunica stando in piedi, le norme stabiliscono che prima di ricevere il sacramento si faccia un atto di reverenza (Institutio Generate Missalis Romani, 160), per esempio un inchino o una genuflessione: perché non si sta andando a prendere un pezzo di pane, ma a ricevere Cristo in persona. La prassi più opportuna resta comunque quella di ricevere la comunione in bocca e preferibilmente in ginocchio, come il Santo Padre ci sta mostrando nelle liturgie che presiede. Quando un thailandese va dal suo re. deve andarci in ginocchio, anche se è il primo ministro del Paese. Così se un giapponese viene ricevuto dall'imperatore, gli si avvicina con un alto senso di riverenza, dopo aver fatto inchini su inchini. Gesù Cristo è il Re dei re, il Signore Onnipotente. Ci si domanda: non si merita lui più di tutti un gesto di amore e riverenza?».

(Il Timone settembre-ottobre 2008)

sabato 18 ottobre 2008

America: per la libertà al grido di "Cristo Re"


(Martirio del sacerdote gesuita Miguel Agustín Pro Juárez - Mexico City, November 23, 1927)


Nel periodo dal 1914 al 1934, il più cruento della persecuzione religiosa in Messico, sacerdoti, laici, uomini e donne animati da profondo amore verso la Chiesa e la Vergine Maria, al grido di "Viva Cristo Re" offrirono la loro vita a Gesù Cristo. La persecuzione religiosa ha avuto come momento culminante gli anni dal 1926 al 1929, quando l'allora Presidente della Repubblica, Plutarco Elias Calles, promulgò una legge sui culti che mettesse in pratica le disposizioni emanate dalla Costituzione del 1917. Queste disposizioni, conosciute come "Ley Calles", regolavano il numero dei ministri per località, vietavano la presenza di sacerdoti stranieri nel paese, limitavano l'esercizio degli atti di culto e, tra le altre disposizioni, proibivano seminari e conventi. Dinanzi a queste restrizioni e dopo frustranti negoziati da parte dei vescovi messicani con le autorità governative, in segno di protesta, la Chiesa in Messico decise di sospendere gli atti di culto. Nella parte occidentale del Messico (in particolare a Jalisco, Aguascalientes, Michoacán, Guanajuato e Colima), molti cattolici presero le armi per difendere la libertà religiosa. Alcuni sacerdoti, anche se in numero esiguo, si unirono a loro; la maggior parte optò per una resistenza pacifica. Gli studiosi contano solo 20 sacerdoti tra gli aderenti alla lotta armata. Anche tra i laici si formarono due gruppi: quelli per la lotta armata e quelli per la resistenza pacifica. Tra questi ultimi troviamo Anacleto Gonzáles Flores di Guadalajara (Jalisco), che venne imprigionato insieme ai fratelli Jorge, Ramón e Florencio Vargas Gonzáles. Questi prima di essere giustiziato dall'esercito chiese ad Anacleto di confessarsi, ma gli fu risposto: "No, fratello, non è adesso il momento di confessarsi, ma di chiedere perdono e perdonare. E' un Padre non un giudice colui che ti aspetta. Il tuo stesso sangue ti purificherà".


La lista dei cristiani che hanno offerto le proprie vite a Cristo è ampia e molti sono anonimi. Tra tutti risaltano 22 sacerdoti diocesani e tre giovani laici che saranno canonizzati il 21 maggio prossimo.

Il primo di questi martiri è il parroco Cristóbal Magallanes. Un caso a parte, ma dello stesso periodo, è quello del sacerdote gesuita Miguel Agustín Pro Juárez. Imprigionato dopo un attentato contro il generale Alvaro Obregón, avvenuto il 13 novembre del 1927, il sacerdote venne fucilato nel commissariato di polizia. Il suo nome ora è nell'elenco dei beati.


Nel 1929, dopo i negoziati tra l'allora presidente del Messico, Emilio Portes Gil e i vescovi Leopoldo Ruiz y Florez e Pascual Díaz, con la mediazione dell'ambasciatore degli Stati Uniti, Dwight D. Morrow, venne stabilito un accordo di pace che comportava la non applicazione delle disposizioni legali emanate sotto il regime di Plutarco Elías Calles, anche se non furono abrogate.
Quando i combattenti accettarono di deporre le armi dinanzi alla ripresa delle attività di culto, terminò la cosiddetta "guerra di Cristo". Tuttavia diversi "cristeros", appena disarmati, vennero assassinati dalle autorità locali. In alcune regioni del paese tuttavia continuò la persecuzione contro i cattolici, come a Tabasco, dove il governatore Tomás Garrido Canabal diede disposizione che per esercitare il ministero sacerdotale nel suo stato era necessario essere originario del luogo o messicano di nascita, con più di 40 anni di età, buoni precedenti morali e sposato.


L'ultimo episodio contro la Chiesa si registrò il 30 dicembre del 1934, quando un gruppo di sicari, guidati da Garrido Canabal, aprì il fuoco contro i fedeli che uscivano dalla messa nella chiesa di Coyoacán. Tra le vittime ci fu anche la catechista laica María de la Luz Camacho, 27 anni, per la quale è in corso la causa di canonizzazione.

Testimonianza nei cinema, ovvero un racconto cinematografico sulla vita del Papa




Adattamento cinematografico di un bestseller Il film ”Testimonianza” è tratto dall'omonimo libro, pubblicato nel 2007, che contiene le conversazioni tra il cardinale Stanisław Dziwisz e il vaticanista italiano Gian Franco Svidercoschi.

Tradotto in una quindicina di lingue, nella sola Polonia il libro ha raggiunto la tiratura di oltre un milione di copie. "Sono stato accanto a lui per piu di quarant'anni..."


"Testimonianza" è un racconto cinematografico che cerca di presentare Karol Wojtyła cosi come e rimasto impresso nella memoria del suo segretario e amico: un uomo, un prete, un vescovo e infine un papa.

Il cardinale Stanisław Dziwisz ha accompagnato il Santo Padre per quarant`anni della sua vita, a partire dagli anni di Cracovia, per arrivare agli ultimi giorni in Vaticano. Il film, in quanto testimonianza della vita di Giovanni Paolo II, presenta nuovi fatti e nuove interpretazioni, specialmente sugli anni giovanili e sulla vita privata di Karol Wojtyła.

Uno dei motivi piu toccanti è l'attentato del 1981 e gli attimi immediatamente successivi, quando si riusci a salvare la vita di Giovanni Paolo II.


Formula del film

I ricordi del cardinale Dziwisz sono illustrati con immagini tratte da materiali documentari e narrativi. Gli autori del film hanno attinto a molte fonti sconosciute in Polonia, consultando gli archivi vaticani e utilizzando materiali fotografici mai pubblicati. Gli avvenimenti che non erano stati registrati su pellicola in precedenza sono stati ricostruiti dagli attori nella parte narrativa del film. Il narratore da al film una struttura compatta, unendo le singole trame e le diverse forme. Un racconto sul XX secolo Testimonianza e il racconto di tutta un'epoca nella storia della Polonia, dell'Europa e del mondo. E' una storia del XX secolo che arriva agli inizi del XXI. Esso costituisce ovviamente un valore per le persone legate alla Chiesa cattolica, ma presenta anche la persona del Papa in un contesto laico, storico, politico, sociologico. Testimonianza è pertanto non solo un racconto sulla vita del Papa, ma anche una profonda analisi degli eventi della fine del XX secolo. E' un film non solo per i cattolici. La produzione all'estero il regista del film e Paweł Pitera, conosciuto fra l'altro per la serie televisiva I segreti del Vaticano. Il film è stato prodotto da Przemysław Häuser, produttore cinematografico e televisivo specializzato in tematiche legate al Vaticano e al papa. Nel progetto Testimonianza è riuscito a coinvolgere personaggi di fama internazionale. Michael York, attore famoso per i film Cabaret di Bob Fosse o Gesu di Nazareth di Franco Zeffirelli è il secondo narratore, accanto al cardinale Stanisław Dziwisz. La musica è stata composta da Vangelis (vincitore di un Oscar per la colonna sonora di Momenti di gloria) e da Robert Janson (fondatore e leader del gruppo Varius Manx). Le riprese sono state fatte in Vaticano, in Polonia, in Italia, in Germania e in Portogallo. Il film è stato realizzato in collaborazione con la Libreria Editrice Vaticana.


Come e nato Testimonianza
I lavori sono durati quasi un anno. Le prime riprese sono state effettuate nell'autunno 2007. Il film è stato girato soprattutto in Vaticano, a Cracovia e a Wadowice, anche se la ricostruzione narrativa di alcuni avvenimenti della vita di Karol Wojtyła ha richiesto riprese in quasi tutta Europa. 30 ore di materiale sono il risultato delle conversazioni con il cardinale Dziwisz davanti alla macchina da presa. I frammenti piu importanti e interessanti delle conversazioni, insieme alla parte narrativa, costituiscono una storia filmata di un'ora e mezza, un racconto cinematografico sulla vita e sui tempi di Giovanni Paolo II.


Produttore: Przemysław Häuser


Sceneggiatura: Gian Franco Svidercoschi, Paweł Pitera, don Paweł Ptasznik, tratta dal libro del card. Stanisław Dziwisz

Regia: Paweł Pitera

Musiche: Vangelis, Robert Janson

Fotografia: Janusz Tatarkiewicz

Montaggio: Cezary Grzesiuk


Scenografia: Rafał Waltenberg, Maria Duffek


Produzione: TBA Group, Agora SA, New Cast in collaborazione con LA Libreria Editrice Vaticana

Durata: 90 minuti


sito: http://www.testimonyfilm.com/Testimonyfilm/0,94490.html

giovedì 16 ottobre 2008

L'amore sconosciuto


Vi propongo un interessante catechesi sulla truffa "dell'amor cortese"...


"Tristano e Isotta non si amano... ciò che essi amano è l'amore e il fatto stesso d'amare.
Ed agiscono come se avessero capito che tutto ciò che si oppone all'amore lo garantisce e lo consacra nel loro cuore, per esaltarlo all'infinito nell'istante dell'abbattimento
dell'ostacolo che è la morte"

(Denis De Rougemont)

Sull'amore sono stati scritti moltissimi libri e saggi e articoli; non deve stupire visto che esso segna il nostro vivere, il nostro quotidiano. Se ne parla dappertutto ed in ogni salotto televisivo. Esistono anzi alcune trasmissioni specifiche sul caso "amore" dove si alternano "vati" vecchi e nuovi a dare le loro lezioni di vita.
Per chi segue Gesù, per chi è cristiano non vi è altra risposta che quella di un'esperienza storica e fondante della vita di Cristo morto e risorto per me e per te che leggi.
Giovanni nelle sue lettere pastorali ne parla così:

Giov. 3,16 "Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare

la vita per i fratelli" (traduci il "dobbiamo" con possiamo.. perché non è un dovere etico ma una possibilità e un'esigenza scelta nello Spirito)
e ancora :
Giov. 4,7 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. [8]Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. [9]In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. [10]In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Dunque la misura di ciò che è amore è Dio stesso e la sua "passione" per noi fatta carne in Gesù Cristo.
Ma torniamo all'aforisma di cui sopra.
Denis De Rougemont, scrittore illuminato, fa nel suo libro "L'amore e l'occidente" (che consigliamo vivamente di leggere) una analisi sistematica, filologica e storica del concetto di amore così com'è inteso soprattutto in occidente. La sua tesi si sviluppa in un tracciato secondo cui la lirica cortese sarebbe derivata dall'eresia catara e dalla sua teologia manichea e abbia poi influenzato tutta la narrativa (e non solo) dell'occidente per l'amore-passione da contrapporre ad una visione "più istituzionale" del matrimonio. Il testo, com'era immaginabile, ebbe numerosissime critiche, per lo più inconsistenti.

Tuttavia il problema era stato centrato: "ciò che misura l'amore sono le pene che si vivono per esso".

La questione come si vede non è solamente narrativa o televisiva (basti guardare i minestroni affettivi delle telenovelas o film classici sull'amore in ogni tempo) ma piuttosto psicologica e talvolta teologica.
Teologica perché una certa visione distorta ha influenzato anche una pastorale affrettata della cura dei malati e nell'amministrazione dei sacramenti (soprattutto il matrimonio) mettendo i credenti in situazioni di "croce" istituzionalizzandole e aprendo così facilmente la via alla visione borghese di una vita spaccata; affronteremo però la delicatezza dell'argomento, nel dettaglio, in un'altra riflessione.
Di sicuro certa teologia crucis non è per niente cristiana ma piuttosto pagana e "catara" per questa continua ricerca della sofferenza a vantaggio della preziosità dell'amore e non dell'amato. La croce c'è con l'esistenza, non va cercata, ed ognuno ha la sua nel disegno d'amore del Padre senza dimenticare mai che la sofferenza è una condizione transeunte e non definitiva. Qui risiede una corretta visione della teologia della croce.
Nella teologia crucis dell'amore cortese invece la sofferenza prende il posto delle finalità e abbrutisce l'essere umano chiudendolo alla Speranza e al significato redentivo della sofferenza e del limite. Guai a noi cristiani quando portiamo un'etica senza evangelizzazione... il dovere cristiano non è un dovere kantiano o greco o romano... né tanto meno massonico.
Il dovere cristiano nasce "dal debito" che abbiamo nei confronti dello Spirito Santo che ci è stato donato soprattutto con il battesimo (vd. Lettera ai Romani cap. 8 di S. Paolo).
L'esigenza morale per il cristiano non è un'imposizione esterna né solamente un'esigenza naturale ma nasce dalla "conoscenza" di Dio la quale a sua volta nasce o viene confermata dal Kerygma, dall'annuncio e dalla Sua Chiesa. Dare una morale senza un annuncio di Cristo morto e risorto che entri nel profondo della vita equivale a legittimare una "catena" etica che facilmente porta il soggetto a misurare la propria autostima non sull'amore di Dio per lui ma sul "soffrire per il soffrire", sulla "rinuncia per la rinuncia", sulle fughe di ogni tipo.
E questo non è cristianesimo ma catarismo bello e buono e anche "Nicolaismo" se vogliamo (vd dizionario Eresie in sez. Catechesi).
La superficie cristiana rischia, talvolta, di nascondere l'eresia; cioè il nostro inconscio non è evangelizzato ed ogni nostro amare e soffrire non è illuminato dalla Passione, Morte e Resurrezione di Gesù. Ed è per questo che sono rari i "testimoni" del Vangelo... molti gli annunciatori ma pochi i testimoni. E' per questo che Giovanni apostolo può dire "abbiamo conosciuto" proprio perché egli fece un bagno di Grazia radicale e di profonda intimità con Cristo che lo porta poi ad essere testimone e guida nel martirio più doloroso e vero che ci sia.

Psicologicamente qui sta il punto: dietro una visione di teologia crucis pseudo-catara si nasconde una profonda patologia dell'amore a se stessi e quindi agli altri. E non c'è niente di più gratificante, direi veramente lussurioso, che consacrare la propria sofferenza con un "Dio lo vuole"; forse talvolta è così ma non nel senso che gli vogliamo dare noi! Ed è la mancanza di luce, di discernimento nello Spirito Santo che fa dire certe castronerie. Dio solo sa quante volte facciamo dire allo Spirito Santo cose che Egli non pensa neppure... e questo solo perché siamo paralizzati dalla paura di crescere e di assumerci delle responsabilità verso noi stessi e verso i fratelli.
Ma il rischio più grande è proprio quello di Tristano e Isotta e cioè che i due non si amino affatto ma amano piuttosto il proprio soffrire e lo consacrano all'infinito come valore ultimo proprio perché in definitiva non amano neanche se stessi.
L'altro è in definitiva un estraneo e non un dono... perché io sono un estraneo per me stesso!

Quante coppie vivono all'infinito delle storie impossibili solo perché in realtà non amano l'altro ma solo: il proprio soffrire, la proiezione di ciò che l'altro è nella nostra testa, la propria impossibilità di vivere una "storia", un cammino alla luce di Dio con l'altro.
Questa è la vera lussuria di coppia che cementifica l'estraneità dell'altro nel tempo. Visione che, in seconda battuta, giustifica la gelosia, il controllo, il "comprare" l'altro oppure la mancanza di fedeltà matura.
Vi è dunque una cosificazione dell'amore. L'altro è oggetto e mezzo per consacrare il mio soffrire o la mia immagine. L'altro fonda la mia autostima proprio perché irraggiungibile. Se soffro in sostanza vuol dire che valgo, che sono
.
Soffro dunque sono, potremmo affermare.

Il Cristiano non fonda la sua vita sull'impossibilità dei propri fantasmi ma sulla concretezza dell'Amore di Dio, il quale Egli solo fonda il tuo essere e ti dona la capacità di donarti. Anche in situazioni non solo difficili ma impossibili. Ma lo fa con una Parola nuova ed uno spirito nuovo, discreto, fatti di luci più che ombre; di gioia più che di autocommiserazione. Di libertà più che di catene. Di responsabilità più che di fughe... e quante possono essere queste fughe... persino istituzionalizzate dal vivere sociale... Dio ne è testimone!
Per Dio infatti non è così! Egli ci ha amato e ci ama a tal punto che, paradosso dei paradossi, diventiamo quasi "il dio per Lui" perché Egli sceglie la via di farsi bimbo per entrare nelle nostre vite soprattutto nel mistero del Natale. Quando Gesù nelle beatitudini di Matteo dice "beati quelli che soffrono perché saranno consolati" non lo fa esclusivamente in un proiezione futura escatologica ma bensì in una condizione che cambia nel momento che accogli Gesù nella tua vita; cioè ora!
Il "saranno" indica, infatti, ciò che accade e cresce, da ora, nella tua visione delle cose; e questo non come alienazione soporifera, come "oppio" autoconsolante per chi non ha speranza ma, piuttosto, come realtà nuova che si schiude con "verità e potenza" in colui che crede!
Credere non è mettere Dio al centro della propria vita. Dio non sta al centro ma sta dove ritiene opportuno. Prova a dire ad un bimbo: non essere curioso, non giocare, sta zitto, mettiti in riga... Dio è così, è come un bimbo, non puoi dirgli che cosa fare ma Egli lo fa e non sta dove lo metti tu ma dove è giusto che Egli stia. Non puoi addomesticare Dio... non puoi insegnargli il Suo mestiere d'amante. Dio è come un bimbo ma con la differenza che non fa quello che vuole per capriccio ma per il tuo bene e perché tu abbia la vita e la abbia in abbondanza!
Allontanarsi dall'Amore di Dio senza preghiera, senza il confronto con la Parola, con i fratelli e senza sacramenti non fa altro che legittimare delle mostruosità... coppie che si chiudono alla vita sociale e comunitaria perse nei loro piccoli fantasmi quotidiani, nelle dissipazioni e dalla mancanza di luce... e dall'altra religiosi e sacerdoti che per amare tutti... non amano nessuno e si "cristallizzano" in un egoismo istituzionalizzato perdendo di vista la via della Carità... magari con la pastorale dei numeri o delle caselle oppure in una vita spaccata e una maturità vocazionale incompiuta.
Il rischio di Tristano e Isotta è un rischio di tutti; è un rischio nostro... è, per tutti, religiosi e laici, la perdita del fondamento e dell'obiettivo e quindi della via della fecondità!
Se si consacra "il nostro soffrire" piuttosto della presenza viva di Gesù vivo nella nostra vita, otteniamo delle mostruosità sotto la parvenza di atti spirituali.
Gesù, invece, sempre, sempre e ancora sempre dona una parola di speranza... soprattutto ora in questo Natale che viene. E' Lui... è un bimbo, è disarmato e, proprio per questo, Signore e maestro.
Ascoltiamolo!

lunedì 13 ottobre 2008

Parole, gesti e segni che hanno plasmato l'Europa

di Roberto de Mattei


Ci chiediamo se il motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI possa costituire, e in che senso, una risposta al processo di secolarizzazione della società contemporanea.

Per rispondere abbiamo bisogno innanzitutto di una definizione della secolarizzazione e, tra le tante, una delle migliori è stata formulata in un discorso del 23 febbraio 2002, da Giovanni Paolo II, secondo cui "purtroppo alla metà dello scorso millennio ha avuto inizio, e dal Settecento in poi si è particolarmente sviluppato, un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il Cristianesimo da tutte le espressioni della vita umana.

Il punto d'arrivo di tale processo è stato spesso il laicismo e il secolarismo agnostico e ateo, cioè l'esclusione assoluta e totale di Dio e della legge morale naturale da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata così la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno".

Da queste parole di Giovanni Paolo II emerge in primo luogo che la secolarizzazione è un processo storico che ha inizio con l'umanesimo rinascimentale: si è sviluppato con l'illuminismo, e ha il suo sbocco nel laicismo e nel secolarismo agnostico e ateo, caratteristico del marxismo e della società postmoderna.

Il punto di arrivo finale è l'esclusione di Dio e del cristianesimo dalla sfera pubblica e la riduzione della religione a fenomeno puramente individuale.

C'è chi crede che per evitare il secolarismo anticristiano, la Chiesa dovrebbe far propria e "battezzare" la secolarizzazione.

Questa concezione accetta l'inevitabilità della secolarizzazione attribuendole, di fatto, un carattere positivo in quanto svolgimento necessario della storia.

Se, però, rifiutiamo questa visione immanente e storicista e assumiamo invece un criterio che ci permetta di valutare gli eventi alla luce di principi trascendenti, non possiamo considerare in sé "positivo" o "buono" nessun fatto storico.

Come gli atti umani, i fatti storici, che sono prodotti dalle scelte razionali e libere dell'uomo, non sono mai neutri e indifferenti: lo storico, e a maggior ragione il filosofo e il teologo della storia, ha il dovere di giudicarli, ovvero di attribuire loro valore positivo o negativo. L'accettazione della secolarizzazione come fatto storico inevitabile, porta a una filosofia e poi a una teologia della secolarizzazione.

La filosofia della secolarizzazione, implicita nell'umanesimo pagano, si forma nei circoli illuministi; viene portata alla sua coerenza logica da Gramsci e penetra nella seconda metà del ventesimo secolo nella teologia protestante (e poi cattolica) con Dietrich Bonhoeffer. Quella che Bonhoeffer definisce la "maturità del mondo" si raggiunge con l'espulsione del sacro da ogni ambito sociale e con l'estirpazione delle radici cristiane dalla società. Bonhoeffer interpreta la secolarizzazione come l'espressione di un "mondo diventato adulto", il quale, grazie all'evento liberatorio cristiano, può vivere "come se Dio non esistesse", etsi Deus non daretur.

L'illusione è quella di realizzare un ordine "mondano", al di fuori del cristianesimo, eliminando il legame verticale e trascendente che costituisce l'essenza stessa della religione perché ri-lega l'uomo a Dio.

Aristotele ha definito giustamente l'uomo un essere sociale. Ma Aristotele, che non aveva l'idea di creazione, ha ridotto la socialità degli uomini al loro rapporto con i propri simili.

La prima relazione dell'uomo, ciò che fa di lui un essere non immanente e autosufficiente, ma estroflesso e dipendente, è la sua relazione con Dio. Essa si esprime innanzitutto nella preghiera, che fa dell'uomo, non solo un animale sociale ma, per essenza, un homo religiosus.

Ma poiché Dio si è fatto uomo egli stesso e per salvare l'umanità colpita dal peccato originale, ha fondato, attorno al sacrificio di Cristo, la Chiesa, la preghiera per eccellenza dell'uomo, l'unica che lo redime, è quella che egli fa con la Chiesa, all'interno della Chiesa.

La liturgia è la preghiera pubblica della Chiesa, l'atto di culto non privato, del singolo uomo, ma della comunità dei battezzati, riuniti attorno al santo sacrificio dell'altare.

La liturgia che vi si celebra non è solo la trasmissione della parola di Dio all'uomo, e la sua santificazione attraverso i sacramenti; essa è anche e innanzitutto un insieme di forme sensibili che elevano l'uomo verso Dio e lo aiutano a glorificarlo e a rendergli il culto dovuto.

Non è nulla di più antitetico alla secolarizzazione della liturgia espressa dal sacrificio della messa. In esso trovano compimento i misteri della passione, risurrezione e ascensione di Gesù Cristo, perfezione della sacralità, perché nella sua persona Dio si dà massimamente a una natura umana, unita inscindibilmente a Lui.

Il punto più sacro della messa è la formula consacratoria, composta, come ricorda il concilio di Trento, in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli e in parte da ciò che è stato piamente stabilito dai santi Pontefici.
"La celebrazione liturgica - ha ricordato Giovanni Paolo II nella Lettera alla Congregazione per il Culto Divino del 21 settembre 2001 - è un atto della virtù di religione che, coerentemente con la sua natura, deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l'uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a Colui che è tre volte santo e trascendente. Di conseguenza l'atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali davanti al rovo ardente?".

Questo stupore e questa riverenza si esprime soprattutto nel linguaggio del silenzio.

Il silenzio, a cui ha dedicato belle pagine il cardinale Ratzinger (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2007, pp. 203-212) si oppone al frastuono ed esprime la distanza infinita tra il Dio ineffabile, che non può essere conosciuto nella sua essenza, e l'umile creatura che, senza di lui, ricadrebbe nel nulla. Ma questo Dio, adorato nella sua maestà divina, non è lontano, è anzi infinitamente vicino, perché si è donato in Cristo, è presente sull'altare in corpo, sangue, anima e divinità. Solo nella assoluta trascendenza divina si esprime la radicale ed estrema vicinanza di Dio all'uomo.
Il rito romano antico non permette equivoci di alcuna sorta: in esso vi è un senso ineguagliabile della trascendenza divina. Esso non è l'unico rito possibile, ma esprime con perfetta chiarezza quell'unica ecclesiologia che può dirsi cattolica e che ogni liturgia deve esprimere.

La dimensione rituale è una dimensione costitutiva della nascita e dello sviluppo della società europea e cristiana dei primi secoli. La parola traditio, nel suo senso originale, si riferisce alla trasmissione dei symbola fidei, ovvero di quelle formule verbali, confermate dall'autorità ecclesiastica, destinate alla pubblica professione della fede.

La traditio si esprime nella consegna di verità destinate a formare il depositum fidei, ma è anche ricerca dei modi in cui queste verità vengono trasmesse, ricerca dei simboli e dei riti che queste verità efficacemente esprimono.

Ogni verità infatti si traduce in una liturgia, secondo la nota formula di Prospero di Aquitania, lex orandi, lex credendi (oppure legem credendi lex statuat supplicandi; De vocatione omnium gentium, 1, 12).
La descrizione della Eucaristia della domenica lasciataci da san Giustino (Giustino, Apologia, 61-62; 65-67) ci attesta, già prima dell'anno 165, la prassi rituale della Chiesa romana, "nella quale - come scriveva sant'Ireneo - si custodiva fedelmente la tradizione venuta dagli apostoli" (Adversus haereses, II, 3).

In questo senso l'Europa nasce anche attorno a una tradizione liturgica. Christopher Dawson osserva, non a torto, che, dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, l'ordine sacro della liturgia rimase intatto nel caos e la liturgia costituì il principale legame di unità interiore della società. La liturgia fu, nel medesimo tempo, la sede della tradizione e la sede della fede, perché in essa tradizione e fede si incontravano e si conciliavano.
A Papa Damaso, eletto vescovo di Roma nel 366, si deve la prima esposizione del concetto di Petrinitas, come principio di ordine gerarchico ecclesiastico. Ma l'affermazione del primato romano, sotto Damaso e i suoi successori, corre si può dire parallela alla affermazione dell'ordo liturgico romano, la cui definitiva configurazione avviene tra il IV e il VI secolo, culminando nella creazione del Liber Sacramentorum di Gregorio Magno. La liturgia damaseno-gregoriana - come ricorda monsignor Klaus Gamber - si andò imponendo progressivamente in occidente, ed è quella che oggi Benedetto XVI ripropone alla Chiesa.

Questa liturgia gregoriana, espressa dal rito romano antico ci ricorda, attraverso il suo silenzio, le sue genuflessioni, la sua riverenza, l'infinita distanza che separa il cielo dalla terra; ci ricorda che il nostro orizzonte non è quello terreno, ma quello celeste; ci ricorda che nulla è possibile senza sacrificio e che il dono della vita naturale e soprannaturale è un mistero.

Non si tratta di mettere in competizione il rito antico con la nuova messa, promulgata e autorizzata dagli ultimi Pontefici. Si tratta di comprendere come la restituzione della libertà al rito antico opponga una nuova barriera al secolarismo avanzante.

Questo rito aprì e chiuse tutti i ventuno concili ecumenici della Chiesa, da Nicea al Vaticano II. Fu celebrato sotto le volte grandiose di San Pietro e nelle più umili e remote cappelle agli estremi confini della terra, ovunque arrivò lo zelo dei missionari. Fu al centro del culto di tutti gli ordini religiosi fondati nella storia; lo splendore di Cluny e la rinascita liturgica di dom Guéranger, l'avvolsero di maestà e di splendore. I martiri della fede del ventesimo secolo, vi attinsero la forza per resistere ai loro carnefici. Il rito romano costituisce oggi, nelle intenzioni di Benedetto XVI, un'efficace risposta alla sfida della secolarizzazione.
(©L'Osservatore Romano - 17 settembre 2008)
(fonte: Tous Tuus network)

domenica 12 ottobre 2008

Il Primato di Pietro/2



ORIGINE, FINALITA E NATURA DEL PRIMATO


«Primo Simone, chiamato Pietro(5).


Con questa significativa accentuazione della primazia di Simon Pietro, San Matteo introduce nel suo Vangelo la lista dei Dodici Apostoli, che anche negli altri due Vangeli sinottici e negli Atti inizia con il nome di Simone(6). Questo elenco, dotato di grande forza testimoniale, ed altri passi evangelici(7) mostrano con chiarezza e semplicità che il canone neotestamentario ha recepito le parole di Cristo relative a Pietro ed al suo ruolo nel gruppo dei Dodici(8). Perciò, già nelle prime comunità cristiane, come più tardi in tutta la Chiesa, l'immagine di Pietro è rimasta fissata come quella dell'Apostolo che, malgrado la sua debolezza umana, fu costituito espressamente da Cristo al primo posto fra i Dodici e chiamato a svolgere nella Chiesa una propria e specifica funzione. Egli è la roccia sulla quale Cristo edificherà la sua Chiesa(9); è colui che, una volta convertito, non verrà meno nella fede e confermerà i fratelli(10); è, infine, il Pastore che guiderà l'intera comunità dei discepoli del Signore(11).


Nella figura, nella missione e nel ministero di Pietro, nella sua presenza e nella sua morte a Roma -attestate dalla più antica tradizione letteraria e archeologica- la Chiesa contempla una profonda realtà, che è in rapporto essenziale con il suo stesso mistero di comunione e di salvezza: «Ubi Petrus, ibi ergo Ecclesia(12).

La Chiesa, fin dagli inizi e con crescente chiarezza, ha capito che come esiste la successione degli Apostoli nel ministero dei Vescovi, così anche il ministero dell'unità, affidato a Pietro, appartiene alla perenne struttura della Chiesa di Cristo e che questa successione è fissata nelle sede del suo martirio.


4. Basandosi sulla testimonianza del Nuovo Testamento, la Chiesa Cattolica insegna, come dottrina di fede, che il Vescovo di Roma è Successore di Pietro nel suo servizio primaziale nella Chiesa universale(13); questa successione spiega la preminenza della Chiesa di Roma(14), arricchita anche dalla predicazione e dal martirio di San Paolo.


Nel disegno divino sul Primato come «ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli Apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori(15), si manifesta già la finalità del carisma petrino, ovvero «l'unità di fede e di comunione(16) di tutti i credenti. Il Romano Pontefice infatti, quale Successore di Pietro, è «perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli(17), e perciò egli ha una grazia ministeriale specifica per servire quell'unità di fede e di comunione che è necessaria per il compimento della missione salvifica della Chiesa(18).


5. La Costituzione Pastor aeternus del Concilio Vaticano I indicò nel prologo la finalità del Primato, dedicando poi il corpo del testo a esporre il contenuto o ámbito della sua potestà propria. Il Concilio Vaticano II, da parte sua, riaffermando e completando gli insegnamenti del Vaticano I(19) ha trattato principalmente il tema della finalità, con particolare attenzione al mistero della Chiesa come Corpus Ecclesiarum(20).

Tale considerazione permise di mettere in rilievo con maggiore chiarezza che la funzione primaziale del Vescovo di Roma e la funzione degli altri Vescovi non si trovano in contrasto ma in un'originaria ed essenziale armonia(21).


Perciò, «quando la Chiesa Cattolica afferma che la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo, essa non separa questa funzione dalla missione affidata all'insieme dei Vescovi, anch'essi "vicari e legati di Cristo" (Lumen gentium, n. 27). Il Vescovo di Roma appartiene al loro collegio ed essi sono i suoi fratelli nel ministero(22). Si deve anche affermare, reciprocamente, che la collegialità episcopale non si contrappone all'esercizio personale del Primato né lo deve relativizzare.


6. Tutti i Vescovi sono soggetti della sollicitudo omnium Ecclesiarum(23) in quanto membri del Collegio episcopale che succede al Collegio degli Apostoli, di cui ha fatto parte anche la straordinaria figura di San Paolo. Questa dimensione universale della loro episkopè (sorveglianza) è inseparabile dalla dimensione particolare relativa agli uffici loro affidati(24).


Nel caso del Vescovo di Roma -Vicario di Cristo al modo proprio di Pietro come Capo del Collegio dei Vescovi(25)-, la sollicitudo omnium Ecclesiarum acquista una forza particolare perché è accompagnata dalla piena e suprema potestà nella Chiesa(26): una potestà veramente episcopale, non solo suprema, piena e universale, ma anche immediata, su tutti, sia pastori che altri fedeli(27).

Il ministero del Successore di Pietro, perciò, non è un servizio che raggiunge ogni Chiesa particolare dall'esterno, ma è iscritto nel cuore di ogni Chiesa particolare, nella quale «è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo(28), e per questo porta in sé l'apertura al ministero dell'unità. Questa interiorità del ministero del Vescovo di Roma a ogni Chiesa particolare è anche espressione della mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare(29).
L'Episcopato e il Primato, reciprocamente connessi e inseparabili, sono d'istituzione divina. Storicamente sono sorte, per istituzione della Chiesa, forme di organizzazione ecclesiastica nelle quali si esercita pure un principio di primazia.

In particolare, la Chiesa Cattolica è ben consapevole della funzione delle sedi apostoliche nella Chiesa antica, specialmente di quelle considerate Petrine -Antiochia ed Alessandria- quali punti di riferimento della Tradizione apostolica, intorno a cui si è sviluppato il sistema patriarcale; questo sistema appartiene alla guida della Provvidenza ordinaria di Dio sulla Chiesa, e reca in sé, dagli inizi, il nesso con la tradizione petrina(30).


CONSIDERAZIONI DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE RIGUARDO GLI ATTI DEL SIMPOSIO SU IL PRIMATO DEL SUCCESSORE DI PIETRO NEL MISTERO DELLA CHIESA.

INCONCILIABILITÀ TRA FEDE CRISTIANA E MASSONERIA


RIFLESSIONI SULLA DICHIARAZIONE DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE


Il 26 novembre 1983 la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicava una dichiarazione sulle associazioni massoniche (cfr AAS LXXVI [1984] 300).



A distanza dalla sua pubblicazione può essere utile illustrare brevemente il significato di questo documento. Da quando la Chiesa ha iniziato a pronunciarsi nei riguardi della massoneria il suo giudizio negativo è stato ispirato da molteplici ragioni, pratiche e dottrinali. Essa non ha giudicato la massoneria responsabile soltanto di attività sovversiva nei suoi confronti, ma fin dai primi documenti pontifici in materia e in particolare nella Enciclica «Humanum Genus» di Leone XIII (20 aprile 1884), il Magistero della Chiesa ha denunciato nella Massoneria idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica. Per Leone XIII esse si riconducevano essenzialmente a un naturalismo razionalista, ispiratore dei suoi piani e delle sue attività contro la Chiesa. Nella sua Lettera al Popolo Italiano «Custodi» (8 dicembre 1892) egli scriveva: «Ricordiamoci che il cristianesimo e la massoneria sono essenzialmente inconciliabili, così che iscriversi all’una significa separarsi dall’altra».
Non si poteva pertanto tralasciare di prendere in considerazione le posizioni della Massoneria dal punto di vista dottrinale, quando negli anni 1970‑1980 la S. Congregazione era in corrispondenza con alcune Conferenze Episcopali particolarmente interessate a questo problema, a motivo del dialogo intrapreso da parte di personalità cattoliche con rappresentanti di alcune logge che si dichiaravano non ostili o perfino favorevoli alla Chiesa.
Ora lo studio più approfondito ha condotto la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede a confermarsi nella convinzione dell’inconciliabilità di fondo fra i principi della massoneria e quelli della fede cristiana.
Prescindendo pertanto dalla considerazione dell’atteggiamento pratico delle diverse logge, di ostilità o meno nei confronti della Chiesa, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, con la sua dichiarazione del 26.11.83, ha inteso collocarsi al livello più profondo e d’altra parte essenziale del problema: sul piano cioè dell’inconciliabilità dei principi, il che significa sul piano della fede e delle sue esigenze morali.
A partire da questo punto di vista dottrinale, in continuità del resto con la posizione tradizionale della Chiesa, come testimoniano i documenti sopra citati di Leone XIII, derivano poi le necessarie conseguenze pratiche, che valgono per tutti quei fedeli che fossero eventualmente iscritti alla massoneria.
A proposito dell’affermazione sull’inconciliabilità dei principi tuttavia si va ora da qualche parte obiettando che essenziale della massoneria sarebbe proprio il fatto di non imporre alcun «principio», nel senso di una posizione filosofica o religiosa che sia vincolante per tutti i suoi aderenti, ma piuttosto di raccogliere insieme, al di là dei confini delle diverse religioni e visioni del mondo, uomini di buona volontà sulla base di valori umanistici comprensibili e accettabili da tutti.
La massoneria costituirebbe un elemento di coesione per tutti coloro che credono nell’Architetto dell’Universo e si sentono impegnati nei confronti di quegli orientamenti morali fondamentali che sono definiti ad esempio nel Decalogo; essa non allontanerebbe nessuno dalla sua religione, ma al contrario costituirebbe un incentivo ad aderirvi maggiormente.
In questa sede non possono essere discussi i molteplici problemi storici e filosofici che si nascondono in tali affermazioni. Che anche la Chiesa cattolica spinga nel senso di una collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, non è certamente necessario sottolinearlo dopo il Concilio Vaticano II. L’associarsi nella massoneria va tuttavia decisamente oltre questa legittima collaborazione e ha un significato ben più rilevante e determinante di questo.

Innanzi tutto si deve ricordare che la comunità dei «liberi muratori» e le sue obbligazioni morali si presentano come un sistema progressivo di simboli dal carattere estremamente impegnativo. La rigida disciplina dell’arcano che vi domina rafforza ulteriormente il peso dell’interazione di segni e di idee. Questo clima di segretezza comporta, oltre tutto, per gli iscritti il rischio di divenire strumento di strategie ad essi ignote.
Anche se si afferma che il relativismo non viene assunto come dogma, tuttavia si propone di fatto una concezione simbolica relativistica, e pertanto il valore relativizzante di una tale comunità morale-rituale lungi dal poter essere eliminato, risulta al contrario determinante.

In tale contesto, le diverse comunità religiose, cui appartengono i singoli membri delle Logge, non possono essere considerate se non come semplici istituzionalizzazioni di una verità più ampia e inafferrabile. Il valore di queste istituzionalizzazioni appare, quindi, inevitabilmente relativo, rispetto a questa verità più ampia, la quale si manifesta invece piuttosto nella comunità della buona volontà, cioè nella fraternità massonica.
Per un cristiano cattolico, tuttavia, non è possibile vivere la sua relazione con Dio in una duplice modalità, scindendola cioè in una forma umanitaria - sovraconfessionale e in una forma interna - cristiana. Egli non può coltivare relazioni di due specie con Dio, né esprimere il suo rapporto con il Creatore attraverso forme simboliche di due specie. Ciò sarebbe qualcosa di completamente diverso da quella collaborazione, che per lui è ovvia, con tutti coloro che sono impegnati nel compimento del bene, anche se a partire da principi diversi. D’altronde un cristiano cattolico non può nello stesso tempo partecipare alla piena comunione della fraternità cristiana e, d’altra parte, guardare al suo fratello cristiano, a partire dalla prospettiva massonica, come a un «profano».

Anche quando, come già si è detto, non vi fosse un’obbligazione esplicita di professare il relativismo come dottrina, tuttavia la forza relativizzante di una tale fraternità, per la sua stessa logica intrinseca ha in sé la capacità di trasformare la struttura dell’atto di fede in modo così radicale da non essere accettabile da parte di un cristiano, «al quale cara è la sua fede» (Leone XIII).

Questo stravolgimento nella struttura fondamentale dell’atto di fede si compie, inoltre, per lo più, in modo morbido e senza essere avvertito: la salda adesione alla verità di Dio, rivelata nella Chiesa, diviene semplice appartenenza a un’istituzione, considerata come una forma espressiva particolare accanto ad altre forme espressive, più o meno altrettanto possibili e valide, dell’orientarsi dell’uomo all’eterno.
La tentazione ad andare in questa direzione è oggi tanto più forte, in quanto essa corrisponde pienamente a certe convinzioni prevalenti nella mentalità contemporanea. L’opinione che la verità non possa essere conosciuta è caratteristica tipica della nostra epoca e, nello stesso tempo, elemento essenziale della sua crisi generale.
Proprio considerando tutti questi elementi la Dichiarazione della S. Congregazione afferma che la Iscrizione alle associazioni massoniche «rimane proibita dalla Chiesa» e i fedeli che vi si iscrivono «sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione».
Con questa ultima espressione, la S. Congregazione indica ai fedeli che tale iscrizione costituisce obiettivamente un peccato grave e, precisando che gli aderenti a una associazione massonica non possono accedere alla Santa Comunione, essa vuole illuminare la coscienza dei fedeli su di una grave conseguenza che essi devono trarre dalla loro adesione a una loggia massonica.
La S. Congregazione dichiara infine che «non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche, con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito».
A questo proposito il testo fa anche riferimento alla Dichiarazione del 17 febbraio 1981, la quale già riservava alla Sede Apostolica ogni pronunciamento sulla natura di queste associazioni che avesse implicato deroghe alla legge canonica allora in vigore (can. 2335).

Allo stesso modo il nuovo documento, emesso dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede nel novembre 1983, esprime identiche intenzioni di riserva relativamente a pronunciamenti che divergessero dal giudizio qui formulato sulla inconciliabilità dei principi della massoneria con la fede cattolica, sulla gravità dell’atto di iscriversi a una loggia e sulla conseguenza che ne deriva per l’accesso alla Santa Comunione. Questa disposizione indica che, malgrado la diversità che può sussistere fra le obbedienze massoniche, in particolare nel loro atteggiamento dichiarato verso la Chiesa, la Sede Apostolica vi riscontra alcuni principi comuni, che richiedono una medesima valutazione da parte di tutte le autorità ecclesiastiche.
Nel fare questa Dichiarazione, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede non ha inteso disconoscere gli sforzi compiuti da coloro che, con la debita autorizzazione di questo Dicastero, hanno cercato di stabilire un dialogo con rappresentanti della Massoneria.
Ma, dal momento che vi era la possibilità che si diffondesse fra i fedeli l’errata opinione secondo cui ormai la adesione a una loggia massonica era lecita, essa ha ritenuto suo dovere far loro conoscere il pensiero autentico della Chiesa in proposito e metterli in guardia nei confronti di un’appartenenza incompatibile con la fede cattolica.

Solo Gesù Cristo è, infatti, il Maestro della Verità e solo in Lui i cristiani possono trovare la luce e la forza per vivere secondo il disegno di Dio, lavorando al vero bene dei loro fratelli.
(tratto da: vatican.va)