mercoledì 31 dicembre 2008

Te Deum

Latino

Te Deum laudamus:
te Dominum confitemur.
Te aeternum patrem,
omnis terra veneratur.

Tibi omnes angeli,
tibi caeli et universae potestates:
tibi cherubim et seraphim,
incessabili voce proclamant:

"Sanctus, Sanctus, Sanctus
Dominus Deus Sabaoth.
Pleni sunt caeli et terra
majestatis gloriae tuae."

Te gloriosus Apostolorum chorus,
te prophetarum laudabilis numerus,
te martyrum candidatus laudat exercitus.

Te per orbem terrarum
sancta confitetur Ecclesia,
Patrem immensae maiestatis;
venerandum tuum verum et unicum Filium;
Sanctum quoque Paraclitum Spiritum.

Tu rex gloriae, Christe.
Tu Patris sempiternus es Filius.
Tu, ad liberandum suscepturus hominem,
non horruisti Virginis uterum.
Tu, devicto mortis aculeo,
aperuisti credentibus regna caelorum.
Tu ad dexteram Dei sedes,
in gloria Patris.
Iudex crederis esse venturus.
Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni,
quos pretioso sanguine redemisti.
Aeterna fac
cum sanctis tuis in gloria numerari.

Salvum fac populum tuum, Domine,
et benedic hereditati tuae.
Et rege eos,
et extolle illos usque in aeternum.

Per singulos dies benedicimus te;
et laudamus nomen tuum in saeculum,
et in saeculum saeculi.

Dignare, Domine, die isto
sine peccato nos custodire.
Miserere nostri, Domine,
miserere nostri.

Fiat misericordia tua, Domine, super nos,
quem ad modum speravimus in te.
In te, Domine, speravi:
non confundar in aeternum.


Italiano

Noi ti lodiamo, Dio,
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre,
tutta la terra ti adora.
A te cantano gli angeli
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo
il Signore Dio dell'universo.
I cieli e la terra
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli
e la candida schiera dei martiri;
le voci dei profeti si uniscono nella lode;
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico Figlio
e lo Spirito Santo Paraclito.
O Cristo, re della gloria,
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre
per la salvezza dell'uomo.
Vincitore della morte,
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre.
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.
Soccorri i tuoi figli, Signore,
che hai redento col tuo Sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria
nell'assemblea dei santi.
Salva il tuo popolo, Signore,
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo,
lodiamo il tuo nome per sempre.
Degnati oggi, Signore,
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia:
in te abbiamo sperato.
Pietà di noi, Signore,
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza,
non saremo confusi in eterno.

venerdì 26 dicembre 2008

25 Dicembre - Festa Cristiana!


Inchiesta sulla nascita di Gesù. Le ultime scoperte rivelano che...

di Antonio Socci


Le tracce anagrafiche di Gesù ci portano sul Campidoglio di Roma, da dove si gode una veduta mozzafiato dei Fori imperiali. Il fazzoletto di terra tra il Tabularium – che sta alle fondamenta dell’attuale municipio – e l’Aerarium del Tempio di Saturno, duemila anni fa era il centro del mondo. In quel punto erano custoditi i documenti del censimento di Augusto, secondo Tertulliano “teste fedelissimo della natività di Nostro Signore”.

Era lì dunque la registrazione anagrafica della nascita – fatta da due giovani ebrei – di un bambino chiamato Yehòshua’, Gesù, che significava “Dio salvatore”. Incendi e distruzioni hanno perduto quei documenti. Sempre lì dovette trovarsi anche la relazione a Tiberio che Ponzio Pilato scrisse verso il 35 d.C. per giustificare processo ed esecuzione dello stesso Gesù. Da cui venne la proposta di Tiberio al Senato di riconoscere quel Gesù come dio, ossia di legittimare il culto di Cristo che si stava diffondendo. Il Senato rispose di no. La notizia è contenuta in un passo dell’Apologetico (V,2) di Tertulliano ed è stata recentemente dimostrata attendibile da un’autorevole storica, Marta Sordi.

Ma torniamo a quel censimento. Negli studi della “Scuola di Madrid” – sintetizzati nel libro “La vita di Gesù” di Josè Miguel Garcia - trova soluzione anche il problema cronologico del censimento che finora non si sapeva quando collocare e pareva storicamente dubbio.
Perché Giuseppe e Maria devono andare a Betlemme il cui nome, beth-lehem, in ebraico significa “città del pane”? Perché Erode, per conto dei romani, ha imposto un giuramento-censimento. Le autorità di Betlemme pretendono che della famiglia di Davide non manchi nessuno: Giuseppe è un discendente dell’antico casato reale che è tenuto particolarmente d’occhio. Soprattutto in questi anni nei quali – a causa di alcune profezie e di alcuni segni - si è fatta fortissima l’idea che il Messia stia per arrivare. Si sa infatti che il “liberatore” che gli ebrei aspettano è di sangue reale. E dunque quelli della famiglia di Re David sono tutti “sospetti”.

E’ per queste origini che la famiglia di Gesù, pur essendo diventata modesta e umile, custodisce gelosamente le genealogie che non a caso si trovano riportate nei vangeli. Genealogie che raccontano storie terribili, su cui i vangeli non sorvolano affatto. Tanto da stupire quel poeta cattolico che fu Charles Péguy: “bisogna riconoscerlo, la genealogia carnale di Gesù è spaventosa… E’ in parte ciò che dà al mistero dell’Incarnazione tutto il suo valore, tutta la sua profondità, tutto il suo impeto, il suo carico di umanità. Di carnale”. Secondo uno studio recente nelle origini familiari di Gesù troviamo la stessa tribù discendente da Caino, il primo omicida della storia. In Numeri 24, 21 si dice che i Qeniti sono i discendenti di Caino, verranno assorbiti dal popolo ebraico e la loro terra è dove poi sorgerà Betlemme. In un passo successivo (34,19) con Giosuè sono raccolti, per la spartizione della terra conquistata, i capi delle dodici tribù d’Israele. A capo della tribù di Giuda sta Kaleb detto il Qenizita, a cui Giosuè assegna una porzione della terra di Giuda. I Qeniti, spiega Tommaso Federici, sono dunque “una sottotribù di Giuda, la loro terra sta nella ‘parte montagnosa’, con capitale Hebron. Essa comprendeva la Betlemme di Kaleb, attraverso la sua sposa Efrata”. Dunque “i Davididi sono i Qeniti o Cainiti”. Ecco – commenta Federici “sopra quale abisso è disceso l’Immortale Eterno per assumere la carne dei peccatori. Cristo Signore così riassume in sé ogni Caino d’ogni tempo, per salvarlo”. Gesù dunque è “il segno” che Dio aveva posto sopra Caino “per cui questi ha salva la vita”. Nel profeta Isaia leggiamo infatti: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”. Nello stesso ceppo familiare di Gesù sono riassunti “sia Israele, sia Giuda, sia i pagani ed i peccatori più lontani. Di fatto” spiega Federici “a Betlemme, Booz, antenato di David, sposando Rut la Moabita, dunque pagana e idolatra, l’inserisce a pieno titolo nel popolo di Dio, tanto che diventa antenata di David”.

La predilezione di Dio non è caduta sui migliori, ma su dei peccatori. Fra i figli di Giacobbe viene scelto Giuda, il quartogenito, uno dei fratelli che avevano venduto Giuseppe. Uno la cui moralità crolla platealmente nell’unione con la nuora, Tamar, unione da cui discende legalmente Gesù. Della sua genealogia fanno parte poi dei re idolatri, immorali e qualcuno criminale. Lo stesso Davide, il più grande dei re e il più amato da Dio, commette peccati e delitti spaventosi. Le donne della genealogia di Gesù scriveva il cardinale Van Thuan “colpiscono per le loro storie, sono donne che si trovano tutte in una situazione irregolare e di disordine morale: Tamar è una peccatrice, che con l’inganno ha avuto una unione incestuosa col suocero Giuda; Raab è la prostituta di Gerico che accoglie e nasconde le due spie israelite inviate da Giosuè e viene ammessa nel popolo ebraico; Rut è una straniera; della quarta donna… ‘quella che era stata moglie di Urìa’, si tratta di Betsabea, la compagna di adulterio di David”.

Sembra una storia terribile, eppure è la storia della salvezza. La storia da cui è nato Gesù che ha voluto riservarsi – totalmente puri e santi – solo gli ultimi rampolli di quei clan familiari: Maria e Giuseppe. Che dunque arrivano a Betlemme dove nasce Gesù. A lungo si è ritenuto che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta per contrastare le feste pagane del Natale Solis invicti (da identificare forse con Mitra, forse con l’imperatore romano). Ma recentemente una scoperta archeologica fatta tra i papiri di Qumran ha clamorosamente suggerito la possibile esattezza di quella data. Dal “Libro dei Giubilei” uno studioso israeliano, Shemarjahu Talmon ha ricostruito la successione dei 24 turni sacerdotali relativi al servizio nel Tempio di Gerusalemme e ha scoperto che “il turno di Abia” corrispondeva all’ultima settimana di settembre.

Notizia importante perché si lega a una informazione cronologica del Vangelo di Luca (1,5) secondo cui Zaccaria, il padre di Giovanni Battista e marito di Elisabetta, appartenente alla tribù sacerdotale di Abia, vide l’angelo, che annunciava il concepimento di Giovanni, proprio mentre “officiava davanti al Signore nel turno della sua classe”. Quindi a fine settembre.

Il rito bizantino che da secoli fa memoria dell’annuncio a Zaccaria il 23 settembre deriva dunque da un’antica memoria, forse una tradizione orale. La Chiesa tutta poi celebra nove mesi dopo la nascita del Battista e tutta la liturgia cristiana è impostata su questa data giacché Luca (1, 26) spiega che l’annuncio a Maria avviene quando Elisabetta era al sesto mese di gravidanza.

In effetti la Chiesa celebra l’Annunciazione il 25 marzo e il Natale del Signore nove mesi dopo, il 25 dicembre (lo attesta già un calendario liturgico del 326 d.C.). Ne discende che se ha fondatezza storica l’annuncio a Zaccaria il 23 settembre, a catena – come ha dimostrato Antonio Ammassari - acquisiscono storicità anche la data dell’Annunciazione e quella del Natale.
Dal recente libro di Garcia si apprende pure la verità sul luogo della nascita di Gesù. Il contesto deve essere non una grotta, ma la grande casa paterna di Giuseppe a Betlemme. “Tali case erano costituite da un’unica grande stanza, dove le persone occupavano una specie di piattaforma rialzata, mentre in un’estremità si trovavano gli animali di cui la famiglia aveva bisogno per lavorare. E per questi animali era ovvio che ci fosse una mangiatoia”.

Probabilmente Giuseppe e la giovane partoriente, per avere un po’ di riservatezza e più caldo, furono alloggiati in questa parte della casa e il bambino fu posto in quella mangiatoia. E’ con una storia così ordinaria, così normale, che Dio – per i cristiani – è venuto nel mondo. E con Lui la bellezza, la bontà e la salvezza. IncontrarLo è il senso della vita. Scrive Péguy: “Felici coloro che bevevano lo sguardo dei tuoi occhi”.


(fonte: Il Giornale)

mercoledì 24 dicembre 2008

lunedì 22 dicembre 2008

En Clara Vox Redarguit






Novena del Santo Natale



En clara vox redárguit, obscúra quaeque pérsonans, procul fugéntur sómnia, ad alto Jesu prómicat.

Una voce chiara ridesta l'oscura notte, lontano fuggano i sogni, dall'alto appare Gesù.

Et Agnus ad nos míttitur
laxáre gratis débitum, omnes simul cum lácrymis precémur indulgéntiam.

Ecco l'Agnello
che viene a cancellare ogni debito riuniamoci a chiedere perdono con sincere lacrime.

Beátus Áuctor saéculi servíle corpus índuit, ut carne carnem líberans, ne pérderet quos cóndidit.

Il Creatore del mondo viene fra gli uomini affinché l'opera delle sue mani non vada perduta.

Castae Paréntis víscera caeléstis intrat grátia venter puéllae bájulat secréta quae non nóverat.

Le viscere di una casta Genitrice sono state fecondate dalla grazia celeste, il suo ventre di fanciulla nasconde segreti ineffabili.

Domus pudici péctoris
Templum repénte fit Dei, intácta, nésciens virum, concépit alvo Fílium.

Quel grembo purissimo
diventa tempio di Dio intatta, senza conoscere uomo, dà alla luce il Figlio.

Deo Patri sit glória,
Eiusque soli Filio, cum Spíritu Paráclito In saéculorum saécula.

Sia gloria al Padre e all'unico Figlio con il Santo Spirito nei secoli dei secoli.

Amen.




domenica 21 dicembre 2008

Testamento di re Luigi XVI

Ho sempre considerato fuorviante la maniera con la quale - durante gli anni scolastici - mi venivano spiegati e fatti studiare alcuni fatti del passato..
La Rivoluzione Francese ne è un palese esempio.

"...Io muoio innocente di tutti i crimini a me imputati. Perdono i responsabili della mia morte e prego Dio che il sangue che state versando non ricadrà mai sulla Francia.."

(Le ultime parole pronunciate da Luigi XVI il 21/01/1793)


5 dicembre 1792:



"Nel nome della Santissima Trinità, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo.
Oggi 25 Dicembre 1792. Io Luigi XVI di nome, Re di Francia, chiuso da più di quattro mesi colla mia Famiglia nel Tempio a Parigi da coloro ch'eran miei sudditi, privo di ogni comunicazione qualunque, e dagli undici in qua del corrente fino colla mia stessa Famiglia, implicato di più in un processo, di cui è impossibile prevederne l'uscita a motivo delle passioni degli Uomini, e di cui non si trova né pretesto, né mezzi di alcuna legge esistente, non avendo che Dio per testimonio dè miei pensieri, a cui possa rivolgermi: Io dichiaro qui in sua presenza le mie ultime volontà, e sentimenti.

Lascio la mia Anima a Dio mio Creatore, pregandolo ad accoglierla nella sua misericordia, di non giudicarla secondo i suoi meriti, ma da quelli bensì del nostro Signor Gesù Cristo che si è offerto in sacrifizio a Dio suo Padre per noi altri Uomini, benché ne fossimo indegni, ed io più di tutti.

Muojo nell'unione della nostra Santa Madre la Chiesa Cattolica, Apostolica, e Romana, che ha la sua Podestà per una successione non mai interrotta dopo S. Pietro, a cui Gesù Cristo l'ha confidata.

Credo fermamente e confesso quanto è contenuto nel Simbolo, i Comandamenti di Dio, e della Chiesa, i Sacramenti, e i Misterj come la Chiesa Cattolica gli insegna, e gli ha sempre insegnati. Non ho mai preteso di farmi Giudice nelle differenti maniere di spiegare i dogmi, che dividon la Chiesa di Gesù Cristo, ma sonomi riportato, e mi riporterò sempre se Dio mi dà vita alla decisioni che i Superiori Ecclesiastici uniti alla Santa Chiesa Cattolica danno, e daranno conformemente alla Disciplina della Chiesa costante da Gesù Cristo in poi.

Compiango di tutto cuore i nostri fratelli, che potessero essere in errore, ma non pretendo però giudicarli, e non gli amo tutti per questo di meno in Gesù Cristo, secondo che la Carità Cristiana ci insegna. Prego Dio a perdonarmi tutti i miei peccati: ho cercato scrupolosamente a conoscerli, a detestarli, e ad umiliarmi in sua presenza. Non potendo servirmi del ministero di un Sacerdote Cattolico, prego Dio di ricevere la confessione che gli ho fatta, e soprattutto il pentimento profondo che ho di aver messo il mio nome (benché ciò fosse contro mia voglia) ad atti che possan esser contrarj alla disciplina, ed alla credenza della Chiesa Cattolica, alla quale sono sempre rimasto sinceramente unito di cuore. Prego Dio di ricevere la ferma risoluzione in cui sono, se mi dà vita, di servirmi tosto che il possa del Ministero di un Prete Cattolico per accusarmi di tutti i miei peccati, e ricevere il Sagramento della Penitenza.

Prego tutti coloro che potessi aver offesi per inavvertenza (poiché non mi ricordo di aver mai fatto scientemente offesa a veruno) o quelli a cui potessi aver dato cattivi esempj, o scandali di perdonarmi il male che credono possa loro aver fatto. Prego tutti coloro che han carità di unire le loro colle mie preghiere per ottenere da Dio il perdono dè miei peccati.

Perdono con tutto il mio cuore a coloro che si son fatti miei nimici, senza ch'io n'abbia loro dato motivo, e prego Dio di perdonare ad essi, come pure a coloro che per un falso zelo, o per un zelo malinteso mi hanno fatto assai male.

Raccomando a Dio mia Moglie, e i miei Figli, la mia Sorella, le mie Zie, e i miei Fratelli, e tutti coloro che mi sono uniti per vincolo di sangue, o per qualunque altro modo possa ciò essere. Prego Dio particolarmente a volgere un occhio di misericordia sopra la mia Moglie, i miei Figli, e mia Sorella che soffrono da lungo tempo con me, di sostenerli colla sua grazia se venissero a perdermi, e fino a tanto che resteranno in questo modo peribile.

Raccomando i miei Figli a mia Moglie. Non ho mai dubitato della sua materna tenerezza per essi; le raccomando sopra tutto di farli buoni Cristiani, ed onest'Uomini, di non far loro riguardar le grandezze di questo mondo (se saran condannati a provarle) che come beni pericolosi, e transitorj, e di voltare i sguardi verso la sola Gloria solida, e durevole dell'Eternità: prego mia Sorella a voler continuare la sua tenerezza à miei Figli, e di tener loro luogo di Madre se mai avessero la disgrazia di perder la propria.

Prego mia Moglie a voler perdonarmi tutti i mali che soffre in grazia mia, e i dispiaceri che potrei averle recati nel corso della nostra unione, com'Ella può esser sicura che nulla ho contro di Lei, dov'ella credesse aver qualche cosa a rimproverarsi.

Raccomando vivissimamente à miei Figli dopo quel che devono a Dio che deve andare innanzi di tutto, di essere uniti sempre fra loro, sommessi, ed ubbidienti alla lor Madre, e grati a tutte le cure, e travagli, ch'ella si prende per essi, e per mia memoria. Li prego a riguardar mia Sorella come un'altra lor Madre.

Raccomando a mio Figlio, se avesse mai la disgrazia di esser Re, di pensare che deve tutto se stesso alla felicità dè suoi concittadini, che deve dimenticarsi d'ogni risentimento, d'ogni odio, e segnatamente di quanto ha rapporto alle disgrazie, ed ai dispiaceri che provo, che non potrà fare giammai il bene dei Popoli, fuorché regnando secondo le leggi; ma al tempo stesso che un Re non può far rispettarle, né fare il ben che vorrebbe se non è rivestito dell'autorità necessaria, e che altrimenti legato nelle sue operazioni, e non ispirando alcun rispetto farà più di danno, che di vantaggio.

Raccomando a mio Figlio di aver cura di tutte le Persone che m'erano attaccate quanto le circostanze in cui si troverà gli permetteranno di fare: di pensare ch'è un debito sacrosanto da me contratto verso i Figli, o i Genitori di quelli che son periti in grazia mia, e poscia di coloro che in grazia mia si trovano in uno stato infelice.

So che tra quelli che m'erano attaccati ve ne son molti, che non si sono condotti a mio riguardo, come doveano, e che mi hanno fino mostrata dell'ingratitudine; ma io perdono loro (spesso in momento di agitazione, e di effervescenza non si è padron di se stessi) e prego mio Figlio se ne ha l'occasione a non ricordarsi della loro disgrazia.

Vorrei poter qui attestare la mia riconoscenza a coloro, che mi hanno mostrato un vero attaccamento senza alcun interesse; se da un canto sono stato commosso sensibilmente alla slealtà, e sconoscenza di alcuni, a cui mai non avea dimostrato che bontà, ed essi personalmente, o ai loro parenti, o amici, sono stato dall'alto consolatissimo in vedere l'attaccamento, e l'interesse gratuito da molte persone mostratomi; li prego tutti a gradire i miei ringraziamenti. Nella situazione in cui tuttavia sono le cose temerei comprometterli se mai parlassi più chiaro; ma raccomando specialmente a mio Figlio di indagar le occasioni per poter riconoscerli.

Crederei calunniare ciò non ostante i sentimenti della Nazione se non raccomandassi apertamente a mio Figlio MM. de Chamilly e Huë che il vero loro attaccamento alla mia persona avea portato a richiudersi meco in questo tristo soggiorno, e che hanno creduto di divenire le vittime disgraziate. Gli raccomando ancora Cléry, delle attenzioni del quale ho avuto tutto il motivo di lodarmi dacché trovasi meco, essendo quegli che è restato con me sin alla fine: Prego i Signori della Comune di consegnargli i miei panni, i miei libri, il mio oriuolo, la mia borsa e gli altri piccoli effetti depositati ai Consiglio della Comune.

Perdono ancora volontierissimo a coloro che mi hanno fatta la sentinella i cattivi trattamenti, e malattie con cui han creduto dover usar meco. Ho ritrovato alcune anime sensibili, e compassionevoli; possano esse godere nel loro animo di quella tranquillità che il loro modo di pensare deve ad essi accordare.

Prego i Signori di Melesherbes, Tronchet, e de Séze a qui tutti ricevere i miei ringraziamenti, e l'espressione della mia sensibilità per tutte le cure, e fastidj che si son dati per me.

Finisco con dichiarare innanzi a Dio, e pronto a comparire alla sua presenza, ch'io non mi rimprovero alcun dei delitti che mi si sono opposti.

Dalla Torre del Tempio, li venticinque dicembre dell'anno mille settecento novanta due.

Luigi"

giovedì 18 dicembre 2008

A proposito di Maria




La devozione a Maria SS.ma

Il fondamento della devozione a Maria (altrimenti detto della pietà), si trova negli stessi Vangeli. A leggerli attentamente, ci si accorge che la Vergine di Nazaret vi è sempre presente, sia sotto forma di una presenza velata o come ritratto; d’altra parte, nei momenti decisivi e cruciali della vita di suo Figlio, Gesù, il Verbo di Dio, il ruolo di Maria è riportato molto esplicitamente dai Vangeli.


È per questo che i cristiani cattolici ed ortodossi non sono i soli ad onorare la Madre di Gesù: tutti coloro che riconoscono la Bibbia come testo sacro e fondamentale, le tributano rispetto ed onore. È evidente che questo rispetto verso la Madre di Dio assume una forza ed una ampiezza particolare nella Chiesa, che dall’alba della propria fede al Cristo, prega sua Madre con le stesse parole dell’angelo Gabriele nelle Scritture, quelle dell’ “Ave Maria”, universalmente conosciuta e recitata dai cristiani, in tutta la terra! Il rosario, il Magnificat così come le grandi preghiere di lode e gli inni come l’inno Acatista, sono le forme di preghiera più antiche del patrimonio universale della pietà mariana nella Chiesa.

La devozione a Maria è unita alla vita spirituale della Chiesa

Questo tesoro della pietà si esprime d’altronde in varie maniere nella Chiesa universale: le novene a Maria, gli oggetti di pietà (statue, immagini e le decine del rosario), i periodi della settimana o del calendario liturgico, i luoghi (cappelle, santuari, basiliche o cattedrali) che sono dedicati alla Vergine e le stesse consacrazioni alla sua persona, proposte dalle varie famiglie spirituali che l’hanno scelta come modello di vita nel corso della storia della cristianità, mostrano, sufficientemente, a che punto la devozione a Maria sia unita alla vita spirituale della Chiesa. Anche dopo il concilio Vaticano II si assiste ad una rinnovazione della pietà verso Maria. Ricordiamo di passaggio che, precisamente durante il Concilio, il 21 novembre 1964, il papa Paolo VI ha proclamato magistralmente Maria, “Madre della Chiesa”.

Nella stessa maniera, il Vaticano II ha riaffermato l’importanza della devozione popolare, confermando la legittimità delle immagini sacre di Cristo, della Vergine e dei santi, per contrastare alcune tendenze miranti a eliminarle dai santuari. Perchè la pietà, la devozione verso la Vergine non rilevano del sentimentalismo, ma l'amore verso Colei che è Madre e modello in grado di condurre gli uomini, i suoi figli, a incontrare Cristo. La pietà filiale verso la Madre di Gesù suscita presso i cristiani, come osserva il papa Giovanni Paolo II, "la ferma decisione di imitarne le sue virtù".





Maria e la spiritualità


È stupefacente constatare, a proposito di Maria, conosciuta universalmente come la “Madre di Gesù”, come la sua tenerezza materna, la sua bellezza spirituale, la sua purezza e dolcezza uniche, attraggano verso di Lei una immensa folla di fanciulli, di uomini, qualunque sia la loro famiglia culturale! È frequente, per esempio, incontrare dei Mussulmani o addirittura dei Buddisti! – che onorano e, talvolta, non esitano a pregare la Vergine di Nazaret.

Quanto ai Cristiani, anche se nelle comunità protestanti sono pochi quelli che accettano di pregare Cristo attraverso la intercessione di sua Madre, le cose vanno in maniera differente nella Chiesa cattolica o ortodossa: la Santa Vergine Maria vi occupa, nella vita spirituale comunitaria e personale dei battezzati, come nella vita liturgica, un posto non rimpiazzabile: quella della Madre, “Madre del Redentore”, “Madre di Dio”, “Madre della Chiesa”, “Madre degli uomini”...

Così, quanti istituti cristiani, di ordini e di altre congregazioni religiose maschili e femminili, nel corso delle generazioni ed in tutti i continenti, hanno scelto la Vergine Maria come modello e santa patrona: ve ne sono a iosa!

E come non comprendere questa immagine, visto che la dimensione mariana attraversa, in realtà, tutta la vita cristiana:
in primo luogo come Madre del Salvatore e Madre degli uomini, la Vergine di Nazaret accompagna maternamente il nostro incontro con suo Figlio e la sua preghiera di intercessione è considerata, fin dagli inizi della cristianità, come la più potente sul Cuore di Dio;
Maria è anche, come riconoscono i grandi mistici e i Dottori della Chiesa: “il cammino più dolce per recarsi da suo Figlio”;
quanto ai grandi misteri della Fede, l’Incarnazione e la la Redenzione dal mondo attraverso Cristo Gesù nostro Unico Redentore, la Vergine Maria vi partecipa a titolo talmente eccezionale, che la Chiesa, tanto nel suo Magistero, quanto nelle preghiere dei piccoli e degli umili, non può dissociarsene...

Ciò fa dire al papa Giovanni Paolo II, di cui si conosce la profonda spiritualità mariana: “Il popolo di Dio, sotto la direzione dei suoi pastori, è chiamato a distinguere, in questo fatto, l’azione dello Spirito Santo, che ha indirizzato la fede cristiana sul cammino della scoperta del volto di Maria” (Cf Catechesi sul Credo, 15 nov. 1995)



Maria nella liturgia


La Vergine Maria, scelta da Dio, da tutta l’eternità, come “Vaso di elezione” per la realizzazione divina del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione del mondo nel Suo Figlio Gesù Cristo, nostro Salvatore, è anche Colei che, ai piedi della Croce, davanti allo smacco apparente della morte di Suo Figlio, non ha mai vacillato nella sua fede; è Lei che conforta gli Apostoli in questa Ora di dolore, che precede la Resurrezione.. Maria è anche Colei che andrà ad avvolgere, proteggere e assistere la nascita della Chiesa fin dai primi passi di quest’ultima, dopo la dipartita di Gesù.

La Vergine è dunque presente in maniera costante nella celebrazione della liturgia: da un lato, perché creatura come noi, come noi Lei rende al Signore il culto che è dovuto solo a Dio; d’altro lato perché Lei occupa uno spazio particolare e unico nella realizzazione dei due grandi misteri di salvezza dell’umanità (l’Incarnazione e la Redenzione) e, partendo da questo fatto, nella liturgia che celebra questi misteri della Fede. Oltre a questo, Maria, Madre del Verbo di Dio, occupa un posto centrale nella liturgia eucaristica perché, come ricorda sant’Agostino, “la Carne di Gesù, è la Carne di Maria”.

“Maria non è il Dio del Tempio, Lei è il tempio di Dio”

Intanto, se la Santa Vergine occupa un posto speciale nella liturgia della Chiesa, Lei non ne è la finalità: il culto d’adorazione (di latria) è dovuto solo a Dio: solo Dio è l’oggetto primo e supremo della liturgia della Chiesa; quanto a Maria, lei riceve, da parte di tutti coloro che la pregano, un culto di venerazione (di dulia, o meglio di iperdulia, dato che la Vergine è più interceditrice di tutti i santi e gli angeli riuniti): “Maria non è il Dio del Tempio, Lei è il tempio di Dio”...
Ciò non impedisce che, dopo le origini della Chiesa, e in tutte le nazioni del mondo, la liturgia celebri e onori la Madre di Dio, Colei che canta nel suo Magnificat: “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”...

Un posto d’onore nella liturgia

Sebbene Maria occupi un posto d’onore in tutte le liturgie della Chiesa (liturgia eucaristica, sacramentale, Uffico delle Ore, chiamato anche “Ufficio Divino”), questa considerazione è particolarmente sensibile nei riti della Chiesa d’Oriente, per esempio, dove la Vergine è al centro della celebrazione ortodossa, che la onora come Théotokos (Madre di Dio) lungo tutto l’anno liturgico.
Nella Chiesa universale l’anno liturgico è punteggiato da quattro feste mariali principali: l’Immacolata Concezione; l’Annunciazione; la Madre di Dio; l’Assunzione, oltre a numerose feste secondarie (almeno 16); senza contare le messe votive in onore della Vergine (nel solo Messale di rito latino Romano, il rito ufficiale della Chiesa Cattolica, se ne contano 46!). Ciò è sufficiente per dire qual’è il posto d’onore e la venerazione di cui la Vergine è fatta oggetto nella liturgia della Chiesa tanto d’Oriente come d’Occidente, quali che siano le culture, e ”di generazione in generazione”...
(fonte: www.mariedenazareth.com)

sabato 13 dicembre 2008

DIO SI È FATTO UOMO




Dal Catechismo della Chiesa Cattolica


IL FIGLIO DI DIO SI È FATTO UOMO


Vero Dio e vero uomo

L'evento unico e del tutto singolare dell'Incarnazione del Figlio di Dio non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo, né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano. Egli si è fatto veramente uomo rimanendo veramente Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. La Chiesa nel corso dei primi secoli ha dovuto difendere e chiarire questa verità di fede contro eresie che la falsificavano.
Seguendo i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato” (Eb 4,15), generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l'umanità.
Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi [Concilio di Calcedonia: Denz. -Schönm., 301-302].
Dopo il Concilio di Calcedonia, alcuni fecero della natura umana di Cristo una sorta di soggetto personale. Contro costoro, il quinto Concilio Ecumenico, a Costantinopoli, nel 553, ha confessato riguardo a Cristo: vi è “una sola ipostasi [o Persona].. ., cioè il Signore nostro Gesù Cristo, Uno della Trinità[Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424]. Tutto, quindi, nell'umanità di Cristo deve essere attribuito alla sua Persona divina come al suo soggetto proprio, [Cf già Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 255] non soltanto i miracoli ma anche le sofferenze [Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424] e così pure la morte: “Il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, Signore della gloria e Uno della Santa Trinità[Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz.- Schönm., 424].
La Chiesa così confessa che Gesù è inscindibilmente vero Dio e vero uomo. Egli è veramente il Figlio di Dio che si è fatto uomo, nostro fratello, senza con ciò cessare d'essere Dio, nostro Signore:


Come il Figlio di Dio è uomo

Poiché nella misteriosa unione dell'Incarnazione “la natura umana è stata assunta, senza per questo venir annientata”, [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22] la Chiesa nel corso dei secoli è stata condotta a confessare la piena realtà dell'anima umana, con le sue operazioni di intelligenza e di volontà, e del corpo umano di Cristo. Ma parallelamente ha dovuto di volta in volta ricordare che la natura umana di Cristo appartiene in proprio alla Persona divina del Figlio di Dio che l'ha assunta. Tutto ciò che egli è e ciò che egli fa in essa deriva da “Uno della Trinità”. Il Figlio di Dio, quindi, comunica alla sua umanità il suo modo personale d'esistere nella Trinità. Pertanto, nella sua anima come nel suo corpo, Cristo esprime umanamente i comportamenti divini della Trinità: [Cf Gv 14,9-10 ]
Il Figlio di Dio. . . ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22].


L'anima e la conoscenza umana di Cristo

Apollinare di Laodicea sosteneva che in Cristo il Verbo aveva preso il posto dell'anima o dello spirito. Contro questo errore la Chiesa ha confessato che il Figlio eterno ha assunto anche un'anima razionale umana [Cf Damaso I, Lettera ai vescovi orientali: Denz.- Schönm., 149].

L'anima umana che il Figlio di Dio ha assunto è dotata di una vera conoscenza umana. In quanto tale, essa non poteva di per sé essere illimitata: era esercitata nelle condizioni storiche della sua esistenza nello spazio e nel tempo. Per questo il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha potuto voler “crescere in sapienza, età e grazia” (Lc 2,52) e anche doversi informare intorno a ciò che nella condizione umana non si può apprendere che attraverso l'esperienza [Cf Mc 6,38; Mc 8,27; Gv 11,34; ecc]. Questo era del tutto consono alla realtà del suo volontario umiliarsi nella “condizione di servo” (Fil 2,7).
Al tempo stesso, però, questa conoscenza veramente umana del Figlio di Dio esprimeva la vita divina della sua Persona [Cf San Gregorio Magno, Lettera Sicut aqua: Denz. -Schönm., 475].

“La natura umana del Figlio di Dio, non da sé ma per la sua unione con il Verbo, conosceva e manifestava nella Persona di Cristo tutto ciò che conviene a Dio[San Massimo il Confessore, Quaestiones et dubia, 66: PG 90, 840A]. È, innanzi tutto, il caso della conoscenza intima e immediata che il Figlio di Dio fatto uomo ha del Padre suo [Cf Mc 14,36; Mt 11,27; Gv 1,18; 473 Gv 8,55; ecc]. Il Figlio di Dio anche nella sua conoscenza umana mostrava la penetrazione divina che egli aveva dei pensieri segreti del cuore degli uomini [Cf Mc 2,8; Gv 2,25; Gv 6,61; ecc].

La conoscenza umana di Cristo, per la sua unione alla Sapienza divina nella Persona del Verbo incarnato, fruiva in pienezza della scienza dei disegni eterni che egli era venuto a rivelare [Cf Mc 8,31;Mc 9,31;Mc 10,33-34;Mc 14,18-20; 474 Mc 8,26-30 ]. Ciò che in questo campo dice di ignorare, [Cf Mc 13,32 ] dichiara altrove di non avere la missione di rivelarlo [Cf At 1,7 ].

NEL TEMPO DELL’ ”AVVENTO”



TEMPO DI AVVENTO, TEMPO DI ATTESA.

Queste sono le ragioni della nostra fede, queste le ragioni della nostra "Attesa".


Dal Catechismo della Chiesa Cattolica


“GESU' CRISTO FU CONCEPITO PER OPERA DELLO SPIRITO SANTO, NACQUE DA MARIA VERGINE”



Perché il Verbo si è fatto carne.

Il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio “che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
(1Gv 4,10)
“Il Padre ha mandato il suo Figlio come Salvatore del mondo” (1Gv 4,14).
“Egli è apparso per togliere i peccati” (1Gv 3,5)

La nostra natura, malata, richiedeva d'essere guarita; decaduta, d'essere risollevata; morta, di essere risuscitata. Avevamo perduto il possesso del bene; era necessario che ci fosse restituito. Immersi nelle tenebre, occorreva che ci fosse portata la luce; perduti, attendevamo un salvatore; prigionieri, un soccorritore; schiavi, un liberatore. Tutte queste ragioni erano prive d'importanza? Non erano tali da commuovere Dio sì da farlo discendere fino alla nostra natura umana per visitarla, poiché l'umanità si trovava in una condizione tanto miserabile ed infelice? [San Gregorio di Nissa, Oratio catechetica,]


Il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l'amore di Dio:

“In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui” (1Gv 4,9). “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).


Il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità:
“Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me. . . ” (Mt 11,29). “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della Trasfigurazione, comanda: “Ascoltatelo” (Mc 9,7) [Cf Dt 6,4-5 ]. In realtà, egli è il modello delle Beatitudini e la norma della Legge nuova: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15,12). Questo amore implica l'effettiva offerta di se stessi alla sua sequela [Cf Mc 8,34 ].


Il Verbo si è fatto carne perché diventassimo “partecipi della natura divina(2Pt 1,4):

“Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell'uomo: perché l'uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio” [Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1]. “Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio” [Sant'Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54, 3: PG 25, 192B]. “Unigenitus Dei Filius, suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo - L'Unigenito Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei” [San Tommaso d'Aquino, Opusculum 57 in festo Corporis Christi, 1].

(foto: dal web)

venerdì 12 dicembre 2008

Contro fame e povertà serve una nuova economia


La crisi alimentare è conseguenza delle speculazioni, non della mancanza di cibo. E la popolazione è una ricchezza, non l'origine della povertà, di cui troppo spesso sono i bambini a pagare le conseguenze: sono i temi fondamentali affrontati dal Papa nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace, dal titolo «Combattere la povertà, costruire la pace».


Messaggio per la Giornata della pace 2009 (11 dicembre 2009)

Papa: «Contro fame e povertà serve una nuova economia»



1. ANCHE ALL'INIZIO DI QUESTO NUOVO ANNO desidero far giungere a tutti il mio augurio di pace ed invitare, con questo mio Messaggio, a riflettere sul tema: Combattere la povertà, costruire la pace.

Già il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1993, aveva sottolineato le ripercussioni negative che la situazione di povertà di intere popolazioni finisce per avere sulla pace. Di fatto, la povertà risulta sovente tra i fattori che favoriscono o aggravano i conflitti, anche armati. A loro volta, questi ultimi alimentano tragiche situazioni di povertà. « S'afferma... e diventa sempre più grave nel mondo – scriveva Giovanni Paolo II – un'altra seria minaccia per la pace: molte persone, anzi, intere popolazioni vivono oggi in condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente, anche nelle nazioni economicamente più sviluppate. Si tratta di un problema che s'impone alla coscienza dell'umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale ».

In questo contesto, combattere la povertà implica un'attenta considerazione del complesso fenomeno della globalizzazione. Tale considerazione è importante già dal punto di vista metodologico, perché suggerisce di utilizzare il frutto delle ricerche condotte dagli economisti e sociologi su tanti aspetti della povertà. Il richiamo alla globalizzazione dovrebbe, però, rivestire anche un significato spirituale e morale, sollecitando a guardare ai poveri nella consapevole prospettiva di essere tutti partecipi di un unico progetto divino, quello della vocazione a costituire un'unica famiglia in cui tutti – individui, popoli e nazioni – regolino i loro comportamenti improntandoli ai principi di fraternità e di responsabilità. In tale prospettiva occorre avere, della povertà, una visione ampia ed articolata. Se la povertà fosse solo materiale, le scienze sociali che ci aiutano a misurare i fenomeni sulla base di dati di tipo soprattutto quantitativo, sarebbero sufficienti ad illuminarne le principali caratteristiche. Sappiamo, però, che esistono povertà immateriali, che non sono diretta e automatica conseguenza di carenze materiali. Ad esempio, nelle società ricche e progredite esistono fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale: si tratta di persone interiormente disorientate, che vivono diverse forme di disagio nonostante il benessere economico. Penso, da una parte, a quello che viene chiamato il « sottosviluppo morale » e, dall'altra, alle conseguenze negative del « supersviluppo ». Non dimentico poi che, nelle società cosiddette « povere », la crescita economica è spesso frenata da impedimenti culturali, che non consentono un adeguato utilizzo delle risorse. Resta comunque vero che ogni forma di povertà imposta ha alla propria radice il mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana. Quando l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera « ecologia umana », si scatenano anche le dinamiche perverse della povertà, com'è evidente in alcuni ambiti sui quali soffermerò brevemente la mia attenzione.


Povertà e implicazioni morali.

La povertà viene spesso correlata, come a propria causa, allo sviluppo demografico. In conseguenza di ciò, sono in atto campagne di riduzione delle nascite, condotte a livello internazionale, anche con metodi non rispettosi né della dignità della donna né del diritto dei coniugi a scegliere responsabilmente il numero dei figli 5 e spesso, cosa anche più grave, non rispettosi neppure del diritto alla vita. Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l'eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani. A fronte di ciò resta il fatto che, nel 1981, circa il 40% della popolazione mondiale era al di sotto della linea di povertà assoluta, mentre oggi tale percentuale è sostanzialmente dimezzata, e sono uscite dalla povertà popolazioni caratterizzate, peraltro, da un notevole incremento demografico. Il dato ora rilevato pone in evidenza che le risorse per risolvere il problema della povertà ci sarebbero, anche in presenza di una crescita della popolazione. Né va dimenticato che, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, la popolazione sulla terra è cresciuta di quattro miliardi e, in larga misura, tale fenomeno riguarda Paesi che di recente si sono affacciati sulla scena internazionale come nuove potenze economiche e hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all'elevato numero dei loro abitanti. Inoltre, tra le Nazioni maggiormente sviluppate quelle con gli indici di natalità maggiori godono di migliori potenzialità di sviluppo. In altri termini, la popolazione sta confermandosi come una ricchezza e non come un fattore di povertà.

Un altro ambito di preoccupazione sono le malattie pandemiche quali, ad esempio, la malaria, la tubercolosi e l'AIDS, che, nella misura in cui colpiscono i settori produttivi della popolazione, influiscono grandemente sul peggioramento delle condizioni generali del Paese. I tentativi di frenare le conseguenze di queste malattie sulla popolazione non sempre raggiungono risultati significativi.

Capita, inoltre, che i Paesi vittime di alcune di tali pandemie, per farvi fronte, debbano subire i ricatti di chi condiziona gli aiuti economici all'attuazione di politiche contrarie alla vita. È soprattutto difficile combattere l'AIDS, drammatica causa di povertà, se non si affrontano le problematiche morali con cui la diffusione del virus è collegata.

- Occorre innanzitutto farsi carico di campagne che educhino specialmente i giovani a una sessualità pienamente rispondente alla dignità della persona; iniziative poste in atto in tal senso hanno gia dato frutti significativi, facendo diminuire la diffusione dell'AIDS.

- Occorre poi mettere a disposizione anche dei popoli poveri le medicine e le cure necessarie; ciò suppone una decisa promozione della ricerca medica e delle innovazioni terapeutiche nonché, quando sia necessario, un'applicazione flessibile delle regole internazionali di protezione della proprietà intellettuale, così da garantire a tutti le cure sanitarie di base.

- Un terzo ambito, oggetto di attenzione nei programmi di lotta alla povertà e che ne mostra l'intrinseca dimensione morale, è la povertà dei bambini. Quando la povertà colpisce una famiglia, i bambini ne risultano le vittime più vulnerabili: quasi la metà di coloro che vivono in povertà assoluta oggi è rappresentata da bambini.

Considerare la povertà ponendosi dalla parte dei bambini induce a ritenere prioritari quegli obiettivi che li interessano più direttamente come, ad esempio, la cura delle madri, l'impegno educativo, l'accesso ai vaccini, alle cure mediche e all'acqua potabile, la salvaguardia dell'ambiente e, soprattutto, l'impegno a difesa della famiglia e della stabilità delle relazioni al suo interno. Quando la famiglia si indebolisce i danni ricadono inevitabilmente sui bambini. Ove non è tutelata la dignità della donna e della mamma, a risentirne sono ancora principalmente i figli.

- Un quarto ambito che, dal punto di vista morale, merita particolare attenzione è la relazione esistente tra disarmo e sviluppo. Suscita preoccupazione l'attuale livello globale di spesa militare. Come ho già avuto modo di sottolineare, capita che « le ingenti risorse materiali e umane impiegate per le spese militari e per gli armamenti vengono di fatto distolte dai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri e bisognosi di aiuto. E questo va contro quanto afferma la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna la comunità internazionale, e gli Stati in particolare, a “promuovere lo stabilimento ed il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti” (art. 26) ».

Questo stato di cose non facilita, anzi ostacola seriamente il raggiungimento dei grandi obiettivi di sviluppo della comunità internazionale. Inoltre, un eccessivo accrescimento della spesa militare rischia di accelerare una corsa agli armamenti che provoca sacche di sottosviluppo e di disperazione, trasformandosi così paradossalmente in fattore di instabilità, di tensione e di conflitti. Come ha sapientemente affermato il mio venerato Predecessore Paolo VI, « lo sviluppo è il nuovo nome della pace ».

Gli Stati sono pertanto chiamati ad una seria riflessione sulle più profonde ragioni dei conflitti, spesso accesi dall'ingiustizia, e a provvedervi con una coraggiosa autocritica. Se si giungerà ad un miglioramento dei rapporti, ciò dovrebbe consentire una riduzione delle spese per gli armamenti. Le risorse risparmiate potranno essere destinate a progetti di sviluppo delle persone e dei popoli più poveri e bisognosi: l'impegno profuso in tal senso è un impegno per la pace all'interno della famiglia umana.

- Un quinto ambito relativo alla lotta alla povertà materiale riguarda l'attuale crisi alimentare, che mette a repentaglio il soddisfacimento dei bisogni di base. Tale crisi è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da fenomeni speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze. La malnutrizione può anche provocare gravi danni psicofisici alle popolazioni, privando molte persone delle energie necessarie per uscire, senza speciali aiuti, dalla loro situazione di povertà. E questo contribuisce ad allargare la forbice delle disuguaglianze, provocando reazioni che rischiano di diventare violente. I dati sull'andamento della povertà relativa negli ultimi decenni indicano tutti un aumento del divario tra ricchi e poveri. Cause principali di tale fenomeno sono senza dubbio, da una parte, il cambiamento tecnologico, i cui benefici si concentrano nella fascia più alta della distribuzione del reddito e, dall'altra, la dinamica dei prezzi dei prodotti industriali, che crescono molto più velocemente dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime in possesso dei Paesi più poveri. Capita così che la maggior parte della popolazione dei Paesi più poveri soffra di una doppia marginalizzazione, in termini sia di redditi più bassi sia di prezzi più alti.


Lotta alla povertà e solidarietà globale.

Una delle strade maestre per costruire la pace è una globalizzazione finalizzata agli interessi della grande famiglia umana.8 Per governare la globalizzazione occorre però una forte solidarietà globale tra Paesi ricchi e Paesi poveri, nonché all'interno dei singoli Paesi, anche se ricchi. È necessario un « codice etico comune », le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano (cfr Rm 2,14-15).

Non avverte forse ciascuno di noi nell'intimo della coscienza l'appello a recare il proprio contributo al bene comune e alla pace sociale? La globalizzazione elimina certe barriere, ma ciò non significa che non ne possa costruire di nuove; avvicina i popoli, ma la vicinanza spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una vera comunione e un'autentica pace. La marginalizzazione dei poveri del pianeta può trovare validi strumenti di riscatto nella globalizzazione solo se ogni uomo si sentirà personalmente ferito dalle ingiustizie esistenti nel mondo e dalle violazioni dei diritti umani ad esse connesse. La Chiesa, che è « segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano », continuerà ad offrire il suo contributo affinché siano superate le ingiustizie e le incomprensioni e si giunga a costruire un mondo più pacifico e solidale. Nel campo del commercio internazionale e delle transazioni finanziarie, sono oggi in atto processi che permettono di integrare positivamente le economie, contribuendo al miglioramento delle condizioni generali; ma ci sono anche processi di senso opposto, che dividono e marginalizzano i popoli, creando pericolose premesse per guerre e conflitti. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il commercio internazionale di beni e di servizi è cresciuto in modo straordinariamente rapido, con un dinamismo senza precedenti nella storia. Gran parte del commercio mondiale ha interessato i Paesi di antica industrializzazione, con la significativa aggiunta di molti Paesi emergenti, diventati rilevanti. Ci sono però altri Paesi a basso reddito, che risultano ancora gravemente marginalizzati rispetto ai flussi commerciali. La loro crescita ha risentito negativamente del rapido declino, registrato negli ultimi decenni, dei prezzi dei prodotti primari, che costituiscono la quasi totalità delle loro esportazioni. In questi Paesi, per la gran parte africani, la dipendenza dalle esportazioni di prodotti primari continua a costituire un potente fattore di rischio. Vorrei qui rinnovare un appello perché tutti i Paesi abbiano le stesse possibilità di accesso al mercato mondiale, evitando esclusioni e marginalizzazioni. Una riflessione simile può essere fatta per la finanza, che concerne uno degli aspetti primari del fenomeno della globalizzazione, grazie allo sviluppo dell'elettronica e alle politiche di liberalizzazione dei flussi di denaro tra i diversi Paesi. La funzione oggettivamente più importante della finanza, quella cioè di sostenere nel lungo termine la possibilità di investimenti e quindi di sviluppo, si dimostra oggi quanto mai fragile: essa subisce i contraccolpi negativi di un sistema di scambi finanziari – a livello nazionale e globale - basati su una logica di brevissimo termine, che persegue l'incremento del valore delle attività finanziarie e si concentra nella gestione tecnica delle diverse forme di rischio. Anche la recente crisi dimostra come l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche puramente autoreferenziali e prive della considerazione, a lungo termine, del bene comune. L'appiattimento degli obiettivi degli operatori finanziari globali sul brevissimo termine riduce la capacità della finanza di svolgere la sua funzione di ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria.

Da tutto ciò emerge che la lotta alla povertà richiede una cooperazione sia sul piano economico che su quello giuridico che permetta alla comunità internazionale e in particolare ai Paesi poveri di individuare ed attuare soluzioni coordinate per affrontare i suddetti problemi realizzando un efficace quadro giuridico per l'economia. Richiede inoltre incentivi alla creazione di istituzioni efficienti e partecipate, come pure sostegni per lottare contro la criminalità e per promuovere una cultura della legalità. D'altra parte, non si può negare che le politiche marcatamente assistenzialiste siano all'origine di molti fallimenti nell'aiuto ai Paesi poveri. Investire nella formazione delle persone e sviluppare in modo integrato una specifica cultura dell'iniziativa sembra attualmente il vero progetto a medio e lungo termine. Se le attività economiche hanno bisogno, per svilupparsi, di un contesto favorevole, ciò non significa che l'attenzione debba essere distolta dai problemi del reddito. Sebbene si sia opportunamente sottolineato che l'aumento del reddito pro capite non può costituire in assoluto il fine dell'azione politico-economica, non si deve però dimenticare che esso rappresenta uno strumento importante per raggiungere l'obiettivo della lotta alla fame e alla povertà assoluta. Da questo punto di vista va sgomberato il campo dall'illusione che una politica di pura ridistribuzione della ricchezza esistente possa risolvere il problema in maniera definitiva. In un'economia moderna, infatti, il valore della ricchezza dipende in misura determinante dalla capacità di creare reddito presente e futuro. La creazione di valore risulta perciò un vincolo ineludibile, di cui si deve tener conto se si vuole lottare contro la povertà materiale in modo efficace e duraturo.

Mettere i poveri al primo posto comporta, infine, che si riservi uno spazio adeguato a una corretta logica economica da parte degli attori del mercato internazionale, ad una corretta logica politica da parte degli attori istituzionali e ad una corretta logica partecipativa capace di valorizzare la società civile locale e internazionale. Gli stessi organismi internazionali riconoscono oggi la preziosità e il vantaggio delle iniziative economiche della società civile o delle amministrazioni locali per la promozione del riscatto e dell'inclusione nella società di quelle fasce della popolazione che sono spesso al di sotto della soglia di povertà estrema e sono al tempo stesso difficilmente raggiungibili dagli aiuti ufficiali. La storia dello sviluppo economico del XX secolo insegna che buone politiche di sviluppo sono affidate alla responsabilità degli uomini e alla creazione di positive sinergie tra mercati, società civile e Stati. In particolare, la società civile assume un ruolo cruciale in ogni processo di sviluppo, poiché lo sviluppo è essenzialmente un fenomeno culturale e la cultura nasce e si sviluppa nei luoghi del civile.

Come ebbe ad affermare il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, la globalizzazione "si presenta con una spiccata caratteristica di ambivalenza" e quindi va governata con oculata saggezza. Rientra in questa forma di saggezza il tenere primariamente in conto le esigenze dei poveri della terra, superando lo scandalo della sproporzione esistente tra i problemi della povertà e le misure che gli uomini predispongono per affrontarli. La sproporzione è di ordine sia culturale e politico che spirituale e morale.

Ci si arresta infatti spesso alle cause superficiali e strumentali della povertà, senza raggiungere quelle che albergano nel cuore umano, come l'avidità e la ristrettezza di orizzonti. I problemi dello sviluppo, degli aiuti e della cooperazione internazionale vengono affrontati talora senza un vero coinvolgimento delle persone, ma come questioni tecniche, che si esauriscono nella predisposizione di strutture, nella messa a punto di accordi tariffari, nello stanziamento di anonimi finanziamenti. La lotta alla povertà ha invece bisogno di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di autentico sviluppo umano.

Conclusione.

Nell'Enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II ammoniva circa la necessità di « abbandonare la mentalità che considera i poveri – persone e popoli – come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri hanno prodotto ». « I poveri – egli scriveva - chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero ». Nell'attuale mondo globale è sempre più evidente che si costruisce la pace solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le distorsioni di sistemi ingiusti, infatti, prima o poi, presentano il conto a tutti. Solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado.

La globalizzazione da sola è incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti. In questo senso, la globalizzazione va vista come un'occasione propizia per realizzare qualcosa di importante nella lotta alla povertà e per mettere a disposizione della giustizia e della pace risorse finora impensabili.

Da sempre la dottrina sociale della Chiesa si è interessata dei poveri. Ai tempi dell'Enciclica Rerum novarum essi erano costituiti soprattutto dagli operai della nuova società industriale; nel magistero sociale di Pio XI, di Pio XII, di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II sono state messe in luce nuove povertà man mano che l'orizzonte della questione sociale si allargava, fino ad assumere dimensioni mondiali. Questo allargamento della questione sociale alla globalità va considerato nel senso non solo di un'estensione quantitativa, ma anche di un approfondimento qualitativo sull'uomo e sui bisogni della famiglia umana.

Per questo la Chiesa, mentre segue con attenzione gli attuali fenomeni della globalizzazione e la loro incidenza sulle povertà umane, indica i nuovi aspetti della questione sociale, non solo in estensione, ma anche in profondità, in quanto concernenti l'identità dell'uomo e il suo rapporto con Dio. Sono principi di dottrina sociale che tendono a chiarire i nessi tra povertà e globalizzazione e ad orientare l'azione verso la costruzione della pace. Tra questi principi è il caso di ricordare qui, in modo particolare, l'« amore preferenziale per i poveri », alla luce del primato della carità, testimoniato da tutta la tradizione cristiana, a cominciare da quella della Chiesa delle origini (cfr At 4,32-36; 1 Cor 16,1; 2 Cor 8-9; Gal 2,10).« Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi », scriveva nel 1891 Leone XIII, aggiungendo: « Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l'opera sua ». Questa consapevolezza accompagna anche oggi l'azione della Chiesa verso i poveri, nei quali vede Cristo, sentendo risuonare costantemente nel suo cuore il mandato del Principe della pace agli Apostoli: « Vos date illis manducare – date loro voi stessi da mangiare » (Lc 9,13). Fedele a quest'invito del suo Signore, la Comunità cristiana non mancherà pertanto di assicurare all'intera famiglia umana il proprio sostegno negli slanci di solidarietà creativa non solo per elargire il superfluo, ma soprattutto per cambiare « gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società ». Ad ogni discepolo di Cristo, come anche ad ogni persona di buona volontà, rivolgo pertanto all'inizio di un nuovo anno il caldo invito ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri e a fare quanto è concretamente possibile per venire in loro soccorso. Resta infatti incontestabilmente vero l'assioma secondo cui « combattere la povertà è costruire la pace ».

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2008

(fonte: Avvenire)
(foto tratta dal web)

martedì 9 dicembre 2008

L'uomo è aperto al bene ed al male


Papa Benedetto XVI ha proseguito la catechesi sugli insegnamenti di San Paolo, soffermandosi sul V Capitolo della Lettera ai Romani, nel quale l’Apostolo delle Genti, delineando le relazioni tra Adamo e Cristo, traccia “le linee essenziali della dottrina sul peccato originale”.


04 dicembre 2008

VIS
“Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo.” - ha affermato il Papa - “Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull’umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull’umanità”. “Se, nella fede della Chiesa, è maturata” - ha proseguito il Papa - “la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato del contesto salvifico, senza comprenderli ciuoè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo”.“Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci” - ha detto Papa Benedetto XVI - “Che cosa è questo peccato originale? (...) E’ ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque esiste il peccato originale o no?”.“Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale” - ha spiegato il Papa - “Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l’altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell’egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace, anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo”.“Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto. Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. (...) Questa contraddizione dell’essere umano della nostra storia deve provocare e provoca anche oggi il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto”.“Quindi il fatto dell potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l’essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. (...) Tale dualismo sarebbe insuperabile, i due principi stanno sullo stesso livello perciò ci sarà sempre, fin dall’origine dell’essere, questa contraddizione”.“Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell’essere è monistica, si suppone che l’essere come tale porta in sé dall’inizio porti in sé il male e il bene. L’essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene ed al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l’evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell’essere, una mescolanza di bene e di male”.“E’ una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. (...) Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo”.“E così ci domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede testimoniata da San Paolo?. Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. (...) Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice:. Esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce”.“Il primo mistero di luce è questo la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c’è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l’essere non è un misto di bene e di male; l’essere come tale è buono (...). Questo è il lieto annuncio della fede: c’è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita”.“Poi segue il mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell’essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata. Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso”. Il male “è in se stesso illogico”.“Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l’uomo è sanabile. (...) L’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. E’ entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nella storia”.

(fonte: Opus Dei)

domenica 7 dicembre 2008

L'Opera del Sacro Cuore.


Le parole di questo brano vorrei pubblicarle a caratteri d'Oro!!


11 Giugno 1923


Gesù al Vescovo della diocesi di Poitiers.
tramite la Serva di Dio Suor Maria Jozéfa Menéndez (Congregazione del Sacro Cuore di Gesù)

Io sono l’Amore! Il Mio Cuore non può contenere la fiamma che Lo divora!
Amo tanto le anime da dare per esse la Vita!
Per amor loro, ho voluto rimanere prigioniero nel Tabernacolo. Da venti secoli dimoro là, notte e giorno, nascosto sotto le apparenze del Pane Eucaristico, sopportando per Amore l’oblio, la solitudine, i disprezzi, le bestemmie, gli oltraggi, i sacrilegi!
Per Amore delle anime, ho istituito il sacramento della Penitenza, per donare loro il perdono, non una volta o due, ma ogni volta che avranno bisogno di recuperare la grazia. Là le attendo con amore, là desidero che vengano a lavarsi delle loro colpe, non con l’acqua, ma con il Mio Sangue.
Nel corso dei secoli, ho rivelato in diverse maniere il Mio Amore per gli uomini, ho mostrato quanto Mi consuma il desiderio della loro salvezza. Ho fatto loro conoscere il Mio Cuore! Questa devozione è stata come una luce irradiante sul mondo e, oggi, è il mezzo di cui si serve la maggior parte di coloro che lavorano alla propagazione del Mio Regno, per commuovere i cuori.
Ora, però, voglio qualche cosa di più. Non chiedo solamente di corrispondere all’Amore che Mi consuma, ma ciò che più desidero è che le anime credano alla Mia Misericordia, che aspettino tutto dalla Mia Bontà, che non dubitino MAI del Mio Perdono!
Sono Dio, ma Dio di Amore!
Sono Padre, ma un Padre che ama con tenerezza e non con severità!

Il Mio Cuore è infinitamente Santo, ma anche infinitamente sapiente e conoscendo la miseria e la fragilità umana, si china verso i poveri peccatori con una misericordia INFINITA.
Amo le anime dopo il primo peccato, se vengono a chiederMi umilmente perdono, le amo ancora dopo che hanno pianto il secondo peccato e, se cadessero, non dico un miliardo di volte, ma milioni di miliardi, Io le amo, le perdono sempre e lavo, nello stesso Mio Sangue, l’ultimo come il primo peccato.
Non mi stanco mai delle anime e il Mio Cuore aspetta continuamente che esse vengano a rifugiarsi in Lui, tanto più se sono miserabili!

Un padre non si prende forse più cura del figlio malato che di quello sano? Le sue premure e le sue delicatezze non sono forse più grandi per lui? Così il Mio Cuore effonde sui peccatori con maggiore longanimità la Sua compassione e la Sua tenerezza, più ancora che sui giusti.

Ecco ciò che desidero far sapere alle anime:

insegnerò ai peccatori che la misericordia del Mio Cuore è inesauribile;
alle anime fredde e indifferenti che il Mio Cuore è un fuoco che vuole infiammarle, che le ama;
alle anime pie e buone che il Mio Cuore è la via per progredire verso la perfezione e giungere con sicurezza al termine beato.
Infine, alle anime a me consacrate, ai sacerdoti, ai religiosi, alle anime elette e predilette, Io chiedo, ancora una volta, che Mi diano la loro fiducia e non dubitino della mia misericordia! E’ tanto facile aspettarsi tutto dal Mio Cuore!

Voglio perdonare! Voglio regnare! Voglio perdonare alle anime e alle nazioni! Voglio regnare sulle anime, sulle nazioni, sul mondo intero! Voglio diffondere la mia pace fino alle estremità della terra, ma, soprattutto, su questo suolo benedetto, culla della devozione al mio Cuore.
Io sono la sapienza e la felicità.
Sono l’amore e la Misericordia.
Sono la Pace e Regnerò!

Per cancellare l’ingratitudine del mondo, effonderò un torrente di misericordia. Per riparare le sue offese, sceglierò le vittime che otterranno perdono. Sì, ci sono nel mondo molte anime generose che Mi daranno tutto quello che posseggono, perché Io possa servirMi di loro, secondo i Miei desideri e la Mia Volontà.

Pe regnare, comincerò elargendo misericordia, poiché il Mio regno è di pace e di amore: ecco lo scopo che voglio raggiungere, ecco la Mia Opera d’Amore!

Il Mio invito lo rivolgo a tutti: alle anime consacrate e a quelle del mondo, ai giusti e ai peccatori, ai dotti e agli ignoranti, a chi comanda e a chi obbedisce. A tutti Io dico:
Se volete la felicità, Io Sono la Felicità.
Se cercate la ricchezza, Io Sono la Ricchezza senza fine.
Se bramate la Pace, Io Sono la Pace, Io Sono la Misericordia e l’Amore!
Voglio essere il vostro Re.
***
(tratto dal Libro: Invito all 'Amore edizioni Shalom)

sabato 6 dicembre 2008

Urgenza e Necessità della promozione della Legge Naturale



DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE
SUL DIRITTO NATURALE PROMOSSO
DALLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE




Lunedì, 12 febbraio 2007


Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Stimati Professori,
Gentili Signore e Signori!


E' con particolare piacere che vi accolgo all'inizio dei lavori congressuali, che vi vedranno impegnati nei prossimi giorni su un tema di rilevante importanza per l'attuale momento storico , quello della legge morale naturale. Ringrazio Mons. Rino Fisichella, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, per i sentimenti espressi nell'indirizzo con il quale ha voluto introdurre questo incontro.
E' fuori dubbio che viviamo un momento di straordinario sviluppo nella capacità umana di decifrare le regole e le strutture della materia e nel conseguente dominio dell'uomo sulla natura. Tutti vediamo i grandi vantaggi di questo progresso e vediamo sempre più anche le minacce di una distruzione della natura per la forza del nostro fare.
C'è un altro pericolo meno visibile, ma non meno inquietante : il metodo che ci permette di conoscere sempre più a fondo le strutture razionali della materia ci rende sempre meno capaci di vedere la fonte di questa razionalità, la Ragione creatrice . La capacità di vedere le leggi dell'essere materiale ci rende incapaci di vedere il messaggio etico contenuto nell'essere, messaggio chiamato dalla tradizione lex naturalis , legge morale naturale. Una parola, questa, per molti oggi quasi incomprensibile a causa di un concetto di natura non più metafisico, ma solamente empirico. Il fatto che la natura, l'essere stesso non sia più trasparente per un messaggio morale, crea un senso di disorientamento che rende precarie ed incerte le scelte della vita di ogni giorno. Lo smarrimento, naturalmente, aggredisce in modo particolare le generazioni più giovani, che devono in questo contesto trovare le scelte fondamentali per la loro vita.
E' proprio alla luce di queste constatazioni che appare in tutta la sua urgenza la necessità di riflettere sul tema della legge naturale e di ritrovare la sua verità comune a tutti gli uomini. Tale legge, a cui accenna anche l'apostolo Paolo (cfr Rm 2,14-15), è scritta nel cuore dell'uomo ed è, di conseguenza, anche oggi non semplicemente inaccessibile. Questa legge ha come suo primo e generalissimo principio quello di "fare il bene ed evitare il male". E', questa, una verità la cui evidenza si impone immediatamente a ciascuno. Da essa scaturiscono gli altri principi più particolari, che regolano il giudizio etico sui diritti e sui doveri di ciascuno. Tale è il principio del rispetto per la vita umana dal suo concepimento fino al suo termine naturale, non essendo questo bene della vita proprietà dell'uomo ma dono gratuito di Dio. Tale è pure il dovere di cercare la verità, presupposto necessario di ogni autentica maturazione della persona.
Altra fondamentale istanza del soggetto è la libertà. Tenendo conto, tuttavia, del fatto che la libertà umana è sempre una libertà condivisa con gli altri, è chiaro che l'armonia delle libertà può essere trovata solo in ciò che è comune a tutti: la verità dell'essere umano, il messaggio fondamentale dell'essere stesso, la lex naturalis appunto. E come non menzionare, da una parte, l'esigenza di giustizia che si manifesta nel dare unicuique suum e, dall'altra, l'attesa di solidarietà che alimenta in ciascuno, specialmente se disagiato, la speranza di un aiuto da parte di chi ha avuto una sorte migliore?
Si esprimono, in questi valori, norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore e neppure dal consenso che gli Stati possono ad esse prestare . Sono infatti norme che precedono qualsiasi legge umana: come tali, non ammettono interventi in deroga da parte di nessuno.
La legge naturale è la sorgente da cui scaturiscono, insieme a diritti fondamentali, anche imperativi etici che è doveroso onorare.
Nell'attuale etica e filosofia del Diritto, sono largamente diffusi i postulati del positivismo giuridico. La conseguenza è che la legislazione diventa spesso solo un compromesso tra diversi interessi: si cerca di trasformare in diritti interessi privati o desideri che stridono con i doveri derivanti dalla responsabilità sociale. In questa situazione è opportuno ricordare che ogni ordinamento giuridico, a livello sia interno che internazionale, trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge naturale, nel messaggio etico iscritto nello stesso essere umano.
La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica.
La conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell'uomo aumenta con il progredire della coscienza morale. La prima preoccupazione per tutti, e particolarmente per chi ha responsabilità pubbliche, dovrebbe quindi essere quella di promuovere la maturazione della coscienza morale. E' questo il progresso fondamentale senza il quale tutti gli altri progressi finiscono per risultare non autentici. La legge iscritta nella nostra natura è la vera garanzia offerta ad ognuno per poter vivere libero e rispettato nella propria dignità.
Quanto fin qui detto ha applicazioni molto concrete se si fa riferimento alla famiglia , cioè a quell'"intima comunità di vita e d'amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie" (Cost. past. Gaudium et spes, 48). Il Concilio Vaticano II ha, al riguardo, opportunamente ribadito che l'istituto del matrimonio "ha stabilità per ordinamento divino", e perciò "questo vincolo sacro, in vista del bene sia dei coniugi e della prole che della società, non dipende dall'arbitrio dell'uomo" (ibid.). Nessuna legge fatta dagli uomini può perciò sovvertire la norma scritta dal Creatore, senza che la società venga drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento basilare. Dimenticarlo significherebbe indebolire la famiglia, penalizzare i figli e rendere precario il futuro della società.
Sento infine il dovere di affermare ancora una volta che non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito. La tecnica, quando riduce l'essere umano ad oggetto di sperimentazione, finisce per abbandonare il soggetto debole all'arbitrio del più forte. Affidarsi ciecamente alla tecnica come all'unica garante di progresso, senza offrire nello stesso tempo un codice etico che affondi le sue radici in quella stessa realtà che viene studiata e sviluppata, equivarrebbe a fare violenza alla natura umana con conseguenze devastanti per tutti. L'apporto degli uomini di scienza è d'importanza primaria. Insieme col progredire delle nostre capacità di dominio sulla natura, gli scienziati devono anche contribuire ad aiutarci a capire in profondità la nostra responsabilità per l'uomo e per la natura a lui affidata. Su questa base è possibile sviluppare un fecondo dialogo tra credenti e non credenti; tra teologi, filosofi, giuristi e uomini di scienza, che possono offrire anche al legislatore un materiale prezioso per il vivere personale e sociale. Auspico pertanto che queste giornate di studio possano portare non solo a una maggior sensibilità degli studiosi nei confronti della legge morale naturale, ma spingano anche a creare le condizioni perché su questa tematica si arrivi a una sempre più piena consapevolezza del valore inalienabile che la lex naturalis possiede per un reale e coerente progresso della vita personale e dell'ordine sociale.
Con questo augurio, assicuro il mio ricordo nella preghiera per voi e per il vostro impegno accademico di ricerca e di riflessione, mentre a tutti imparto con affetto l'Apostolica Benedizione.
© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana