domenica 26 maggio 2013

L’Eucarestia: diritto o dono?



L’Eucarestia: diritto o dono?

Intervista con S.E. mons. Raymond L. Burke

a cura di Thomas J. McKenna

S.E. mons. Raymond L. Burke, finora arcivescovo di Saint Louis, è stato chiamato lo scorso giugno in Vaticano dal Santo Padre per dirigere il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Affrontiamo con lui il fondamentale tema del rispetto della Santa Eucaristia e degli aspetti pastorali del can. 915 del C.I.C. 

Eccellenza, sembra che oggi prevalga una visione lassista nei riguardi della ricezione dell’Eucaristia. Perché? Crede poi che questo influenzi i fedeli nel modo di vivere come cattolici?

Una delle ragioni per cui credo che questo lassismo sia andato sviluppandosi è l’insufficiente enfasi nel­la devozione eucaristica: in modo speciale median­te il culto al Santissimo con le processioni; con le be­nedizioni del Santissimo; con tempi più lunghi per l’adorazione solenne e con la devozione delle Qua­ranta Ore.

Senza devozione al Santissimo Sacramento la gente perde rapidamente la fede eucaristica. Sappia­mo che c’è una percentuale elevata di cattolici che non crede che sotto le specie eucaristiche ci siano il cor­po e il sangue di Cristo. Sappiamo inoltre esserci un’al­larmante percentuale di cattolici che non partecipa­no alla Messa domenicale.
Un altro aspetto è la perdita del senso di collega­mento fra il sacramento dell’Eucaristia e quello del­la Penitenza. Forse nel passato c’è stata un’enfasi esa­gerata al punto che la gente credeva che ogni volta che si riceveva l’Eucaristia si doveva prima confes­sare anche se non avevano un peccato mortale. Ma ora la gente va regolarmente a comunicarsi e forse mai, o molto di rado, si confessa.

Si è perso il senso della nostra propria indegnità per accostarci al Sacramento e del bisogno di confessa­re i peccati e far penitenza al fine di ricevere degna­mente la Sacra Euca­ristia.Si somma a que­sto il senso svilup­patosi a partire dal­la sfera civile che consiste nel crede­re che ricevere l’Eu­caristia sia un dirit­to. Cioè che come cattolici abbiamo il diritto di ricevere la Comunione.

È vero che una volta che siamo stati battezzati e abbiamo raggiunto l’uso della ragione, dovremmo essere preparati per riceve­re la Sacra Comunione e, se siamo ben disposti, dob­biamo riceverla. Ma d’altra parte
 noi non abbiamo mai un diritto di ricevere l’Eucaristia. Chi può rivendicare un diritto a ricevere il Corpo di Cristo? Tutto è un atto senza misure dell’amore di Dio. Nostro Signore si rende Egli stesso disponibile nel suo Corpo e nel suo Sangue, ma non possiamo mai dire di avere diritto a riceverLo nella Santa Comunio­ne. Ogni volta che ci accostiamo a Lui, dobbiamo far­lo con un senso profondo della nostra indegnità. Questi sarebbero alcuni degli elementi che spiega­no l’atteggiamento lassista verso l’Eucaristia in ge­nere. Lo vediamo anche nel modo con cui alcune per­sone vestono per ricevere la Sacra Comunione. Per esempio, vediamo gente che si avvicina alla Comu­nione senza unire le mani e persino a volte parlottan­do fra di loro. Alcuni perfino nel momento di riceve­re l’Ostia, non dimostrano un’adeguata riverenza.Tutto ciò è indicazione del bisogno di una nuova evangelizzazione nei riguardi della fede e della pra­tica eucaristica. 

Ci sono leggi della Chiesa per impedire condotte ina­deguate da parte dei fedeli a beneficio della comu­nità. Potrebbe commentarle e spiegarci fino a che punto la Chiesa e la Gerarchia hanno un obbligo di intervenire allo scopo di chiarire e correggere.

Nei riguardi dell’Eucaristia, per esempio, ci sono due canoni in particolare che hanno a che fare con la degna ricezione del Sacramento. Essi hanno come scopo due beni.Un bene è quello della persona stessa, perché rice­vere indegnamente il Corpo e il Sangue di Cristo è un sacrilegio. Se lo si fa deliberatamente in peccato mor­tale, è un sacrilegio. Quindi per il bene della perso­na stessa, la Chiesa deve istruirci dicendoci che ogni volta che riceviamo l’Eucaristia, dobbiamo prima esa­minare la nostra coscienza.Se abbiamo un peccato mortale sulla coscienza dob­biamo prima confessarci di quel peccato e ricevere l’as­soluzione e, soltanto dopo, accostarci al sacramento eucaristico. Molte volte i nostri peccati gravi sono na­scosti e noti solo a noi stessi e forse a pochi altri. In quel caso, dobbiamo essere noi a tenere sotto control­lo la situazione ed essere in grado di disciplinarci in modo di non ricevere la Comunione. Ma ci sono altri casi di persone che commettono pec­cati gravi deliberatamente e sono casi pubblici, come un ufficiale pubblico che con conoscenza e con sentimento sostiene azioni che sono contro la legge morale Divina ed Eterna. Per esempio, pubblicamente appoggia l’aborto pro­curato, che comporta la soppressione di vite umane innocenti e senza difesa. Una persona che commet­te peccato in questa maniera è da ammonire pubbli­camente in modo che non riceva la Comunione fin­ché non abbia riformato la propria vita. Se una persona che è stata ammonita persiste in un peccato mortale pubblico e si avvicina per ricevere la Comunione, allora il ministro dell’Eucaristia ha l’obbligo di rifiutargliela. Perchè? Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di compiere un sacrilegio. Ma anche per la salvezza di tutta la Chiesa, per im­pedire che ci sia scandalo in due maniere. Primo, uno scandalo riguardante quale debba esse­re la nostra disposizione per ricevere la Santa Comu­nione. In altre parole, si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di pecca­to mortale e accostarsi all’Eucaristia.Secondo, ci potrebbe essere un’altra forma di scandalo, consistente nell’indurre la gente a pensare che l’atto pubblico che questa persona sta facendo, che finora tutti credono sia un peccato serio, non debba esserlo tanto se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la Comunione. Se abbiamo una figura pubblica che apertamente e deliberatamente sostiene i diritti abortisti e che ri­ceve l’Eucaristia, che finirà per pensare la gente co­mune?
Essa può essere portata a credere che è cor­retto in un certo qual modo sopprimere una vita in­nocente nel seno materno. Ora la Chiesa ha queste discipline e sono molto antiche. In realtà risalgono ai tempi di san Paolo. Ma lungo la sua storia, la Chiesa ha sempre dovuto di­sciplinare la materia della ricezione della Comunio­ne, che è il più sacro tesoro che essa possiede.È il dono del Corpo e del Sangue di Cristo. Di­sciplinare questa pratica in modo che, primo, la gen­te non si avvicini né riceva la Santa Comunione in­degnamente a costo del proprio danno morale e, se­condo, che la fede eucaristica sia sempre rispetta­ta e i fedeli non siano indotti in confusione, persi­no in errore, nei riguardi della sacralità del sacra­mento e della legge morale. Eccellenza ci sono casi in cui figure pubbliche van­no a Messa e ricevono i sacramenti e pubblicamen­te dicono di essere cattolici ma che in pratica so­stengono legislazioni contrarie alla morale cattolica. Alcuni di loro, come scusante, sostengono di sen­tire in coscienza che non fanno niente di sbagliato e che comunque è una vicenda privata. Lei potreb­be spiegare perché questa posizione è erronea e come la formazione della propria coscienza non sia una questione soggettiva. È vero che dobbiamo agire in modo conforme ai dettami della nostra coscienza, ma essa deve essere adeguatamente formata. La nostra coscienza deve con­formarsi alla verità delle situazioni. Essa non è una realtà soggettiva con cui giudico per me stesso cosa è bene e cosa è male. Anzi, essa è una realtà oggettiva per la quale devo conformare il mio pensiero alla verità.A volte si sente parlare del primato della coscien­za nel senso di dire “qualsiasi cosa io decida in co­scienza, questo devo fare”, e un tale assioma poi re­gola la vita. Certo, questo è vero se la coscienza è sta­ta formata adeguatamente.
Amo ripetere quello che ha detto il cardinale George Pell, arcivescovo di Syd­ney: “anziché parlare di prima­to della coscienza dobbiamo parlare di primato della verità”. Cioè, la verità della legge mo­rale di Dio con la quale la no­stra coscienza deve conformar­si. Fatto questo, allora sì che la coscienza ha quel primato che le viene attribuito.

 Alcune persone dicono che è parte del diritto di ricevere la Comunione non sentirsi dire da nessuno, neppure da un ve­scovo, da un sacerdote o da un ministro dell’Eucaristia, cosa devono fare al riguardo. Cosa ne pensa? 

Anzitutto bisogna dire che il Corpo e il Sangue di Cristo sono un dono dell’amore di Dio per noi. Il più grande dono, un dono che va oltre la nostra ca­pacità di descriverlo. Dunque nessuno ha diritto a questo dono, esattamente come non ab­biamo mai diritto a nessun dono che ci viene fatto.
Un dono è gratuito, causato dall’amore, e ciò è precisa­mente quanto Dio fa ogni vol­ta che partecipiamo alla Messa e riceviamo la Sacra Eucaristia. Pertanto, dire che abbiamo di­ritto di ricevere la Comunione non è corretto.
Se vogliamo dire che, se sia­mo ben disposti, possiamo ac­costarci all’Eucaristia nella Messa che si sta celebrando, che abbiamo il diritto di ricevere la Comunione nel senso che abbiamo il diritto di avvi­cinarci per farlo, allora sì, questo è vero.
Orbene, nella ricezione della Sacra Eucaristia sono coinvolti Nostro Signore stesso, la persona che deve ricevere, e infine il ministro del sacramento, che ha la responsabilità di assicurarsi che l’Eucaristia sia data solo alle persone degne di riceverla. Certamente la Chiesa ha il diritto di dire a chi persiste in serio peccato pubblico, che non potrà ricevere la Comunione finché non sarà ben disposto per farlo. Questo diritto del ministro di rifiutarsi a dare la Comunione a qualcuno che persiste nel peccato grave e pubblico è salvaguardato dal codice di Diritto Canonic­o sotto il canone 915. Altrimenti, se si vede nega­to il diritto del rifiuto a dare l’Eucaristia a un pecca­tore pubblico che si avvicini a riceverla dando scandal­o a tutti, è il ministro che viene messo in situazio­ne di violentare la propria coscienza al riguardo di una materia serissima. Ciò sarebbe semplicemente sba­gliato.


Eccellenza, sembra che spesso la richiesta di adem­pire la legge canonica da parte di un vescovo, di un sacerdote e persino di un’autorità della Curia Vati­cana, è vista da alcuni come una crudeltà, come un atto prevaricatore nei riguardi dei fedeli. Non vedo­no questo come un atto di carità, finalizzato a evi­tare che qualcuno si accosti all’Eucaristia in modo indegno compromettendo la sua salvezza eterna. Per questa ragione la Chiesa ha le sue regole. Potrebbe commentare questo aspetto del ministero?
Sono d’accordo, certo. E il più grande atto di cari­tà evitare che qualcuno faccia una cosa sacrilega. Pri­ma si deve ammonire chi vuole farlo e poi si deve evi­tare di prendere parte a un sacrilegio.
E una situazione analoga a quella del genitore che deve opporsi a che il bambino giochi col fuoco. A chi verrebbe di dire che il genitore non è caritatevole per­ché lo richiama alla disciplina? Anzi, diremmo che que­sto è un genitore che veramente ama il figlio.
Lo stesso fa la Chiesa; nel suo amore Essa vieta di far cose gravemente offensive a Dio e gravemente dan­nose alle anime stesse.


Si dice a volte che quando un membro della Gerar­chia ammonisce cattolici che sono figure pubbliche, stia usando la sua influenza per interferire nella po­litica. Come risponde a questa obiezione?
Il vescovo o l’autorità ecclesiastica, potrebbe esse­re anche il parroco, che interviene in queste situazio­ni, lo fa solo per il bene dell’anima della figura pub­blica coinvolta. Non c’entra nulla la volontà di inter­ferire nella vita pubblica, bensì nello stato spirituale del politico o dell’ufficiale pubblico che, se è catto­lico, è tenuto a seguire la legge divina anche nella sfe­ra pubblica. Se non lo fa, deve essere ammonito dal suo pastore.
Dunque, è semplicemente ridicolo e sbagliato cer­care di zittire un pastore accusandolo di interferire in politica affinché non possa fare il bene all’anima di un membro del suo gregge.
Questo si desume anche da quanto ha denuncia­to il Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi, cioè il desiderio di alcune persone della nostra società di relegare completamente la fede religiosa nell’am­bito privato, affermando che essa non ha niente a che fare con l’ambito pubblico. Questo è semplice­mente sbagliato.
Dobbiamo dare testimonianza della nostra fede non soltanto nel privato dei nostri focolari ma anche nel nostro interagire pubblico con gli altri, per dare una forte testimonianza di Cristo. Quindi dobbiamo finir­la con l’idea che in un certo qual modo la nostra fede è una materia completamente privata che non c’entra con la nostra vita pubblica.


(pubblicato in Fede e teologia, 3(2008), 40-44)


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