giovedì 19 febbraio 2009

Don Jerzy Popieluszko il «cappellano di Solidarnosc».


Don Jerzy Popieluszko e l'eroismo della Chiesa polacca


di Vincenzo Merlo
- 20 gennaio 2007


«La Chiesa polacca è una Chiesa coraggiosa, una Chiesa fedele anche se ha vissuto, come abbiamo notato anche noi, dei momenti di incertezza, dei momenti anche di compromesso e in cui è stata vittima, proprio per le sopraffazioni che ha subito. La Chiesa polacca e la società polacca vivono momenti di sofferenza, dei momenti di drammaticità nella retrospettiva sulla sua storia recente. La Polonia è stata una nazione che ha sofferto durante tutta la storia per gli opposti estremismi e gli opposti regimi che l'hanno martoriata; ne vediamo ancora le tracce oggi».
Così il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato di Benedetto XVI, a commento delle dimissioni di monsignor Wielgus. La presa di posizione del cardinal Bertone rimette sui giusti binari una polemica che rischiava altrimenti di fuorviare una verità storica lampante: le Chiese dell'Est, a partire proprio da quella polacca, hanno subito persecuzioni durissime sotto il regime comunista e il sangue di tanti martiri cristiani è stato versato per testimoniare la fede.Un esempio per tutti: il sacrificio di don Jerzy Popieluszko, il «cappellano di Solidarnosc».
Nato il 14 settembre 1947 a Okopy, nella provincia di Bialystock, fu ordinato sacerdote dal cardinal Wyszynsky nel maggio del 1972 e quindi destinato alla parrocchia di San Stanislao Kostka, nel quartiere operaio di Zoliborz a Varsavia. Il 19 ottobre 1984 don Popieluszko venne sequestrato e assassinato da tre agenti dei servizi segreti che, dopo averlo massacrato di botte, lo gettarono nelle acque gelide della Vistola. A dare la notizia del rapimento fu l'autista di don Jerzy, Chrostowsky, che riuscì ad uscire dall'auto dei sequestratori e a dileguarsi nel bosco.
La Polonia rimase col fiato sospeso per due settimane, nella speranza che il sacerdote fosse ancora vivo. Fino a quando, il 27 ottobre, il capitano Piotrowski confessò: «L'ho ucciso io, con le mie mani». Il corpo verrà poi ritrovato nel lago artificiale formato dalla diga di Wloclawek, un centinaio di chilometri a nord di Varsavia. Il clamore che seguì all'evento fu enorme e travalicò i confini nazionali; può ben dirsi che quell'assassinio pose le premesse per la fine del regime in Polonia. Il nome di Popieluszko, definito dal portavoce del governo comunista, Jerzy Urban, «un fanatico politico, un Savonarola dell'anticomunismo, un tipico esempio dell'anticlericalismo militante», era stato inserito (insieme ad altri sacerdoti vicini a Solidarnosc), in una lista nera che venne sottoposta alle autorità ecclesiastiche in vista di una espulsione. Per don Jerzy si profilava un periodo di studio a Roma, lontano dagli operai delle acciaierie Huta Warszawa ai quali era stato assegnato come cappellano dopo l'agosto 1980, data di nascita di Solidarnosc. Ma intervenne il Vaticano e don Popieluszko rimase al suo posto.
Perché quel sacerdote di 37 anni, dal viso da ragazzo ma con una volontà di ferro e una passione per la verità, era diventato un simbolo per i polacchi e così scomodo per il regime? Oltre al lavoro parrocchiale, don Jerzy svolgeva il suo ministero tra gli operai organizzando conferenze, incontri di preghiera, assistendo ammalati, poveri, perseguitati. «Una volta al mese - ha scritto Luigi Geninazzi su Avvenire del 19 ottobre 2004 - celebrava la "Messa per la patria", una tradizione che risaliva all'Ottocento quando la Polonia senza Stato difendeva la sua identità rifugiandosi sotto il manto della Chiesa cattolica. "Poiché con l'instaurazione della legge marziale (introdotta nel 1981) ci è stata tolta la libertà di parola, ascoltiamo la voce del nostro cuore e della nostra coscienza", diceva, invitando i polacchi "a vivere nella verità dei figli di Dio, non nella menzogna imposta dal regime". A conclusione delle Messe per la patria chiedeva ai fedeli di pregare "per coloro che sono venuti qui per dovere professionale", mettendo in imbarazzo gli spioni dell'Sb, il servizio di sicurezza». «Avevano deciso di fargliela pagar cara - conclude Geninazzi -.
Iniziarono con le minacce, seguirono con le perquisizioni che portarono all'ordine d'arresto per il "prete sovversivo". Fino a quando, la notte del 19 ottobre, gli maciullarono la bocca dopo avergli fracassato il cranio a colpi di manganello. Un delitto compiuto con ferocia bestiale. I mandanti non furono mai giudicati. Gli imputati vennero condannati ma ebbero la pena ridotta e sono già usciti tutti dal carcere. Don Jerzy continua a vivere: sulla sua tomba si recano in pellegrinaggio milioni di persone che lo venerano come il testimone della resistenza morale e spirituale della nazione polacca. Eroe della libertà e testimone della fede, don Popieluszko ci appare come "l'autentico profeta dell'Europa, quella che afferma la vita attraverso la morte", ha detto Giovanni Paolo II».
Proprio durante il viaggio apostolico in Polonia, nel giugno 1987, il Papa «venuto dall'Est» così ricordò la profetica testimonianza del sacerdote ucciso dal regime: «Grazie alla morte e risurrezione di Cristo - diceva don Jerzy Popieluszko - il simbolo dell'ignominia e dell'umiliazione è divenuto un simbolo di coraggio, di fortezza, di aiuto e di fratellanza. Nel segno della croce oggi presentiamo ciò che vi è di più bello e di più prezioso nell'uomo. Attraverso la croce si va verso la risurrezione. Non vi è un'altra via. Perciò le croci della nostra patria, le nostre croci personali, quelle delle nostre famiglie, devono condurre alla vittoria, alla risurrezione, se noi le uniamo con Cristo». Dopo poco più di due anni da quelle parole di Giovanni Paolo II, la Polonia, e con essa tutta l'Europa orientale, si sarebbe liberata dalla tirannia comunista.

Vincenzo Merlo

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