20 Febbraio 2009
INTERVISTA
«Ecco i nostri 100 giorni di prigionia»
Ieri sera, finalmente la prima Messa nel raccoglimento della comunità missionaria di Nairobi. Dopo 102 giorni per Suor Caterina Giraudo e Suor Maria Teresa Olivero è veramente finita.
Suor Caterina e suor Maria Teresa, quale gesto, quale sensazione vi ha dato il sapore della libertà ritrovata?
Suor Caterina:«Poter parlare con persone che conosciamo e che usano il nostro stesso linguaggio, con cui ci comprendiamo su tutte le linee: questa è una sensazione straordinaria. Dà proprio il senso della libertà».
Quel è stato il momento peggiore? Forse quando, armi in pugno, vi hanno prelevato a El-Wak?
Suor Caterina: «Quando ci hanno rapite non ci siamo quasi rese conto: è stato un momento brevissimo, un enorme trambusto. L’ho vissuto come fossi incosciente. Poi, quando tutto si è fermato allora ci siamo rese conto: eravamo perse».
Quando lo avete capito?
Suor Maria Teresa: «Una volta che ci siamo trovate chiuse in una macchina. Fino a quel momento speravamo ancora: abbiamo chiesto aiuto, gridato a tutta voce. Ma nessuno poteva aiutarci ed è stato meglio così perché la situazione poteva essere molto più tragica».
Chi erano i vostri carcerieri? Come erano le giornate di prigionia con loro?
Suor Caterina: «Abbiamo passato la maggior parte del tempo in una casa in muratura, chiuse in una stanza decente, abbastanza decorosa e pulita: in genere ben illuminata e arieggiata. Per un periodo sono stati solo tre i guerriglieri che si davano il cambio. Poi se ne sono aggiunti altri tre. Per la maggior parte del tempo, quindi, sono stati in sei. Due o tre erano sempre presenti nella nostra stanza. Ma di notte si radunavano tutti e uno di loro loro vegliava con il fucile al fianco. Nelle ultime tre o quattro settimane i nostri guardiani erano un po’ più lontani: non erano più sulla porta, ma pochi metri distanti. Allora ci siamo sentite un po’ più rilassate».
Suor Maria Teresa: «Non facevano nulla di speciale, ma erano dei giovani che giocavano fra di loro, giocavano con i fucili: a volte era veramente pesante, ma nello stesso tempo, per noi, era anche un po’ un diversivo».
Quando avete capito che c’era stato un contatto. È vero che avete saputo degli appelli del Papa?
Suor Maria Teresa: «Sin dal primo momento ci siamo dette: la nostra comunità inizierà a pregare per noi e chissà quanti ci penseranno. Eravamo sicure di questo, ma non avremmo mai immaginato la solidarietà che abbiamo scoperto solo adesso».
Suor Caterina: «Del Papa lo abbiamo saputo da una telefonata alle nostre sorelle che siamo riuscite a ottenere dai rapitori. Chi rispose ci disse: avete mezzo mondo che prega per voi, persino il Papa».
Qual il momento peggiore?
Suor Caterina: «Sono stati tanti... ma l’angoscia saliva in particolare quando i rapitori ci facevano parlare con la “parte italiana”: erano emozioni incredibili, indimenticabili. Eravamo sotto fortissima pressione: i rapitori, erano tutti lì, davanti a noi a farci segno che ci avrebbero uccise se non arrivavano i soldi. Poi per quattro o cinque settimane non siamo riuscite a strappare una sola notizia: non sapevamo se avessero parlato o meno con l’ambasciata. Ogni notizia, ogni cenno ci rasserenava anche se assolutamente non potevamo verificare alcunché. Riuscire a sapere qualcosa ci sollevava immensamente.
Tre mesi di angoscia e di preghiera. Quale pensiero ricorrente nel colloquio con Dio
Suor Caterina: «La certezza della presenza di Dio con noi, che era prigioniero, che soffriva con noi e ci sosteneva. Anche l’amore a Maria Santissima ci ha molto aiutato, abbiamo pregato tanto il Rosario insieme.
Ogni missionario, prima di partire, riceve la croce come sua sola compagna di viaggio. Avevate mai pensato a questo genere di sofferenza?
Suor Caterina: «No, mai, non abbiamo mai avuto il minimo dubbio che potesse accadere. Pensavamo ad altri pericoli, mai a questo».
Che sentimento provate ora verso i vostri carcerieri?
Suor Caterina: «Fin dal primissimo istante abbiamo avuto un sentimento di perdono e di accoglienza, mai di ribellione, di rifiuto. Questo è stato un grande dono: ci ha aiutato a stabilire rapporti il più possibile buoni. Cercavamo di rassicurarli, continuavamo a ringraziarli per le loro attenzioni verso di noi. E poi ci ha aiutato molto pensare alla pagina del Vangelo che insegna l’amore per i proprio nemici. Il Signore ci ha liberati anche dal sentimento di odio».
Perché, secondo voi, vi hanno rapito?
Suor Caterina: «Per il poco che capivamo penso che volessero solo i soldi»
Tornerete in missione?
Suor Caterina: «Siamo membri di una comunità verso cui siamo sempre disponibili. In questo momento non possiamo dire nulla di più sul nostro futuro».
Suor Caterina e suor Maria Teresa, quale gesto, quale sensazione vi ha dato il sapore della libertà ritrovata?
Suor Caterina:«Poter parlare con persone che conosciamo e che usano il nostro stesso linguaggio, con cui ci comprendiamo su tutte le linee: questa è una sensazione straordinaria. Dà proprio il senso della libertà».
Quel è stato il momento peggiore? Forse quando, armi in pugno, vi hanno prelevato a El-Wak?
Suor Caterina: «Quando ci hanno rapite non ci siamo quasi rese conto: è stato un momento brevissimo, un enorme trambusto. L’ho vissuto come fossi incosciente. Poi, quando tutto si è fermato allora ci siamo rese conto: eravamo perse».
Quando lo avete capito?
Suor Maria Teresa: «Una volta che ci siamo trovate chiuse in una macchina. Fino a quel momento speravamo ancora: abbiamo chiesto aiuto, gridato a tutta voce. Ma nessuno poteva aiutarci ed è stato meglio così perché la situazione poteva essere molto più tragica».
Chi erano i vostri carcerieri? Come erano le giornate di prigionia con loro?
Suor Caterina: «Abbiamo passato la maggior parte del tempo in una casa in muratura, chiuse in una stanza decente, abbastanza decorosa e pulita: in genere ben illuminata e arieggiata. Per un periodo sono stati solo tre i guerriglieri che si davano il cambio. Poi se ne sono aggiunti altri tre. Per la maggior parte del tempo, quindi, sono stati in sei. Due o tre erano sempre presenti nella nostra stanza. Ma di notte si radunavano tutti e uno di loro loro vegliava con il fucile al fianco. Nelle ultime tre o quattro settimane i nostri guardiani erano un po’ più lontani: non erano più sulla porta, ma pochi metri distanti. Allora ci siamo sentite un po’ più rilassate».
Suor Maria Teresa: «Non facevano nulla di speciale, ma erano dei giovani che giocavano fra di loro, giocavano con i fucili: a volte era veramente pesante, ma nello stesso tempo, per noi, era anche un po’ un diversivo».
Quando avete capito che c’era stato un contatto. È vero che avete saputo degli appelli del Papa?
Suor Maria Teresa: «Sin dal primo momento ci siamo dette: la nostra comunità inizierà a pregare per noi e chissà quanti ci penseranno. Eravamo sicure di questo, ma non avremmo mai immaginato la solidarietà che abbiamo scoperto solo adesso».
Suor Caterina: «Del Papa lo abbiamo saputo da una telefonata alle nostre sorelle che siamo riuscite a ottenere dai rapitori. Chi rispose ci disse: avete mezzo mondo che prega per voi, persino il Papa».
Qual il momento peggiore?
Suor Caterina: «Sono stati tanti... ma l’angoscia saliva in particolare quando i rapitori ci facevano parlare con la “parte italiana”: erano emozioni incredibili, indimenticabili. Eravamo sotto fortissima pressione: i rapitori, erano tutti lì, davanti a noi a farci segno che ci avrebbero uccise se non arrivavano i soldi. Poi per quattro o cinque settimane non siamo riuscite a strappare una sola notizia: non sapevamo se avessero parlato o meno con l’ambasciata. Ogni notizia, ogni cenno ci rasserenava anche se assolutamente non potevamo verificare alcunché. Riuscire a sapere qualcosa ci sollevava immensamente.
Tre mesi di angoscia e di preghiera. Quale pensiero ricorrente nel colloquio con Dio
Suor Caterina: «La certezza della presenza di Dio con noi, che era prigioniero, che soffriva con noi e ci sosteneva. Anche l’amore a Maria Santissima ci ha molto aiutato, abbiamo pregato tanto il Rosario insieme.
Ogni missionario, prima di partire, riceve la croce come sua sola compagna di viaggio. Avevate mai pensato a questo genere di sofferenza?
Suor Caterina: «No, mai, non abbiamo mai avuto il minimo dubbio che potesse accadere. Pensavamo ad altri pericoli, mai a questo».
Che sentimento provate ora verso i vostri carcerieri?
Suor Caterina: «Fin dal primissimo istante abbiamo avuto un sentimento di perdono e di accoglienza, mai di ribellione, di rifiuto. Questo è stato un grande dono: ci ha aiutato a stabilire rapporti il più possibile buoni. Cercavamo di rassicurarli, continuavamo a ringraziarli per le loro attenzioni verso di noi. E poi ci ha aiutato molto pensare alla pagina del Vangelo che insegna l’amore per i proprio nemici. Il Signore ci ha liberati anche dal sentimento di odio».
Perché, secondo voi, vi hanno rapito?
Suor Caterina: «Per il poco che capivamo penso che volessero solo i soldi»
Tornerete in missione?
Suor Caterina: «Siamo membri di una comunità verso cui siamo sempre disponibili. In questo momento non possiamo dire nulla di più sul nostro futuro».
Luca Geronico
(Fonte: Avvenire)
(Fonte: Avvenire)
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