(....) di Daniele di Sorco
Roberto De Mattei in Piazza San Pietro. Già fondatore di "Lepanto", è da sempre un sostenitore della Tradizione cattolica. Il sacerdote che gli è vicino ne è la prova.
Roberto De Mattei in Piazza San Pietro. Già fondatore di "Lepanto", è da sempre un sostenitore della Tradizione cattolica. Il sacerdote che gli è vicino ne è la prova.
1) IL MALE VIENE DAL PECCATO NON DA DIO. Per quanto riguarda il contenuto, l’intervento di De Mattei non ha nulla di eterodosso, anzi rispecchia in pieno la dottrina cattolica di sempre. In esso non si afferma che il terremoto del Giappone è necessariamente un castigo divino. Si dice semplicemente che gli eventi naturali – fausti o infausti che siano – dipendono in ultima analisi dalla causalità divina, che può permettere il male in vista di un maggior bene. Tale male può configurarsi anche (non soltanto) come una punizione, un ammonimento, non rivolto alle persone coinvolte, come se esse soltanto fossero peccatrici, ma all’umanità in generale. Che la radice morale del male sia il peccato, nel senso che è il peccato originale ad aver segnato l’ingresso del male nel mondo, è il dogma fondamentale della fede cattolica. Altrimenti dovremmo ritenere che il male è stato positivamente voluto da Dio, il che ripugna. Né possiamo pensare, in senso meccanicistico, che Dio abbia creato il mondo con le sue leggi per poi disinteressarsene, per cui lo svolgersi degli eventi naturali avverrebbe indipendentemente da Lui. Le cause naturali spiegano il come certe eventi si sono prodotti, non spiegano perché si sono prodotti, non spiegano la causa morale del fenomeno e il significato che esso assume nell’esistenza umana. Un Dio che crea il suo giocattolo imperfetto e poi gli dà la via, lasciandolo funzionare, non è un Dio onnipotente (perché il meccanismo è retto dal caso), né un Dio provvidente (visto che abbandona le sue creature ad un male fine a se stesso). Quindi dire che le catastrofi naturali, come tutti gli altri mali, sono permessi da Dio in vista di un maggior bene, cioè per la salvezza dell’anima, non solo è conforme alla dottrina cattolica, ma rispecchia l’assoluta bontà e onnipotenza di Dio. Certo, il perché certe volte la Provvidenza divina agisca in un certo modo ora ci sfugge: lo capiremo nell’altra vita. Ma ciò su cui si può essere sicuri è che essa agisca sempre per il meglio, sia di noi come singoli, sia dell’umanità in quanto ente collettivo.
Precisiamo questi concetti alla luce della Sacra Scrittura e della sacra Tradizione. A noi sfugge il perché dei singoli avvenimenti, ma non sfugge – in quanto cristiani – che i singoli avvenimenti hanno un perché. Alla luce del fine verso cui Dio ordina le vicende della storia, noi possiamo tentare di dare una spiegazione del perché di qualcosa, a patto che ciò avvenga a modo di ipotesi e con la consapevolezza che possiamo cogliere soltanto una minima porzione del problema, mentre la spiegazione completa la contempleremo in Dio solo nell’altra vita. Però bisogna ribadire con forza, con S. Agostino, che “non fit aliquid, nisi Omnipotens fieri velit, vel sinendo ut fiat, vel ipse faciendo” (Enchiridion, 95: ML 40, 276). Se infatti le cose materiali non dipendessero, in ultima analisi, da Dio, Dio non sarebbe onnipotente. Se invece dipendessero da Dio ma non fossero ordinate ad un fine buono (anche se a noi talora ignoto), Dio non sarebbe provvido. La Sacrae Theologiae Summa pubblicata dai Gesuiti spagnoli nel 1950 enuncia la tesi: “Universa quae condidit Deus providentia sua gubernat; eamque non effugiunt mala, nec physica, nec moralia”; e la classifica “De fide divina, catholica et definita” (Sacrae Theologiae Summa, Matriti, tom. II, ed. IV, 1962, pp. 168-170). Si tratta di un vero e proprio dogma. Del resto, l’universale provvidenza di Dio è stata sempre professata dalla Chiesa. I Padri scrissero opere su opere contro il fatalismo dei pagani. Sant’Agostino vi dedicò un intero libro, il “De civitate Dei”, senza timore di essere non compreso dai pagani o di urtare la sensibilità dei romani, che certo non venivano messi in ottima luce. Nella stessa direzione si mosse il Magistero ecclesiastico. Innocenzo III, nella professione di fede prescritta ai Valdesi, insegna che l’universalità della provvidenza appartiene al deposito della fede. E il Concilio Vaticano I, riecheggiando S. Agostino, definì: “Universa vero quae condidit Deus providentia sua gubernat”.
Quanto al male – e per male qui si intende anzitutto il male morale e poi il male fisico – la teologia cattolica insegna che esso è conseguenza del peccato. “Stipendium peccati mors” (Rom. 6, 23). Ovviamente non ci si riferisce soltanto ai peccati attuali del singolo, ma anche e in primo luogo al peccato originale, causa di tutti gli altri peccati: “Sicut per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et ita per peccatum mors, et ita in omnes homines mors pertransit, in quo [= quia] omnes peccaverunt” (Rom. 5, 12). E ancora: “Unius delicto mors regnavit per unum” (Rom. 5, 17), “per unius delictum in omnes homines condemnationem” (Rom. 5, 18). Dio non ha destinato l’uomo, neppure parzialmente, alla morte, al male e alla sofferenza, imperfezioni, queste, del tutto estranee allo stato di grazia ed innocenza in cui si trovavano i nostri progenitori. È col peccato che l’uomo, in quanto uomo, ha meritato la decadenza da questo stato, con tutto ciò che ne consegue: morte, sofferenza, male. Ma la misericordia di Dio è stata talmente grande da voler essa stessa riparare il nostro torto mediante l’incarnazione e il sacrificio del Verbo, che non ha tolto la pena temporale che meritiamo per il peccato, ma ha rimosso la pena eterna, ossia la privazione della visione beatifica. Ed è questo che veramente conta, visto che il vero male, il male per eccellenza, è il mancato raggiungimento del proprio fine ultimo. “Sed non sicut delictum, ita et donum; si enim unius delicto multi mortui sunt, multo magis gratia Dei et donum in gratia unius hominis Iesu Christi in plures abundavit. Et non sicut unum peccatum, ita et donum; nam iudicium quidem ex uno in condemndationem, gratia autem ex multis delictis in iustificationem” (Rom. 5, 15-16).
Se la morte, radice ed essenza del male morale, è conseguenza del peccato, e precisamente del peccato originale, non si vede per quale ragione il male fisico dovrebbe dipendere da altre cause; né si vede perché le calamità individuali e collettive non possano essere concepite anche nella prospettiva di un castigo, alla luce dei principi teologici che abbiamo esposto sopra. Del resto, l’antico Testamento ridonda di punizioni positivamente permesse da Dio in vista della conversione del suo popolo o di qualche persona in particolare, o ancora come esempio da lasciare ai posteri. Alcuni hanno obiettato che il nuovo Testamento modificherebbe radicalmente questo concezione. Ma un simile modo di pensare tradisce un’erronea nozione sia del valore della rivelazione mosaica sia del rapporto tra essa e il messaggio evangelico. I libri dell’antico Testamento, infatti, sono divinamente ispirati, al pari di quelli del nuovo. Pertanto la concezione dell’uomo, della natura, di Dio, che si trova espressa in essi, non dipende dalle elucubrazioni puramente umane – e quindi opinabili e discutibili – degli scrittori ebrei, ma è frutto della divina rivelazione. Certo, si tratta di una concezione ancora imperfetta. Gesù, come Egli stesso ha affermato, è venuto per compiere la legge, non per abolirla. Del resto, pensare che Dio si contraddica, rivelando prima qualcosa e poi successivamente smentendolo, non ha alcun senso. L’antico e il nuovo Testamento non sono opposti, ma complementari. Metterli in contrapposizione quanto alla sostanza della dottrina, significa cadere nell’errore degli antichi gnostici, i quali giungevano a sostenere che il Dio dell’antico Testamento fosse diverso dal Dio del nuovo. Nello specifico del caso che stiamo trattando, la rivelazione evangelica conferma in pieno quella mosaica, sia pur inserendola nella dimensione della Grazia. Oltre alle affermazioni di san Paolo sopra menzionate, si può ricordare l’episodio della guarigione del cieco nato, che qualcuno ha utilizzato per insinuare una presunta discontinuità tra la dottrina mosaica e quella evangelica. In realtà il passo, considerato nel suo vero senso, dimostra esattamente il contrario. Si dice infatti che il cieco non è cieco per peccati commessi da lui o dai genitori, ma si dice al contempo che Dio ha permesso questa ciecità perché si manifestasse appieno la sua gloria. Quindi Gesù non separa le cause seconde dalla causa prima, ma le connette nella prospettiva provvidenziale che aveva costituito il fondamento della religione mosaica e che continua a costituire il punto essenziale della religione cristiana.
Del resto, un Dio che non ha il controllo della natura da Lui stesso creata o che permette il male senza colpa morale da parte dell’uomo (ossia, in ultima analisi, senza il peccato originale), in che modo sarebbe più conforme alla concezione evangelica di misericordia e di amore? A noi sembra piuttosto che, in questo modo, si torni ad una concezione pagana della divinità, non onnipotente, non provvida e invece sottoposta, come tutto l’esistente, ad un fato cieco, capriccioso ed inesorabile. La dottrina tradizionale, al contrario, si accorda pienamente con l’assoluta onnipotenza e bontà divina, poiché tutto fa dipendere da Lui, e tutto – anche il male – riconduce alla volontà di provvedere al vero bene dell’uomo, ossia alla salvezza eterna. Tale volontà, com’è normale che sia, si esplica anche attraverso correzioni, ammonimenti, veri e propri castighi. Non dobbiamo aver timore di usare questa parola, visto che l’ha impiegata, più volte, la Madonna a Fatima. Sarebbe un buon padre, quello che non punisce mai i suoi figli, anche quando ce n’è bisogno? E sarebbe un buon padre colui che non ricorda ai suoi figli in che cosa consista il vero bene, che è la visione beatifica nel Paradiso? Dalla risposta, ovvia, a queste domande, si capisce facilmente come la dottrina tradizionale cattolica, efficacemente riproposta da De Mattei, non solo non contraddice all’infinito amore di Dio, ma ne è la sua diretta e necessaria conseguenza.
“OPPORTUNITÀ” O INERZIA?
Quando il mondo era ancora "cristiano" così vedeva anche il terromoto: in termini di Provvidenza divina
2) SE I CATTOLICI RINUNCIANO A SPIEGARE IN PUBBLICO LA LORO DOTTRINA. Vi sono alcuni, poi, che hanno sollevato un problema di opportunità. Secondo costoro, ciò che dice De Mattei è giusto, ma bisognerebbe guardarsi dall’affermarlo troppo chiaramente in pubblico, per evitare lo scandalo o la meraviglia di chi, essendo lontano dalla fede, non può comprendere fino in fondo la questione.
Ammettiamo il presupposto: la dottrina cristiana sulla causalità divina appare piuttosto complessa, non perché lo sia veramente, ma perché la mentalità odierna è completamente estranea ai fondamenti della sana filosofia e della divina rivelazione. Neghiamo, tuttavia, la conclusione che si cerca di trarne: appunto perché il mondo di oggi induce i cristiani a dimenticare un punto essenziale della propria fede, è necessario ribadirlo con forza, specialmente se esso è fonte di dubbi, disordientamento, confusione. Che cos’ha fatto De Mattei? Ha riaffermato la dottrina classica sull’origine del male e sulla provvidenzialità divina. In che occasione l’ha fatto? Parlando su un’emittente cattolica, ad un pubblico di cattolici. Non si capisce che cosa vi sia di inopportuno o di imprudente in tutto questo. Del resto, il problema dell’opportunità non si sarebbe posto neppure se avesse affrontato l’argomento su una testata laica. I cattolici, infatti, non devono in alcun modo vergognarsi della dottrina che professano, come se essa fosse irragionevole o sprovvista di solidi argomentazioni a suo favore. Certo, i problemi vanno affrontati con perizia e competenza. Ma vanno affrontati. Altrimenti si cade in un paradossale circolo vizioso, per cui non parlando mai di certe cose si pensa che esse non abbiano una spiegazione, e pensando che esse non abbiamo una spiegazione non se ne parla mai. Se i cattolici rinunciano a spiegare in pubblico la loro dottrina, lo faranno, al posto loro, i laicisti, deformando, alterando, ridicolizzando.
Grazie a questi presunti “motivi di opportunità”, ci troviamo di fronte a dei cristiani che definiscono “non conforme al Vangelo” una dottrina che la Chiesa ha sempre creduto, che separano il funzionamento del mondo (e quindi anche la creatura umana) dalla causalità divina, che negano il peccato come origine morale del male, che non attribuiscono al male permesso una funzione provvidenziale. Del resto, la sana dottrina non si conserva per forza di inerzia. Va continuamente ribadita, illustrata, difesa, come già san Paolo ordinava a Timoteo: “praedica verbum, insta opportune, importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina”, appunto perché “erit tempus cum sanam doctrinam non sustinebunt, sed ad sua desideria coacervabunt sibi magistros, prurientes auribus; et a veritate quidem avertent, ad fabulas autem convertentur” (2 Tim. 4, 2-4). La dottrina apostolica si oppone per diametrum all’inerzia di coloro che, per presunte ragioni di opportunità, ritengono che di certe cose bisognerebbe parlare il meno possibile, anche tra cattolici. Secondo l’Apostolo delle genti, predicare la verità, senza farsi condizionare dal rispetto umano, è un dovere che va perseguito con tenacia ed insistenza, soprattutto quando le persone sono più propense a dimenticarla e a rivolgere le proprie orecchie all’errore.
Si ha dunque l’impressione che, dietro al problema dell’opportunità, si celi invece quello “spiritus timoris” (2 Tim. 1, 7) che consiste nel tacere i punti più complessi della dottrina cristiana allo scopo di non urtare la sensibilità dei non credenti. Ma, in questo modo, quale effetto si ottiene? Non quello di evitare lo scontro coi laicisti, che anzi accuseranno i cattolici di aver studiatamente nascosto alcuni aspetti della loro fede perché essi stessi li ritengono incomprensibili e irrazionali. E neppure quello di tutelare la tranquillità dei credenti, i quali si troveranno sprovvisti di risposte ai loro interrogativi e di armi concettuali per rispondere alle obiezioni del mondo. Di fatto, si finisce per portara acqua al mulino dei militanti laicisti, che accusano i credenti di parzialità e irrazionalismo.
Riteniamo, dunque, che il prof. De Mattei, col suo intervento a Radio Maria, abbia compiuto un servizio utilissimo alla verità, facendo luce su una dottrina tanto importante quanto trascurata. Al tempo stesso, non riusciamo a capire le ragioni di quei cattolici, i quali, anziché reagire compattamente alle intemperanze dei laicisti, hanno, ancora una volta, scelto la strada dell’inerzia, del quieto vivere, della falsa opportunità, contribuendo in questo modo a rafforzare l’impressione di una loro sudditanza intellettuale nei confronti del mondo. “Non enim dedit nobis Deus spiritum timoris, sed virtutis et dilectionis et sobrietatis. Noli itaque erubescere testimonium Dei [...], sed collabora evangelio secundum virtutem Dei” (2 Tim. 1, 7-8).
Precisiamo questi concetti alla luce della Sacra Scrittura e della sacra Tradizione. A noi sfugge il perché dei singoli avvenimenti, ma non sfugge – in quanto cristiani – che i singoli avvenimenti hanno un perché. Alla luce del fine verso cui Dio ordina le vicende della storia, noi possiamo tentare di dare una spiegazione del perché di qualcosa, a patto che ciò avvenga a modo di ipotesi e con la consapevolezza che possiamo cogliere soltanto una minima porzione del problema, mentre la spiegazione completa la contempleremo in Dio solo nell’altra vita. Però bisogna ribadire con forza, con S. Agostino, che “non fit aliquid, nisi Omnipotens fieri velit, vel sinendo ut fiat, vel ipse faciendo” (Enchiridion, 95: ML 40, 276). Se infatti le cose materiali non dipendessero, in ultima analisi, da Dio, Dio non sarebbe onnipotente. Se invece dipendessero da Dio ma non fossero ordinate ad un fine buono (anche se a noi talora ignoto), Dio non sarebbe provvido. La Sacrae Theologiae Summa pubblicata dai Gesuiti spagnoli nel 1950 enuncia la tesi: “Universa quae condidit Deus providentia sua gubernat; eamque non effugiunt mala, nec physica, nec moralia”; e la classifica “De fide divina, catholica et definita” (Sacrae Theologiae Summa, Matriti, tom. II, ed. IV, 1962, pp. 168-170). Si tratta di un vero e proprio dogma. Del resto, l’universale provvidenza di Dio è stata sempre professata dalla Chiesa. I Padri scrissero opere su opere contro il fatalismo dei pagani. Sant’Agostino vi dedicò un intero libro, il “De civitate Dei”, senza timore di essere non compreso dai pagani o di urtare la sensibilità dei romani, che certo non venivano messi in ottima luce. Nella stessa direzione si mosse il Magistero ecclesiastico. Innocenzo III, nella professione di fede prescritta ai Valdesi, insegna che l’universalità della provvidenza appartiene al deposito della fede. E il Concilio Vaticano I, riecheggiando S. Agostino, definì: “Universa vero quae condidit Deus providentia sua gubernat”.
Quanto al male – e per male qui si intende anzitutto il male morale e poi il male fisico – la teologia cattolica insegna che esso è conseguenza del peccato. “Stipendium peccati mors” (Rom. 6, 23). Ovviamente non ci si riferisce soltanto ai peccati attuali del singolo, ma anche e in primo luogo al peccato originale, causa di tutti gli altri peccati: “Sicut per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et ita per peccatum mors, et ita in omnes homines mors pertransit, in quo [= quia] omnes peccaverunt” (Rom. 5, 12). E ancora: “Unius delicto mors regnavit per unum” (Rom. 5, 17), “per unius delictum in omnes homines condemnationem” (Rom. 5, 18). Dio non ha destinato l’uomo, neppure parzialmente, alla morte, al male e alla sofferenza, imperfezioni, queste, del tutto estranee allo stato di grazia ed innocenza in cui si trovavano i nostri progenitori. È col peccato che l’uomo, in quanto uomo, ha meritato la decadenza da questo stato, con tutto ciò che ne consegue: morte, sofferenza, male. Ma la misericordia di Dio è stata talmente grande da voler essa stessa riparare il nostro torto mediante l’incarnazione e il sacrificio del Verbo, che non ha tolto la pena temporale che meritiamo per il peccato, ma ha rimosso la pena eterna, ossia la privazione della visione beatifica. Ed è questo che veramente conta, visto che il vero male, il male per eccellenza, è il mancato raggiungimento del proprio fine ultimo. “Sed non sicut delictum, ita et donum; si enim unius delicto multi mortui sunt, multo magis gratia Dei et donum in gratia unius hominis Iesu Christi in plures abundavit. Et non sicut unum peccatum, ita et donum; nam iudicium quidem ex uno in condemndationem, gratia autem ex multis delictis in iustificationem” (Rom. 5, 15-16).
Se la morte, radice ed essenza del male morale, è conseguenza del peccato, e precisamente del peccato originale, non si vede per quale ragione il male fisico dovrebbe dipendere da altre cause; né si vede perché le calamità individuali e collettive non possano essere concepite anche nella prospettiva di un castigo, alla luce dei principi teologici che abbiamo esposto sopra. Del resto, l’antico Testamento ridonda di punizioni positivamente permesse da Dio in vista della conversione del suo popolo o di qualche persona in particolare, o ancora come esempio da lasciare ai posteri. Alcuni hanno obiettato che il nuovo Testamento modificherebbe radicalmente questo concezione. Ma un simile modo di pensare tradisce un’erronea nozione sia del valore della rivelazione mosaica sia del rapporto tra essa e il messaggio evangelico. I libri dell’antico Testamento, infatti, sono divinamente ispirati, al pari di quelli del nuovo. Pertanto la concezione dell’uomo, della natura, di Dio, che si trova espressa in essi, non dipende dalle elucubrazioni puramente umane – e quindi opinabili e discutibili – degli scrittori ebrei, ma è frutto della divina rivelazione. Certo, si tratta di una concezione ancora imperfetta. Gesù, come Egli stesso ha affermato, è venuto per compiere la legge, non per abolirla. Del resto, pensare che Dio si contraddica, rivelando prima qualcosa e poi successivamente smentendolo, non ha alcun senso. L’antico e il nuovo Testamento non sono opposti, ma complementari. Metterli in contrapposizione quanto alla sostanza della dottrina, significa cadere nell’errore degli antichi gnostici, i quali giungevano a sostenere che il Dio dell’antico Testamento fosse diverso dal Dio del nuovo. Nello specifico del caso che stiamo trattando, la rivelazione evangelica conferma in pieno quella mosaica, sia pur inserendola nella dimensione della Grazia. Oltre alle affermazioni di san Paolo sopra menzionate, si può ricordare l’episodio della guarigione del cieco nato, che qualcuno ha utilizzato per insinuare una presunta discontinuità tra la dottrina mosaica e quella evangelica. In realtà il passo, considerato nel suo vero senso, dimostra esattamente il contrario. Si dice infatti che il cieco non è cieco per peccati commessi da lui o dai genitori, ma si dice al contempo che Dio ha permesso questa ciecità perché si manifestasse appieno la sua gloria. Quindi Gesù non separa le cause seconde dalla causa prima, ma le connette nella prospettiva provvidenziale che aveva costituito il fondamento della religione mosaica e che continua a costituire il punto essenziale della religione cristiana.
Del resto, un Dio che non ha il controllo della natura da Lui stesso creata o che permette il male senza colpa morale da parte dell’uomo (ossia, in ultima analisi, senza il peccato originale), in che modo sarebbe più conforme alla concezione evangelica di misericordia e di amore? A noi sembra piuttosto che, in questo modo, si torni ad una concezione pagana della divinità, non onnipotente, non provvida e invece sottoposta, come tutto l’esistente, ad un fato cieco, capriccioso ed inesorabile. La dottrina tradizionale, al contrario, si accorda pienamente con l’assoluta onnipotenza e bontà divina, poiché tutto fa dipendere da Lui, e tutto – anche il male – riconduce alla volontà di provvedere al vero bene dell’uomo, ossia alla salvezza eterna. Tale volontà, com’è normale che sia, si esplica anche attraverso correzioni, ammonimenti, veri e propri castighi. Non dobbiamo aver timore di usare questa parola, visto che l’ha impiegata, più volte, la Madonna a Fatima. Sarebbe un buon padre, quello che non punisce mai i suoi figli, anche quando ce n’è bisogno? E sarebbe un buon padre colui che non ricorda ai suoi figli in che cosa consista il vero bene, che è la visione beatifica nel Paradiso? Dalla risposta, ovvia, a queste domande, si capisce facilmente come la dottrina tradizionale cattolica, efficacemente riproposta da De Mattei, non solo non contraddice all’infinito amore di Dio, ma ne è la sua diretta e necessaria conseguenza.
“OPPORTUNITÀ” O INERZIA?
Quando il mondo era ancora "cristiano" così vedeva anche il terromoto: in termini di Provvidenza divina
2) SE I CATTOLICI RINUNCIANO A SPIEGARE IN PUBBLICO LA LORO DOTTRINA. Vi sono alcuni, poi, che hanno sollevato un problema di opportunità. Secondo costoro, ciò che dice De Mattei è giusto, ma bisognerebbe guardarsi dall’affermarlo troppo chiaramente in pubblico, per evitare lo scandalo o la meraviglia di chi, essendo lontano dalla fede, non può comprendere fino in fondo la questione.
Ammettiamo il presupposto: la dottrina cristiana sulla causalità divina appare piuttosto complessa, non perché lo sia veramente, ma perché la mentalità odierna è completamente estranea ai fondamenti della sana filosofia e della divina rivelazione. Neghiamo, tuttavia, la conclusione che si cerca di trarne: appunto perché il mondo di oggi induce i cristiani a dimenticare un punto essenziale della propria fede, è necessario ribadirlo con forza, specialmente se esso è fonte di dubbi, disordientamento, confusione. Che cos’ha fatto De Mattei? Ha riaffermato la dottrina classica sull’origine del male e sulla provvidenzialità divina. In che occasione l’ha fatto? Parlando su un’emittente cattolica, ad un pubblico di cattolici. Non si capisce che cosa vi sia di inopportuno o di imprudente in tutto questo. Del resto, il problema dell’opportunità non si sarebbe posto neppure se avesse affrontato l’argomento su una testata laica. I cattolici, infatti, non devono in alcun modo vergognarsi della dottrina che professano, come se essa fosse irragionevole o sprovvista di solidi argomentazioni a suo favore. Certo, i problemi vanno affrontati con perizia e competenza. Ma vanno affrontati. Altrimenti si cade in un paradossale circolo vizioso, per cui non parlando mai di certe cose si pensa che esse non abbiano una spiegazione, e pensando che esse non abbiamo una spiegazione non se ne parla mai. Se i cattolici rinunciano a spiegare in pubblico la loro dottrina, lo faranno, al posto loro, i laicisti, deformando, alterando, ridicolizzando.
Grazie a questi presunti “motivi di opportunità”, ci troviamo di fronte a dei cristiani che definiscono “non conforme al Vangelo” una dottrina che la Chiesa ha sempre creduto, che separano il funzionamento del mondo (e quindi anche la creatura umana) dalla causalità divina, che negano il peccato come origine morale del male, che non attribuiscono al male permesso una funzione provvidenziale. Del resto, la sana dottrina non si conserva per forza di inerzia. Va continuamente ribadita, illustrata, difesa, come già san Paolo ordinava a Timoteo: “praedica verbum, insta opportune, importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina”, appunto perché “erit tempus cum sanam doctrinam non sustinebunt, sed ad sua desideria coacervabunt sibi magistros, prurientes auribus; et a veritate quidem avertent, ad fabulas autem convertentur” (2 Tim. 4, 2-4). La dottrina apostolica si oppone per diametrum all’inerzia di coloro che, per presunte ragioni di opportunità, ritengono che di certe cose bisognerebbe parlare il meno possibile, anche tra cattolici. Secondo l’Apostolo delle genti, predicare la verità, senza farsi condizionare dal rispetto umano, è un dovere che va perseguito con tenacia ed insistenza, soprattutto quando le persone sono più propense a dimenticarla e a rivolgere le proprie orecchie all’errore.
Si ha dunque l’impressione che, dietro al problema dell’opportunità, si celi invece quello “spiritus timoris” (2 Tim. 1, 7) che consiste nel tacere i punti più complessi della dottrina cristiana allo scopo di non urtare la sensibilità dei non credenti. Ma, in questo modo, quale effetto si ottiene? Non quello di evitare lo scontro coi laicisti, che anzi accuseranno i cattolici di aver studiatamente nascosto alcuni aspetti della loro fede perché essi stessi li ritengono incomprensibili e irrazionali. E neppure quello di tutelare la tranquillità dei credenti, i quali si troveranno sprovvisti di risposte ai loro interrogativi e di armi concettuali per rispondere alle obiezioni del mondo. Di fatto, si finisce per portara acqua al mulino dei militanti laicisti, che accusano i credenti di parzialità e irrazionalismo.
Riteniamo, dunque, che il prof. De Mattei, col suo intervento a Radio Maria, abbia compiuto un servizio utilissimo alla verità, facendo luce su una dottrina tanto importante quanto trascurata. Al tempo stesso, non riusciamo a capire le ragioni di quei cattolici, i quali, anziché reagire compattamente alle intemperanze dei laicisti, hanno, ancora una volta, scelto la strada dell’inerzia, del quieto vivere, della falsa opportunità, contribuendo in questo modo a rafforzare l’impressione di una loro sudditanza intellettuale nei confronti del mondo. “Non enim dedit nobis Deus spiritum timoris, sed virtutis et dilectionis et sobrietatis. Noli itaque erubescere testimonium Dei [...], sed collabora evangelio secundum virtutem Dei” (2 Tim. 1, 7-8).
post tratto da articolo su : Papalepapale
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