di Isacco Tacconi e Marco Piazza
Quando ci si accinge a parlare del motivo e del fine dell'incarnazione di Gesù Cristo, uno dei riferimenti principali è l’inno cristologico paolino nella sua epistola agli Efesini, nel quale dichiara che in Cristo il Padre “ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”(Ef 1,4-5). In tale brano l’Apostolo delle genti descrive il manifesto programmatico del disegno divino di salvezza.
La causa principale dell’Incarnazione risiede nel sapientissimo progetto d’amore del Padre, ancor prima della creazione e del Peccato: l'azione amorevole di Dio non può essere subordinata al peccato dell’uomo. A questo proposito la riflessione operata dal Beato Giovanni Duns Scoto riafferma il Cristocentrismo, la chiave di lettura di tutto il Mistero dell’Incarnazione. Scoto affermava che se anche Adamo non avesse peccato, Cristo si sarebbe ugualmente incarnato perché solo in questo modo si sarebbe potuta compiere pienamente la perfezione della carità verso Dio nella creatura umana. Nonostante tale interpretazione sia stata interpretata dal filone domenicano come una pericolosa deriva che sminuirebbe la gravità del peccato originale, prima causa dell’Incarnazione, Scoto non ignora che, a causa del peccato originale, Cristo ci ha redenti con la sua Passione, Morte e Risurrezione, ribadendo però che l’Incarnazione è l’opera più grande e più bella di tutta la storia della salvezza, non condizionata da nessun fatto contingente. Tale concezione non fa altro che ribadire il Primato di Cristo secondo quanto attesta l’interezza della cristologia di San Paolo. Il sapiente disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, infatti, precede la creazione stessa e, quindi, il peccato stesso, e non può essere ad esso subordinato. In quest’ottica si elidono gli equivoci ed ogni possibile deriva pelagiana poiché risulta consequenziale l’Incarnazione come culmine della creazione e il suo essere unico mezzo di redenzione per l’umanità macchiata dal peccato e che, grazie ad essa, è abilitata a rendere perfettamente gloria a Dio in Cristo. Viceversa, considerando in maniera esclusiva la gravità del peccato originale si cadrebbe nella disperazione luterana che impedisce una reale ed efficace redenzione dell’uomo, svalutando di conseguenza l’Incarnazione del Verbo.
Il fine verso cui l’Incarnazione del Verbo è rivolta potrebbe essere riassunto con le parole di San Paolo “Instaurare omnia in Christo” (Ef 1,19). Con queste prole San Paolo esprime il progetto divino di ricondurre ogni cosa a Cristo, il Pantocrator, il Re dell’Universo, proclamando così la sua regalità e potestà divina, riprendendo quel Cristocentrismo dell’Incarnazione già evidenziato dal beato Scoto. Al contempo l’Apostolo vuole indicare il fine che ha per oggetto l’umanità, ossia la restaurazione dell’originaria armonia tra il mondo e il suo Creatore (ricongiungere la terra al cielo e l'uomo al Creatore). Il Cristo si è incarnato, infatti, per ricostituire la primitiva unità tra l’uomo e Dio, restituire all’uomo la pace e l’unità con se stesso dopo il terribile strappo inferto alla sua natura dal peccato originale, e infine per riunire gli uomini tra loro nella comunione d’amore della Vita Trinitaria donata loro dal Figlio :“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”(Gv 14,27).
Nel considerare il fine dell’Incarnazione il primato di Cristo non viene mai meno neanche nei frutti che Egli stesso ha ottenuto in nostro favore. Egli, infatti, è l’Unigenito dal Padre ma, con la Risurrezione, diviene il “Primogenito fra molti fratelli”(Rm 8,29). Questa è la realtà totalmente nuova donata all’uomo, che viene incorporato a Cristo con il battesimo: la partecipazione all’eredità del Figlio di Dio. La vita di grazia partecipata agli uomini non è altro che la vita gloriosa del Risorto immersa nel Mistero della Santissima Trinità. La differenza abissale che si attesta tra la vita conferita nella creazione e la vita nuova in Cristo, si basa sulla divinità del Verbo Incarnato e l’infinito e incalcolabile valore del suo Sacrificio. La condizione dell’uomo, perciò, non viene semplicemente restaurata al pari dei progenitori, bensì elevata alle altezze trinitarie. La condizione di grazia del battezzato è quindi subordinata alla sua incorporazione al Corpo Mistico di Cristo, ma non è stabile né irrevocabile: in qualche modo infatti resta soggetta alla continua adesione personale dell’uomo.
Concludendo, possiamo dire che il Mistero dell’Incarnazione non può essere in alcun modo scindibile dalla Redenzione, poiché ne costituisce il fine principale come ci viene attestato dalla Sacra Scrittura e dalla Sacra Tradizione. Innanzitutto perché la pienezza della Rivelazione si realizza nella persona del Verbo Incarnato, massima e piena espressione dell’amore di Dio Padre nello Spirito Santo. E, parallelamente, proprio a causa di questa centralità di Cristo, non si può prescindere dalla subordinazione del creato e della condizione umana al suo Capo che è Cristo Signore. In ultima istanza, la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo e la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del peccato, con la sua riconduzione alla Patria Celeste, sembrano confluire nell’unica persona del Verbo Incarnato. Egli è la chiave di volta, l’Alpha e l’Omega della Rivelazione di Dio nel mondo, a partire dalla prima creazione fino a giungere al culmine nella seconda e più perfetta creazione, ossia la giustificazione dell’umanità caduta per mezzo della Redenzione la quale, per l’infinita sapienza di Dio, si è realizzata nella mirabile opera dell’Incarnazione del Verbo di Dio.
Fonte: Campari & De Maistre
Nessun commento:
Posta un commento
Benvenuto, grazie del tuo contributo...