mercoledì 1 ottobre 2014

Comunione ai divorziati: riflessioni di un laico cristiano.







Il Sinodo dei Vescovi indetto da Papa Francesco sul tema “Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell'evangelizzazione” inizierà il prossimo 5 ottobre e si concluderà il 19

di Renzo Puccetti
Benché denso di argomenti meritevoli di ben maggiore considerazione, la discussione sulla possibilità di riammettere al sacramento dell’Eucaristia le persone divorziate risposate ha monopolizzato l’attenzione dei media in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia che il Santo Padre vuole comunque aperto al confronto. Intendo offrire un piccolo contribuito come laico impegnato insieme a tanti altri nella difesa del bene primario della vita e della prosecuzione dell’utero materno, come definì la famiglia il cardinale Ratzinger. Chesterton ammonì che un giorno le spade sarebbero state sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate; quando osservo lo stupro mediatico dell’appellativo così dolce e delicato con cui Gesù si è presentato a una minuta suora polacca, Misericordia, e il martirio a cui viene sottoposta la logica, ho come l’impressione che quel giorno non sia poi così lontano. Non voglio, non posso, non devo dare risposte, ma porre domande sì, quello mi è consentito, anzi è un diritto che mi deriva dal battesimo e ancora prima dalla mia natura umana razionale tenuta in così gran conto da un certo Pietro, primo Papa, che esortava a rispondere riguardo le ragioni della nostra speranza.


Mi pare che una prima questione debba ricevere soluzione nel riflettere sull’argomento: il marito divorziato e risposato secondo la legge civile che desidera ricevere la Comunione, con chi sta avendo rapporti sessuali? Con una donna che per la legge di Dio e della chiesa non è moglie, con una delle due mogli, o con l’unica moglie? Nel primo caso avere rapporti sessuali con una donna diversa dalla moglie significa ancora commettere adulterio o no? In caso affermativo, è ancora vero che il nuovo matrimonio civile accresce la gravità della rottura cristallizzando l’autore in una “condizione di adulterio pubblico e permanente” (CCC 2384)? Se invece si affermasse che ha rapporti con una delle due mogli, dovremmo dedurne che per ragioni “pastorali” si cesserà di indicare la poligamia come grave offesa alla dignità del matrimonio (CCC 2400) in quanto lesiva della sua unità fondata sulle parole di Gesù Cristo, “E i due saranno una carne sola”? Se infine anche per la chiesa egli non fosse più sposato con la prima moglie, perché non ammetterlo a un nuovo matrimonio religioso, inaugurando una sorta di divorzio concordatario rovesciato in cui la chiesa recepisce le decisioni dei giudici civili?

Papa Paolo VI, di cui prossimamente verrà proclamata la beatificazione, riflettendo con l’amico Jean Guitton sulla dottrina della contraccezione osservava: “Un’attenuazione della legge avrebbe per effetto di rimettere in questione la morale, e soprattutto di dimostrare la fallibilità della chiesa […] allora, il cattolicesimo anteriore a Giovanni XXIII apparirebbe […] una chiesa della ‘legge’ impraticabile, da cui io l’avrei liberata, quasi fossi un secondo Paolo. La teologia sarebbe così? la serva della scienza, ancilla scientiae […] per esempio un domani ammetterebbe la procreazione senza paternità: tutto l’edificio della morale verrebbe dissolto, e dopo l’edificio della morale verrebbe scosso l’edificio della fede. Perché l’oggetto della certezza non sarebbe più la rivelazione, ma la più recente scoperta scientifica”.

Mi domando se lo stesso pericolo si stia oggi ripresentando con una diversa forma di servitù, dove la chiesa sarebbe prona alla scienza sociologica o alla legge dei parlamenti e alle sentenze dei giudici: la teologia, anche quella pastorale, deve dunque annichilirsi ad “ancilla iudices”? Ma se così fosse, non si dovrebbe ammettere che ci eravamo sbagliati nel 1974 riconoscendo oggi in Pannella un profeta?


Da molte parti i novatori rassicurano che non vi sarebbe alcun cambio nella dottrina. Dicono infatti che le seconde nozze non sarebbero un sacramento, ma un male che la chiesa dovrebbe tollerare. Giunto a questo punto sono costretto ad ammettere che non riesco a capire: quale sarebbe la natura di questo male? Intrecciare una relazione sessuale da parte di una persona sposata si chiamerebbe ancora adulterio? Continuerebbe a essere un’offesa alla dignità del matrimonio condannata da Gesù anche quando consumata col semplice desiderio (CCC 2380)? Chi ne sarebbe l’autore se non il coniuge divorziato e risposato? E che gravità avrebbe un tale male? Non riguarda materia grave? Non è commesso con piena consapevolezza? E la passione che accompagna pressoché ogni atto umano sarebbe da sola sufficiente per dichiarare l’adulterio un peccato veniale per mancanza di deliberato consenso? In poche parole: l’adulterio continuerebbe a essere un peccato mortale (CCC 1447, 1857)? Le teste cattoliche tagliate da Enrico VIII non erano quelle di martiri, ma di inconsapevoli rigoristi? Oppure, aggiungendo la fattispecie di peccato grave, ma non mortale, si intende introdurre per via “pastorale” la tripartizione del peccato e la dissociazione tra atti concreti e opzione fondamentale rigettata dal magistero di san Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor?

Se, come pare di capire dai resoconti, continuare a negare la Comunione ai divorziati risposati sarebbe il risultato di una mentalità chiusa, dobbiamo considerare l’accusa del Battista a Erode frutto di analoga chiusura? “Il vostro parlare sia: ‘Sì, sì; no, no’; poiché il di più viene dal maligno”, dice il Signore; questa frase mi sembra assai chiusa a creazioni “pastorali”, dunque che farne? Se negare la Comunione ai divorziati risposati significa mettere il peccatore in un buco senza uscita, le ultime parole di Cristo all’adultera, “va e non peccare più”, lungi da essere una liberazione, non finirebbe per essere una condanna inappellabile? E che dire del cavarsi l’occhio e tagliarsi la mano pur di potere entrare nel regno dei cieli? Non è più possibile vivere da eunuchi per la vita e la felicità eterne? Non è possibile chiedere a chi vuole ricevere il corpo e sangue di Cristo di allontanarsi dal nuovo compagno o di vivere come fratello e sorella in presenza di figli? Troppo sessuofobico? Eppure apprendiamo dalla lettera a Diogneto che i primi cristiani avevano in comune la mensa, ma non il letto. Mi domando dove sia dunque finita la radicalità del Vangelo, dove sia la liberazione dalle sovrastrutture e il ritorno alle origini.

L’assoluzione sacramentale e la successiva ricezione dell’Eucaristia comportano che il credente abbia la volontà diretta a impegnarsi nella conversione della vita. Nell’attuale battage mediatico pare esserci una grande assenza: l’appello alla conversione dell’intelligenza, del cuore e della vita a Gesù Cristo. Questo nonostante le prime parole che Gesù pronuncia all’inizio del suo ministero pubblico, nel Vangelo secondo Marco, sono proprio: “Convertitevi”. Viene detto che la Comunione va data perché è Sacramento per portare alla guarigione proprio chi ha più bisogno della Grazia, il peccatore. Capisco, e voglio guardarmi bene dal raccogliere la pietra per lapidare chicchessia, tuttavia non posso trattenermi dal domandare se il peccatore non debba continuare a passare dalla confessione sacramentale prima di accostarsi all’Eucaristia. Avevo imparato da bambino che per potersi accostare alla Mensa Eucaristica si dovesse essere in Grazia di Dio avendo ottenuto il dono del perdono dai peccati dopo avere espresso il pentimento sincero e il proposito di non peccare più. Vorrei capire se per il divorziato risposato tale sequenza la si debba considerare abolita. In tale caso solo per le offese al sesto comandamento o anche agli altri? Perché non si dovrebbe applicare lo stesso criterio al furto, all’omicidio, alla menzogna? Dunque, si può essere morti e ricevere il pane dei forti? Esiste un naufragio privilegiato? In che cosa consisterebbe dunque il sacrilegio eucaristico indicato da san Paolo “Chi riceve il Corpo del Signore indegnamente, mangia la propria condanna” (1 Cor 11, 29)? Si farà un’eccezione per non mettere in imbarazzo i genitori risposati durante la prima Comunione dei figli? La missione della chiesa è portare l’annuncio della salvezza operata dal sacrificio della croce a tutti gli uomini, compreso il più incallito peccatore. M’interrogo se guarire abolendo per legge la malattia salvi davvero, se sottoponendo ogni insegnamento morale oggi indigesto allo stress test cartesiano, “de omnibus dubitandum est”, si potrebbe domani cercare una soluzione “non chiusa” anche per la macina al collo di chi scandalizza i più piccoli e se alla fine del processo di destrutturazione rimarrebbe in piedi qualcosa della stessa fede.

Dal cardinale Ratzinger ho appreso che la struttura della chiesa non è democratica, ma sacramentale, dallo stesso magistero ho appreso che non vi può essere nessuna maggioranza contro i santi, nella chiesa i morti non sono morti, perché nella Comunione dei santi la chiesa supera il presente. Sulla castità coniugale e l’Eucaristia hanno parlato san Paolo, sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, san Tommaso, sant’Alfonso, san Giovanni Paolo II, schiere di santi e il Santo dei santi, Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo; confido che anche a loro sarà data possibilità di voto.

Fonte: Il Foglio

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