domenica 20 dicembre 2015

Meditazione attenta della storia della donna nella storia della salvezza.


Fonte:  Tempi

Pubblichiamo il testo dell’intervento che il cardinale Carlo Caf arra ha tenuto a Villa S. Giacomo, Bologna S. Lazzaro, il 6 dicembre 2015: “Schizzo di un’antropologia al femminile: per una società a misura della persona umana”. 

La mia riflessione si articolerà attorno a tre temi. Cercherò in primo luogo di individuare alcuni punti orientativi di riferimento per elaborare un’antropologia al femminile, per poi in un secondo momento richiamare quelli che mi sembrano i principali aspetti problematici, ed infine indicherò alcune questioni che mi sembrano più meritevoli di approfondimento. 

1. PUNTI DI RIFERIMENTO Il senso del primo momento della mia riflessione è di individuare dei punti cardinali di orientamento e dei criteri di giudizio all’interno di una questione molto complessa. Essi possono essere individuati attraverso una meditazione attenta della storia della donna nella storia della salvezza: è da questa storia che emerge la verità della donna: la verità originaria (1,1); la verità deturpata (1,2); la verità trasfigurata (1,3). 

1,1. [La verità originaria]. Forse nel corso della storia umana mai la donna ha dovuto affrontare tante sfide, mai è stata così radicalmente provocata a porsi il problema della sua identità. In una tale condizione la prima esigenza è di interrogarci sulla verità della persona umana ­donna. Solo la consapevolezza della propria identità offre alla persona criteri veri di giudizio e di discernimento nelle varie situazioni. Noi possiamo sapere la verità originaria della donna leggendo e meditando con grande attenzione la pagina che descrive la sua creazione: Genesi 2,16­25. Nell’atto creativo si manifesta il progetto del Creatore, e la verità della creatura è il pensiero di Dio nei suoi confronti; ciò che Dio ha pensato di essa. La pagina biblica è particolarmente significativa perché dice esplicitamente quale è stato il motivo che ha spinto Dio a creare la donna: «non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (v.18). In queste parole è racchiuso tutto il mistero della persona umana­ donna. L’esistenza della donna è richiesta perché l’umanità della persona raggiunga la pienezza del suo essere [«non è bene che …»], in quanto solo la donna rende possibile quella comunione delle persone che le fa uscire dalla solitudine.
Desidero fermarmi un poco su questo significato delle parole bibliche. La solitudine di cui parla il testo biblico non è da intendersi in primo luogo in senso negativo. Essa significa l’assoluta originalità della persona umana nell’universo creato. La persona umana posta di fronte agli animali [vv. 19­20], si percepisce completamente diversa e dotata di una vera e propria superiorità nei loro confronti. Nel confronto con gli animali la persona umana prende coscienza della sua superiorità, che cioè non può essere messa alla pari con nessun’altra specie di essere vivente sulla terra. L’uomo è «solo» perché è essenzialmente diverso dal mondo visibile in cui è collocato. La solitudine connota la sua suprema dignità. Perché allora il testo biblico dice «non è bene che …»? La solitudine qui assume anche una qualificazione negativa: la persona umana ha bisogno di «comunicare» con un’altra persona umana. Questo bisogno, questa esigenza può essere soddisfatta solo nell’incontro con un’altra persona: si esige il superamento della solitudine, e nello stesso tempo in questo superamento si afferma la dignità unica della persona. La creazione della donna è la risposta a questo bisogno: ella è creata perché si renda possibile la comunione fra le persone. La verità quindi della donna e la ragione, il significato del suo esserci possono essere racchiusi in due affermazioni fondamentali. La prima: la donna è una persona umana pari nella dignità alla persona umanauomo, perché partecipe della sua stessa natura: il test cui viene sottoposto l’uomo nel confronto cogli animali doveva preparare questo avvenimento nell’universo: la creazione di un essere che è come l’uomo. La seconda: la donna è una persona umana diversa dall’uomo; è a causa di questa diversità che l’uomo esce dalla sua solitudine e si costituisce la comunione delle persone. In sostanza. L’umanità si realizza in due modalità di uguale dignità, ma diverse nella loro interiore configurazione: la mascolinità e la femminilità. Possiamo dunque dire che la solitudine dell’uomo di cui parla il testo biblico, non significa solamente la scoperta che la persona fa di essere diversa da – superiore ad ogni altro vivente, ma anche la scoperta della sua vocazione ad essere con un’altra persona. E quindi nasce il desiderio, l’attesa di una «comunione delle persone». Dopo che Dio ha creato la donna, dice il testo biblico che «la condusse all’uomo»: la donna viene donata da Dio all’uomo. È il dono più prezioso fatto all’uomo. La parola biblica «la condusse» richiama significati profondi. Una persona non può essere donata nel modo con cui viene donata una cosa. Essa deve consentire ad essere donata: deve essere essa a donare se stessa. Il testo biblico quindi significa da una parte che la vocazione della persona è il dono di sé, e dall’altra che la persona deve consentire a questa sua vocazione. Non posso non ricordare a questo punto un testo mirabile dell’ultimo Concilio dove si insegna che la persona umana è l’unica creatura nel mondo visibile che Dio abbia voluto «per se stessa», aggiungendo però subito che la persona umana non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (Cost. past. Gaudium et Spes 24,4). Qui ritroviamo individuati con grande precisione la verità e l’ethos della «comunione delle persone». La verità: la comunione delle persone può costituirsi solo attraverso il dono reciprocamente offerto ed accettato; l’ethos: ciascuno deve essere accolto così come è stato voluto dal Creatore, cioè «per se stesso». L’unità vera fra l’uomo e la donna è posta in essere solamente in questo modo, cioè dall’amore. L’amore infatti è il dono di sé che nasce dall’affermazione della persona «per se stessa». La persona umana, uomo e donna, diventa dono nella libertà dell’amore e così ritrova se stessa. Il testo biblico descrive certamente la comunità coniugale; Gesù stesso lo interpretò in questo modo (cfr. Mt 19,4) così come l’autore della lettera agli Efesini (cfr. 5,31­32). La cosa è importante. Per una serie di ragioni. Alla luce del principio della creazione, la comunità coniugale monogamica ed indissolubile è in un certo senso il paradigma fondamentale di ogni società umana: unità nella diversità; unità nella quale ciascuno è affermato ed accolto «per se stesso»; costituzione di una comunione di persone. Ciò che desidero sottolineare è che secondo la pagina biblica questo è reso possibile dalla presenza della donna. Ad essa sembra essere affidata in modo singolare la missione di far accadere la comunione delle persone, la custodia della libertà del dono, la cura che la persona sia sempre voluta «per se stessa». Ma il mistero della femminilità si manifesta e si rivela fino in fondo mediane la maternità: nella capacità di concepire una nuova persona umana, di darle la sua forma originaria. In un’unione singolare col Creatore (cfr. 2Mac 7,22­23), la donna coopera con Lui in modo unico a che si formi una nuova persona «ad immagine e somiglianza di Dio». Durante i nove mesi della gestazione Dio è presente in modo unico nella persona della madre, poiché solo da Dio può provenire quell’«immagine e somiglianza» che è propria della persona umana. Il momento in cui la donna vive il miracolo del figlio che emerge dal suo corpo, è forse il momento in cui è dato ad una creatura umana di vivere più intensamente la gioia dell’atto creativo. E’ per questo che la maternità esige una singolare venerazione e rispetto. Riassumo quanto detto finora. L’intenzione di Dio creatore, quando ha creato la donna, è stata di «dare un aiuto simile» all’uomo: di rendere possibile una vera comunione fra le persone. La comunione fra uomo e donna si costituisce nell’unità della diversità, attraverso il dono sincero di sé, nel quale ciascuno è accolto «per se stesso». In questa unità la donna può concepire una nuova persona umana, in una misteriosa ma reale cooperazione con Dio creatore.

1,2. [La verità deturpata]. La deturpazione causata dal peccato nella persona è accaduta anche nella donna: è stata una deturpazione anche della femminilità umana. Questo processo di deturpazione può essere verificato ad un duplice livello. A livello della «verità ed ethos della comunione delle persone»: delle strutture antropologiche permanenti. E a livello delle forme che storicamente, istituzionalmente anche, le deturpazioni hanno via via assunto. Vorrei ora fermarmi a riflettere su questi guasti che il peccato ha prodotto dentro alla «forma femminile» dell’umanità. Prima di compiere questa verifica credo utile riflettere sul testo che conclude il racconto della creazione. Esso recita: “ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non me provavano vergogna” (v. 25). Che significato ha questa nudità originaria? Nella giustizia originaria, l’uomo e la donna sono in possesso di un’armonia interiore che impedisce loro di guardarsi come possibile oggetto di uso: di degradarsi ad essere qualcosa di cui poter disporre, e non più qualcuno da volere «per se stesso». La nudità di cui parla il testo significa che uomo e donna, nella giustizia originaria, possedevano in pieno la vera libertà, quella che consiste nella capacità di donarsi. Attraverso il corpo essi vedevano la persona e quindi, a causa rispettivamente della vista della mascolinità e della femminilità, prendevano continuamente coscienza della loro vocazione alla comunione interpersonale. Ma il testo forse vuole anche richiamare la nostra attenzione sulla condizione fondamentale della libertà intesa come capacità di auto­donazione: la padronanza di sé (l’auto­dominio). Non si può infatti donare ciò che non si possiede. La perdita della giustizia originaria, nella quale Adamo trascina l’intera sua discendenza, consiste prima di tutto nella disobbedienza al Creatore. Ma quest’ingiustizia verso Dio ha come conseguenza la perdita immediata della nudità originaria. L’uomo e la donna perdono questa capacità di guardarsi come persone attraverso la loro mascolinità­ femminilità: come persone che volute «per se stesse», possono ritrovarsi solo nel dono sincero di sé. Perdono la capacità di farsi questo dono, pur permanendo in essi la tensione alla e l’esigenza della comunione interpersonale. La radice di tutta la deturpazione della verità originaria della donna è questa. Qual è l’essenza di questo modo sbagliato di guardarsi fra uomo e donna, quando non si guardano più come persone che Dio ha voluto «per se stesse»? Guardarsi come si guardano due individui separati l’uno dall’altro. Credo che troviamo qui una delle cause non ultime del grave malessere in cui oggi noi tutti viviamo. Esiste una diversità essenziale fra una visione personalista dell’uomo ed una visione individualista. Secondo la visione individualista dell’uomo, la persona umana non è costitutivamente in relazione con l’altro: è per natura chiusa in se stessa. Questa chiusura consiste nel fatto che il suo desiderio è solo e sempre desiderio del proprio bene; nel fatto che la sua ragione è incapace di conoscere una verità sul bene/male della persona come tale [= bene morale], ma è solo al servizio della ricerca della propria felicità individuale. Secondo questa visione, ogni rapporto con l’altro può essere solo «contrattato», costruito cioè come incontro di due opposti egoismi che quanto meno chiedono una parità fra il dare e l’avere. La società umana, ogni società umana, diviene fragile convergenza di interessi opposti: la ricerca del mio bene può prescindere dal bene dell’altro, anzi può anche normalmente opporsi al bene dell’altro. E’ possibile raggiungere il mio bene anche senza o anche contro il bene dell’altro. Non sto, purtroppo, facendo lo schizzo di teorie o ideologie che restano confinate nel mondo delle idee. Chi non vede che questo, l’individualismo così inteso, è il vero cancro delle nostre società occidentali? Ma non è di esso in generale che intendo parlare. Sto parlando di esso in quanto fattore che deturpa o oscura la verità originaria della donna, perché deturpa o oscura la verità originaria del rapporto uomo­donna. In che modo? Al livello delle strutture antropologiche permanenti, come le ho chiamate. Siamo condotti a questo livello più profondo dal testo biblico che parla per la prima volta del rapporto uomo­donna subito dopo il peccato originale: «verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gen. 3,10b). Nell’uomo e nella donna permane la loro vocazione alla comunione interpersonale, il loro desiderio di unità (cfr. Gen. 2,24), ma questo desiderio si realizza di fatto in un «dominio» dell’uno sull’altro. Posto di fronte alla donna, l’uomo che è nella giustizia perché in alleanza col Signore, prova gioia, stupore, perché finalmente è con una persona, con qualcuno e non solo con qualcosa [animali e cose]. Ora questa visione della persona si è corrotta in istinto e tentativo di dominare. Nel rapporto si introduce precisamente quella logica individualistica di cui parlavo; e l’esperienza di ieri e di oggi dimostra che l’uomo, possedendo maggior forza, domina ed assoggetta la donna. La donna viene violentata, sfruttata, asservita. E’ importante che comprendiamo bene questa peculiare trasformazione­corruzione dell’originario rapporto di comunione in rapporto di dominio. Esso consiste in una degradazione che viene compiuta nei confronti della donna dentro al cuore dell’uomo. Una degradazione che consiste nel ridurre la persona della donna ad una corpo di cui poter far uso o per la riproduzione o per il proprio piacere. E’ una vera e propria de­personalizzazione compiuta nei confronti della donna, a causa della quale depersonalizzazione viene sottratta all’unità uomo­donna la dignità del dono. La struttura antropologica fondamentale viene così essenzialmente mutata, e pertanto l’istituzione matrimoniale subisce una progressiva demolizione, sulla quale ora non Sviluppa le tue competenze digitali dobbiamo soffermarci. E’ sufficiente qui dire che alla degradazione della persona subentra l’incapacità della definitività della scelta, ed alla fine l’insignificanza del matrimonio come tale. La piaga della libera convivenza sta crescendo nelle nostre comunità: segno di una libertà spesso ridotta ormai alla pura spontaneità della ricerca del proprio benessere psicofisico. Sempre a livello di quella che ho chiamato “le strutture antropologiche permanenti” del rapporto uomo­donna, voglio attirare la vostra attenzione su un’altra dimensione essenziale di questo stesso rapporto: quello della maternità. Che cosa è la maternità? Sembra strano che inizi questo momento della mia riflessione con una domanda a cui risponde subito una evidenza originaria dello spirito. Ma oggi non è più così: e ciò la dice lunga circa la crisi spirituale in cui stiamo naufragando. Ritornerò in seguito su questo punto. Parlando del livello antropologico permanente del rapporto uomo­donna, abbiamo già accennato alle forme storiche che la deturpazione della verità originaria della donna ha via via assunto. È il grande tema del riconoscimento effettivo della dignità della donna nella società, in particolare in due sue componenti essenziali, quella economica e quella politica. Riconoscimento della dignità della donna nel mondo del lavoro, ed effettiva possibilità della donna di configurare la costruzione dell’edificio sociale anche a misura della sua femminilità: sono ancora due sfide in larga misura inevase. 

1,3. [La verità trasfigurata]. “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna” (Gal 4,4). La verità originaria della donna trova la sua perfetta realizzazione e trasfigurazione in Cristo. Il Verbo incarnandosi ha voluto avere quel rapporto unico, fondamentale che ogni persona umana ha con la donna: il rapporto del figlio colla madre. Ognuno di noi è plasmato, è fatto nella sua umanità da una donna. E così è accaduto anche per il Verbo: la sua umanità è stata plasmata da Maria, perché è stato generato da lei nella nostra umanità. E pertanto Ella è in senso vero e proprio «Theotokos – Madre di Dio». Sono sempre più convinto che solo Maria è capace di introdurre la donna nella piena consapevolezza della propria femminilità; che Maria ne è la chiave interpretativa completa. Ma su questo ora non possiamo soffermarci. Preferisco continuare la narrazione del rapporto Cristo­donna; è il rapporto nel quale la verità della donna viene pienamente svelata; è trasfigurata. E’ certo che il Verbo poteva assumere la nostra natura umana anche senza essere concepito e generato in essa da una donna. Perché dunque ha voluto avere una madre? Qual è l’intima ragione, il significato nascosto di questa divina decisione? I Padri ed i Dottori della Chiesa si sono fatti questa domanda. Raccolgo solo qualche riflessione utile allo scopo di questo Seminario. Il rapporto Cristo – Maria è messo in relazione al rapporto Adamo­Eva dentro ad un mirabile chiaro scuro. Adamo­Eva prefiguravano quell’unità dei due in una sola carne che definisce l’avvenimento della salvezza: la Chiesa. Essa è la realizzazione perfetta di quanto era adombrato nell’origine della creazione: Corpo e Capo; Sposa e Sposo; umanità divinizzata e Cristo. Due in una sola carne: nella sola Carne [eucaristica] del Cristo che dona Se stesso (cfr. 1 Cor. 6, 15­17). E’ assai significativo che la Chiesa sia «femminile», che l’ecclesialità sia svelata dalla forma della femminilità. Ma non c’è solo questo aspetto luminoso, diciamo. Alla nostra rovina cooperò sia Adamo che Eva; alla nostra salvezza cooperano con una essenziale diversità che vedremo subito, Cristo e Maria. Ho trovato in S. Tommaso un testo mirabile che voglio portare anche a vostra conoscenza. Mi sono chiesto: in che modo la sposa viene introdotta allo Sposo e si unisce a Lui? che cosa significa che Maria coopera all’atto redentivo di Cristo? E’ cercando la risposta a queste domande che mi sono imbattuto nel testo di S. Tommaso. Quando il Verbo si fece carne nel grembo di Maria, è stato come celebrato il matrimonio fra l’umanità ed il Verbo. Maria diede il consenso “a nome di tutta l’umanità” (cfr. 3,q.30,a.1). La decisione assolutamente gratuita del Padre di fare del suo Unigenito il primogenito di molti fratelli non si realizza a causa del nostro consenso: a Dio solo la gloria. Ma non si realizza senza il nostro consenso. Maria lo ha espresso. Questo è il senso profondo dell’Annunciazione. La modalità con cui Maria entra nell’origine, nel principio della nostra salvezza, l’incarnazione del Verbo, svela la verità più profonda della donna. Ella è colei che «consente – rende possibile» alla Vita che è presso il Padre di rendersi visibile. Ecco perché è inscritta nella femminilità questa vocazione a custodire, a salvare, a non permettere che sia degradata la vita della persona, nel senso intero del termine. Nessuno forse ha espresso meglio di Dante questa che è la verità più profonda della donna. Il suo cammino di salvezza «dalla selva oscura» è reso possibile dalla donna: Lucia, Matelda, Beatrice, ed alla fine Maria. Vorrei ancora fermarmi un poco su questo, richiamandovi ancora al testo di S. Tommaso. Maria – scrive il grande Dottore della Chiesa – dona il suo consenso «a nome di tutta l’umanità» [loco totius humanae naturae]. Giovanni Paolo II ha insegnato assai profondamente che il simbolo reale di tutto il corpo ecclesiale, donne e uomini, è la donna: “Si può dire che l’analogia dell’amore sponsale secondo la lettera agli Efesini riporta ciò che è «maschile» a ciò che è «femminile», dato che, come membri della Chiesa, anche gli uomini sono compresi nel concetto di «sposa» … Nella Chiesa ogni essere umano – maschio e femmina – è la «sposa», in quanto accoglie in dono l’amore di Cristo redentore, come pure in quanto cerca di rispondervi col dono della propria persona” [Lett. Ap. Mulieris dignitatem 25,4; EV 11,1321 ]. Se ora pensiamo per qualche momento agli incontri di Gesù colla donna, narrati nei Vangeli, troviamo una conferma continua di quanto è accaduto «al principio» del suo rapporto con la donna: con Maria, nell’Annunciazione. E’ subito da notare la grande stima che Gesù ha nei confronti della donna. “E’ universalmente ammesso – persino da parte di chi si pone in atteggiamento critico di fronte al messaggio cristiano – che Cristo si sia fatto davanti ai suoi contemporanei promotore della vera dignità della donna e della vocazione corrispondente a questa dignità. A volte ciò provoca stupore, sorpresa, spesso al limite dello scandalo: «si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna» (Gv 4,17)” [ibid. 12,1: EV 11,1263]. Fra i tanti incontri vorrei fermarmi brevemente solo su due di essi: quello colla donna samaritana e quello colla Maddalena la mattina di Pasqua. Nel primo si narra la restituzione piena alla donna della sua dignità: la reintegrazione della sua persona nella verità e nella bontà dell’origine. La deturpazione della dignità della persona della donna risulta dal suo essere stata di sei uomini (cfr. Gv 4,17). Come fin dal principio la Scrittura aveva insegnato, il peccato pone la donna «a disposizione dell’uomo» [“egli ti dominerà”: Gen 3,16]: la degrada ad essere suo oggetto di godimento e si sfruttamento. La reintegrazione avviene perché ella, la donna samaritana, viene introdotta nei misteri più profondi della nuova Alleanza: la stessa natura di Dio (cfr. v.24a) e la vera adorazione. Ma soprattutto è a lei che Gesù svela la sua identità, in un modo tale che non aveva mai fatto con nessun altro. Ella diviene la confidente del suo segreto più intimo. E’ stato questo un avvenimento incredibile: la donna dei sei mariti viene istruita nei misteri più grandi. Non solo, ma diventa la prima annunciatrice del Vangelo (cfr. vv. 39­42). A Maria, la piena di grazia, viene dato l’annuncio; ella lo accoglie «loco totius humanae naturae» e diviene Colei nella quale il Verbo si fa carne. Alla samaritana, degradata nella sua dignità, viene dato l’annuncio che il Messia, il dono della salvezza, è presente e vicino a lei; ella lo accoglie e diviene colei che lo annuncia. Consenso che genera vita. Ma ancora più significativo mi sembra l’incontro del Risorto con Maria di Magdala la mattina di Pasqua. Il fatto che il Signore abbia scelto di mostrarsi nella sua gloria per la prima volta non ad un apostolo, ma ad una donna, mi ha sempre profondamente stupito. Maria di Magdala è come il simbolo reale dell’umanità peccatrice che viene chiamata all’intimità collo Sposo. “E’ il simbolo della sposa infedele che Dio ha ricongiunto a sé nell’amore” [D. Barsotti, Meditazione sulle apparizioni del risorto, ed. Queriniana, Brescia 1989, pag. 30]: nella donna peccatrice, ora chiamata all’unione col Signore nella gloria, è riaffermata la verità più profonda della donna ed in questa riaffermazione è significata l’umanità. Gli apostoli, in quanto tali, non sono chiamati a questa unione: ne sono i ministri. Chi ha lo Sposo è solo la sposa. Essi sono i servi della sposa. E’ questa la ragione profonda per cui a causa della sua dignità la donna non può esercitare il ministero apostolico. In un giardino, quello dell’Eden, la donna era stata deturpata; in un giardino, quello della Risurrezione, la donna è trasfigurata dalla luce della sua piena verità. Volendo ora dire in modo sintetico quanto abbiamo finora espresso, possiamo così sintetizzare. In Cristo la donna viene redenta e trasfigurata. Redenta da ciò che aveva deturpato la sua verità originaria; trasfigurata, perché da Lui l’essenza stessa della femminilità viene interamente svelata in Maria sua madre. 

2. ASPETTI PROBLEMATICI 
Quanto ho detto finora non deve essere inteso come una sorta di “ideale”, ma è la condizione reale in cui si trova la persona umana­donna. In essa permane la verità originaria ora trasfigurata in Cristo, in un processo che la redine dalla degradazione. Questa condizione presenta sicuramente aspetti problematici su alcuni dei quali ora vorrei attirare la vostra attenzione. Per “aspetti problematici” intendo non le difficoltà che la donna oggi incontra per realizzarsi alla verità: difficoltà economiche, giuridiche, politiche …Intendo le difficoltà che il pensiero cristiano oggi incontra nel pensare una realizzazione vera della donna. Una premessa guiderà tutta la mia riflessione in questo secondo punto. Da quanto detto nel primo punto risulta che la struttura originaria della persona umana è duale, cioè comunionale­sociale. La persona è sempre nel “rapporto” con l’altro. Gli aspetti problematici, nel significato già definito, attengono al pensare l’uomo nella sua originaria struttura duale. Un primo aspetto problematico è di carattere metodologico. Quando affrontiamo un tema, la prospettiva fondamentale non deve essere quella di adattare­ripensare il tema della donna alle e secondo le “mutate condizioni sociali” come si suole dire. Al contrario. È necessario leggere e giudicare le “mutate condizioni sociali” del problemadonna alla luce di una verità rivelata riguardante la stessa. A mio giudizio è questa una delle grandi lezioni metodologiche del magistero di Giovanni Paolo II: partire “dal principio”. Metodologia che non sempre il pensiero antropologico cattolico attuale ha pienamente appreso. È un modo di pensare realista che va pienamente recuperato. Svolgendo una riflessione più contenutistica, trovo subito un secondo aspetto problematico. La dualità originaria della persona umana come dimensione sua comunionale non è affatto un guadagno acquisito dal pensiero attuale sull’uomo. Esso infatti o non ritiene originaria la dualità o non ritiene che il suo senso ultimo sia la comunione fra le persone. Perché la donna possa “fiorire” come tale, non solo nell’ambito privato, ma anche pubblico, è necessario che sia pensata ed affermata questa dualità comunionale della persona. Quali sono le radici di questo secondo aspetto problematico? Mi sembrano due. La prima riguarda la costituzione stessa della persona umana considerata in se stessa; la seconda riguarda la visione del “sociale umano” come tale. La prima. Il pensiero occidentale non è mai riuscito a far propria la grande idea biblica dell’unità della persona, perché non ha mia fatto proprio l’unico modo vero di pensarla: la tesi tommasiana dell’unità sostanziale della persona, o dell’anima forma del corpo. Detto in altro modo. La grande idea biblica è caduta dentro una ragione che non ha mai elaborato un modello adeguato per pensarla; il modello infatti tommasiano non è risultato vincente. La seconda. Se non vado errato, la struttura duale­comunionale della persona umana si inscrive dentro ad una riflessione più generale sul sociale umano, meglio sull’umano nel sociale; si inscrive dentro alla risposta alla domanda: «che cosa c’è di umano nel sociale?». Ora la cultura occidentale contemporanea dà due risposte contrarie: tutto; niente. I primi ritengono che ogni sociale sia necessariamente, immediatamente umano, secondo una visione materialistica. La vita, in tutti i suoi aspetti, è bios; è un vivente materiale. I secondi vedono nel sociale solo automatismi, nessuna intenzionalità significante. Non è che si tratti di elaborare una via di mezzo; si tratta di seguire un’altra strada nell’elaborare la risposta a quella domanda: la socialità è il luogo del trascendimento del sé. L’umano che è nel sociale è nella relazionalità interpersonale. È dentro questo contesto che si può progettare un sociale nel quale la donna può “fiorire”. In breve potremmo dire che il rapporto uomo­donna in quanto si realizza negli spazi pubblici è il test più significativo di come stiamo pensando la persona umana e la “forma umana” della società. Vorrei richiamare la vostra attenzione anche su un terzo aspetto problematico, che parte da due constatazioni: le donne sono responsabili della vita perché solo la donna la dona; perché solo la donna decide di abortire. Si pone qui uno dei misteri antropologici più profondi: il mistero della maternità. Perché questo è uno dei principali aspetti problematici nella costruzione di un’antropologia del femminile? Altri richiameranno altri aspetti non meno importanti, a me preme richiamare uno: che senso ha la maternità? Essa viene interpretata sempre più in ordine all’autorealizzazione della donna: ostacolo o mezzo per la medesima autorealizzazione. È un orizzonte individualistico che governa sempre più l’interpretazione della maternità. Voglio dire, ripeto, che non raramente il bambino è visto come «qualcosa» che è necessario alla propria realizzazione individuale, ed allora si parla di «diritto ad avere il bambino»; oppure è visto come «qualcosa» che impedisce la propria realizzazione individuale, ed allora si è configurato il «diritto ad abortire». Non sto dicendo che ogni donna senta la propria maternità in questi termini: sarei ingiusto e falso. Sto dicendo che sta penetrando nell’ethos occidentale una configurazione, anche istituzionale, della maternità che ne sta corrompendo la verità e la bellezza originaria: nei due sensi suddetti. Il secondo ordine di fatti che in questo contesto va richiamato, è costituito dalla condizione in cui oggi versa il bambino. Questa infatti è per così dire speculare alla condizione della maternità. Ciò che mi preoccupa maggiormente come pastore è il vedere quanto spesso e quanto profondamente oggi il bambino sia esposto ad una cultura nichilista. L’introduzione nella realtà, che definisce l’atto educativo, è impossibile se non si educa il bambino a discernere il vero dal falso ed il bene dal male. Ma la cultura nichilista si definisce come cultura che giudica insignificante questa distinzione. E tutto questo che cosa ha a che fare col discorso sulla maternità che stiamo facendo? Ha a che fare molto intimamente. Mai come in una situazione come questa la maternità è necessaria. La maternità intesa come luogo spirituale nel quale la persona umana viene interamente generata. Ma la condizione in cui di fatto essa si esercita impedisce sovente di essere un tale luogo. E’ la condizione in cui la famiglia è diventata sempre più una convenzione che va definita secondo l’opinione della maggioranza; in cui padri e madri si avvicendano spesso varie volte a causa di divorzi e libere convivenze. A ciò si aggiunga la consuetudine di rimandare il matrimonio sempre più avanti in età.

 3. QUESTIONI APERTE
 In questo terzo punto della mia riflessione vorrei indicare quali sono le questioni principali meritevoli di approfondimento. Non tutte, certo, ma quelle che mi sembrano fondamentali, sempre dal punto di vista in sui mi sono messo. La ripresa della struttura duale­comunionale della persona umana esige un percorso antropologico che riprenda da capo, dal “principio” il discorso circa la verità della persona umana. È impensabile una struttura comunionale là dove viene negato che l’uomo è un “soggetto”; è impensabile una verità dell’essere donna la dove è impensabile una struttura comunionale. La femminilità è relazione. Altra fondamentale questione aperta è il tema della persona­corpo: della corporeità della persona. Più precisamente: della soggettività del corpo; del corpo come linguaggio della persona. Ogni linguaggio ha una sua “grammatica”. La grammatica del linguaggio della persona è il dono di sé. Infine si pone con sempre maggior urgenza il tema della verità e del senso della procreazione, soprattutto nel versante della maternità. È in fondo la stessa domanda che ritorna: la procreazione non è né “officium naturale” né “fabbricazione di individui”, ma atto della persona nella comunione uomo­donna. Che cosa significa questa “personalizzazione dell’atto procreativo”? È una questione pienamente aperta.

4. CONCLUSIONE
 Ireneo per primo ha capito, alla luce della parola di Dio, che i destini dell’umanità – nel bene e nel male – transitano attraverso la libertà della donna. Una libertà che si radica nella sua verità: una verità che interamente risplende nell’economia della salvezza.

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