Gesù “dialogava” col mondo, quando diceva: andate, maledetti, nel fuoco eterno?
di Francesco Lamendola - 13/10/2016
C’è una parola-chiave, nella teologia e, purtroppo, anche nella pastorale neomodernista, che si è intrufolata nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II; una parola talmente abusata, talmente inflazionata, eppure, allo stesso tempo, talmente suggestiva e quasi ipnotica, almeno per quel genere di cattolici progressisti e al passo coi tempi nuovi, da avere ormai acquisito, nel giro di qualche anno, lo statuto di una verità auto-evidente, non bisognosa di ulteriori spiegazioni, anzi, al contrario, capace di spiegare essa, ed essa sola, con la forza prodigiosa che sprigiona, molte altre cose, al punto che non si saprebbe più immaginare una omelia, un catechismo, un documento pontificio, nel quale essa non ricorra o non sia, quanto meno, sottintesa: la parola dialogo.
Strano a dirsi – ma neanche poi tanto, se ben vi si riflette – questa parola magica, questa parola taumaturgica, questa parola passe-partout, grazie alla quale si chiariscono tutte le perplessità, si sciolgono tutti i dubbi e si superano tutti gli ostacoli - almeno finché si resta nel regno delle chiacchiere, e ci si guarda bene dallo scendere nel mondo basso e volgare della realtà concreta), non si trova affatto nella teologia e nella pastorale pre-conciliari: semplicemente, la dottrina cattolica non l’ha mai conosciuta, non l’ha mai adoperata, insomma ne ha fatto bellamente a meno per qualcosa come duemila anni. Non la si trova nemmeno nel Vangelo, e, in generale, nel Nuovo Testamento; meno ancora nell’Antico. Insomma la Bibbia non l’adopera: non l’adopera Gesù Cristo, non l’adopera San Paolo, non l’adoperano gli Apostoli, né la Madonna, o i Profeti, o i Patriarchi, o il grande precursore, Giovanni Battista, né gli Angeli e neppure Dio Padre. Non l’adoperano nemmeno S. Agostino, San Tommaso d’Aquino e i grandi teologi; non l’adoperano i santi e le sante; non l’adoperano i martiri. Vorrà pur dire qualcosa.
Siamo andati a controllare sulle enciclopedie bibliche di genere tematico: a fatica abbiamo spulciato qualche “dialogo”, come quello fra Dio e Satana nel Libro di Giobbe o, nello stesso libro, fra Giobbe e Dio. È evidente che, nella Bibbia, vi sono dei dialoghi: ma non c’è alcun “dialogo” nel senso con cui la parola è adoperata a partire dal Concilio Vaticano II. In effetti, questo termine parte da un presupposto dottrinale assolutamente nuovo, inedito: l’indifferentismo religioso. Assumendo, cioè, che tutte le religioni siano buone, che in tutte via sia almeno una parte della Verità divina, e che ciascuna di esse, quindi, goda di una dignità intrinseca che niente e nessuno possono permettersi di porre in dubbio, ne deriva che chi appartiene a religioni diverse “dialoga” sulla base del proprio credo, e che questo dialogo deve essere improntato ai principi, laici e democratici, cioè tipicamente moderni, della tolleranza, del mutuo rispetto, del pari valore di ciascun soggetto e delle cose che dice e in cui crede. Invece il dialogo, nella tradizione cristiana, ha tutt’altro significato: è sempre un dialogo che conduce alla Verità divina; e la Verità divina è Cristo. Perché Egli ha detto, con estrema chiarezza: Io sono la via, la verità e la vita: pertanto, chi crede questo è un cristiano; chi non lo crede, o chi lo crede con riserva, cioè a condizione che si dia qualcos’altro, non lo è. Molto semplice; perfino banale.
Gesù non pensava e non insegnava che tutte le religioni hanno qualcosa di vero e che per mezzo di qualsiasi religione si possa arriva re al Padre; tutt’altro. Non era un maestro di religione: era il Figlio di Dio fattosi uomo per amor nostro. Questa è la dottrina cattolica: ed è molto strano che ci sia bisogno di ricordarlo; una generazione fa, lo sapevano anche i bambini di terza elementare, perché lo avevano imparato sul Catechismodi san Pio X.
Nell’Octavius di Minucio Felice è di scena un dialogo fra il pagano Cecilio e il cristiano Ottavio, arbitro un amico comune, Minucio stesso: i tre passeggiano sulla spiaggia di Ostia e intanto discorrono; alla fine, Cecilio si arrende e riconosce la giustezza delle testi di Ottavio, ossia la superiorità e la verità del cristianesimo rispetto al paganesimo. È un dialogo per modo di dire: perché un dialogo nel quale uno dei due interlocutori si confessa subito vinto e si affretta a convertirsi alle tesi dell’interlocutore, del dialogo ha solo la forma esteriore, ma, in effetti, è un trattato, nel quale la tesi iniziale appare chiara sin dal’inizio, e la conclusione non ne è che la conferma scontata.
Una forma dialogica molto originale, quella del dialogo continuo, è anche adoperata dall’autore de Il pastore di Erma, uno scritto che, pur non facendo parte del canone biblico, conobbe un periodo di grande notorietà fra i cristiani dei primi secoli e fu considerato, da alcuni Padri della Chiesa, opera divinamene ispirata; solo che i personaggi che mette in scena, oltre all’angelo della Penitenza, che appare sotto le vesti di un pastore (da cui il titolo dell’opera), sono la Chiesa stessa, rappresentata da una vecchia matrona, ed una serie di personificazioni di qualità morali, e non dei personaggi reali – una tecnica letteraria che avrebbe avuto molta fortuna nella tarda antichità e nel Medioevo (si pensi solo al De Consolatione Philosophiae di Severino Boezio). In ogni caso, anche in questo caso la forma del dialogo è rispettata solo in apparenza, mentre, di fatto, è un pretesto per fare spazio a una serie di cinque visioni, dodici precetti e dieci similitudini.
Quando noi moderni parliamo di necessità del dialogo, di utilità del dialogare, della bellezza di instaurare un dialogo fra due parti, abbiamo in mente ben altro: pensiamo a due soggetti che si confrontano su un piede di pari dignità ideologica e morale, e non diamo affatto per scontato che una delle due parti finirà per accettare totalmente le tesi dell’altra, vale a dire per convertirsi. Non solo: in omaggio alla libertà di pensiero, alla libertà di stampa e a tutte le altre belle libertà di cui va fiera la civiltà moderna, ma che Pio IX aveva solennemente condannato nel Sillabo, noi – e intendiamo dire: noi cristiani per primi – siamo giunti alla convinzione che sarebbe semplicemente disdicevole instaurare un dialogo con l’altro, partendo dall’idea che egli dovrà finire con il convertirsi, perché, in tal caso, ci sembrerebbe di abusare della tolleranza e del rispetto reciproco che il dialogo stesso presuppone. Il dialogo con i “fratelli separati”, ad esempio, cioè con i luterani e con i protestanti in genere, ci sembra che non debba implicare affatto l’idea di una loro accettazione delle tesi cattoliche, e di un loro ritorno in seno al cattolicesimo: e anche recentemente, papa Francesco, vistando alcuni Paesi protestanti e facendo l’elogio di Lutero e delle Chiese protestanti, sembra avere sposato in pieno, e persino oltrepassato, questo punto di vista. Sia detto fra parentesi, il primate della Chiesa luterana svedese, visitata da papa Francesco, è una donna vescovo, sposata in chiesa con un’altra donna: per cui, oltre all’elogio del luteranesimo, la visita papale ha anche avuto l’implicito significato di dare un tacito assenso al matrimonio omosessuale, quanto meno fra i protestanti. E, ancora per inciso, la trovata di “commemorare “ i cinquecento anni della Riforma (che, storicamente, non fu una riforma, ma una rivoluzione, perché tentò di scardinare la Chiesa dalle fondamenta, e non già di riformarla), non ci sembra che sia stata molto felice: è come dire che Lutero e Calvino, in fondo, avevano ragione, o, quanto meno, avevano le “loro” ragioni, e che la Chiesa cattolica, Concilio di Trento incluso, ha sbagliato per mezzo millennio a “irrigidirsi” sulle sue posizioni. Come se la verità si potesse dividere in parti, più o meno uguali, e distribuirla un po’ di qua, e un po’ di là: specie tenendo conto che la Verità è Cristo, e che Cristo, evidentemente, non può essere diviso, perché solo il pensare una cosa del genere sarebbe eresia e apostasia dalla fede.
In verità, la sbandierata prassi del “dialogo” è incompatibile con la predicazione del Vangelo: si tratta di un punto di vista che ribalta duemila anni di Tradizione e che contraddice frontalmente le Sacre Scritture, nelle quali Gesù è assai esplicito nel dare mandato ai suoi seguaci di recarsi fino agli estremi confini del mondo per predicare il Vangelo e convertire tutti gli uomini, secondo la formula: Chi crede e verrà battezzato, sarà salvo; ma chi non crede sarà condannato (Marco, 16, 16). Da che esiste il cristianesimo, infatti, i cristiani non hanno mai pensato di dover “dialogare” con i pagani, bensì di convertirli. Tale è stato l’esplicito mandato di Gesù ai suoi discepoli; e tale è stata la missione di san Pietro e di san Paolo, i principi degli Apostoli, per la quale entrambi hanno dato la vita. Davanti ai giudici pagani, i cristiani accusati di lesa maestà non dialogavano, non tentavano di convincere i loro persecutori con argomenti razionali: proclamavano la loro fedeltà al Vangelo e rendevano testimonianza a Gesù con la loro disponibilità ad affrontare la morte. Lo stesso Gesù, quando fu tratto in arresto e processato, si rifiutò di rispondere alle domande di Erode Antipa; e a Pilato che l’interrogava rispose lo stretto necessario, ribadendo di essere venuto a testimoniare la verità e di essere il re di un regno che non appartiene a questo mondo. Davanti al Sommo sacerdote e al Sinedrio – che non stavano “dialogando” con lui, ma lo stavano interrogando come un volgare malfattore, schiaffeggiandolo e insultandolo -, del pari, non si difese e non intavolò alcuna discussione, limitandosi a riaffermare la propria natura divina.
Ma poi, dicevamo, è arrivato il Concilio Vaticano II. Nel capitolo secondo della Costituzione dogmatica Lumen gentium (1964), si delinea un nuovo tipo di rapporto fra il cattolicesimo e le altre confessioni religiose, così come nei confronti degli atei. A partire da quel momento, di fatto, l’apostolato ha incominciato ad essere un concetto in via d’archiviazione fra i cattolici: che senso ha parlare di apostolato, se le altre religioni meritano tutto il rispetto e con esse bisogna dialogare, ma non tentare di convertire i loro seguaci, per non offendere i loro sentimenti? Che senso ha avuto togliere la preghiera per la conversione dei Giudei, o evidenziare i punti di convergenza con l’islamismo, quando qualunque studente di storia delle religioni sa che tali punti di contatto esistono unicamente perché l’islamismo ha preso a prestito alcuni contenuti dottrinali del cristianesimo (e del giudaismo), rifiutando però con sdegno quelli essenziali? Che senso ha dire che anche i musulmani ammirano Gesù e rispettano la Madonna, quando si sa benissimo che Gesù, per essi, non è per niente il Figlio di Dio, e quindi la Madonna non è affatto la Madre del Signore? Che cosa significa affermare che gli Ebrei sono “i nostri fratelli maggiori”, quando il cristianesimo nasce proprio dal rifiuto di Cristo da parte degli esponenti della religione giudaica, e dalla persecuzione contro i suoi seguaci? E come si fa a confondere il rispetto dovuto a tutte le persone, anzi, l’amore rivolto ogni creatura, col rispetto per delle religioni che non contengono la Verità e non conducono alla Verità, dal momento che la Verità – fino a prova contraria; e aspettiamo che qualche teologo neomodernista si assuma la responsabilità di negarlo apertamente -, per i cristiani, è Cristo?
Il fatto è che i cristiani di tendenza modernista e progressista, inguaribili buonisti e zuccherosi predicatori di dialogo a tutto campo, hanno l’abitudine d’ignorare tutti quei passi delle Scritture che disturbano la loro idea di cosa il Vangelo dovrebbe essere, secondo le loro opinioni: proprio come fecero Lutero e Calvino, essi estrapolano quelle pagine che convengono ai loro errori, alle loro elucubrazioni, ai loro preconcetti, e fanno finta che le altre non ci siano. Non negano apertamente la verità, ma la manipolano: pur senza mentire apertamente, di fatto mentono, perché spacciano una parte del Vangelo per il tutto, e, così facendo, è come se si fabbricassero un nuovo Vangelo, che esiste solo nella loro testa, e che non è certamente quello di Gesù. Prendiamo, a titolo d’esempio, l’Inferno. Il Diavolo, si sa, e ci si perdoni il gioco di parole, per i cristiani progressisti e modernisti, è una vera e propria bestia nera: ma in realtà non esiste, è solo una rappresentazione simbolica del male (con la minuscola, perché astratto e impersonale). Padre Amorth e tutti gi esorcisti, per loro, non erano e non sono che dei poveri preti esaltati, residuati d’una mentalità sorpassata, addirittura medievale. Di conseguenza, per essi, non esiste neppure l’Inferno. Strano: perché Gesù dice esattamente il contrario, e nella maniera più netta. Rileggiamo Matteo, 25, 31-46:
Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. […]. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. […] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna.
Sono parole chiarissime, ma sgradite per i delicati orecchi di quei cattolici. Tanto peggio per loro.
Fonte: Il Corriere delle regioni
Un pezzo eccellente che sicuramente proporrò anch'io nel mio blog, perché meglio di così non si può rendere l'idea!
RispondiEliminaVero Martina, diffondiamo!
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