di Marina Corradi
Arrivando da Lione al tramonto può succedere di perdersi, cercando Ars. Fuori dall’autostrada, avanzando tra le colline dell’Ain, le strade si fanno strette, e solitari gli incroci. E quando finalmente arrivi al campanile, scopri che Ars è tutta lì: la chiesa, la vecchia canonica del Curato, due trattorie e poche case attorno, nella quiete di una campagna intatta. Se ti avventuri appena oltre il seminario trovi le pecore, e cavalli liberi al pascolo. Annusi l’aria, stupita: sa di fieno, sa di terra bagnata. Strano, ti dici, che a pochi chilometri il Tgv per Parigi divori i binari con un boato di tuono, e qui sia rimasta questa pace – come un’isola salva. Entri in un bar, la padrona è gentile, ma alle sue spalle appeso c’è scritto: «Non si fa credito a nessuno», antica diffidenza di piccolo paese. La scuola è quasi davanti al cimitero: le voci dei bambini che escono, all’una, ne riempiono il silenzio. In una vecchia locanda con le tovaglie a quadretti si mesce vino scuro, e un gatto si aggira fra i tavoli.
Un posto singolare, rimasto come fermo nel tempo. Se immagini le strade senza asfalto e luce elettrica, non doveva poi essere molto diversa l’Ars in cui arrivò nel febbraio 1818 Jean Marie Vianney, fresco di ordinazione, magro e minuscolo nella sua tonaca nera. La leggenda vuole che anche il curato si perse, tra le foschie di questa zona allora paludosa, chiamata "la Siberia dell’Ain". Giusto il posto in cui un vescovo poteva mandare il più semplice dei suoi preti, quel ragazzo che il seminario di Lione aveva scartato perché non masticava il latino. Arrivò qui, e si chinò a baciare questa terra nera. Oltre cent’anni dopo, nel Dopoguerra, un giovane prete polacco passò pellegrino da Ars e, saputo di quel gesto, lo volle ripetere nella sua prima parrocchia, a Niegowicze. Si chiamava Karol Wojtyla.
Quarant’anni restò ad Ars don Vianney, quarant’anni in questo orizzonte perso nell’infinito; contadini e bovari, e più bestie che anime in paese; e quaranta umidi inverni, con il vento ad insinuarsi tra le fessure degli infissi, ad annientare il calore del focolare.
La canonica è intatta. Muri in pietra, poche cose essenziali. Il focolare annerito, il letto, e un crocifisso scuro che sembra, di quella stanza nuda, il padrone. Accanto al letto un paio di scarpe nere, grosse, sformate, che devono avere fatto molta strada sulle sterrate fangose dell’Ain, quando il giovane Vianney andava a sostituire un parroco malato nei paesi attorno, e lasciava sul registro di battesimi e morti la sua firma. Miserieux, Savigneux, Rancé, uno sciame di villaggi che oggi in macchina raggiungi in un minuto, ma che a piedi sotto il solleone o nella nebbia dovevano essere invece ben lontani.
E in questo orizzonte di campagna profonda ti immagini quel piccolo prete, all’apparenza un uomo da nulla, che investe Ars come una folata di vento. Accoglie orfani, sfama miserabili, richiama al catechismo i bambini che i genitori volevano tenere dietro alle greggi; predica, benedice, ma soprattutto prega. C’è un’immagine che emerge dalle carte della canonizzazione: i contadini dell’Ain si stupirono perché quando alle cinque del mattino andavano a mungere le vacche, dietro la finestra della canonica brillava già una candela. A notte ancora fonda, Vianney pregava. «Non deve essere uno come gli altri», cominciavano a sussurrare in paese. E allora una mattina molto presto ti alzi quando sta sorgendo il sole, per vedere com’è, come era, l’alba di Ars, centocinquant’anni fa.
La pace delle colline a quest’ora quasi intimorisce. I passi sulla strada, nel silenzio assoluto, risuonano secchi, sonanti. Un’eco di muggiti da una stalla, una campana lontana, mentre le ultime ombre della notte si dileguano ai margini dei boschi. Era così l’alba del curato, quando con le sue scarpe grosse andava a benedire un moribondo? Uno sbalorditivo silenzio è il marchio di questo borgo di una remota campagna francese.
Sulla facciata della chiesa è rimasta aperta una porta, più piccola di quella principale. Se entri sei subito accanto a un confessionale antico, col gradino smussato dalle ginocchia dei penitenti. Quella porta l’aveva aperta il Curato per chi voleva confessarsi, ma si vergognava a farsi vedere. Lui stava in quella cella scura anche per 17 ore al giorno, perché la gente, alla fine, veniva a migliaia, anche da Parigi per una sua parola di perdono. Aveva, come lo avrebbe avuto padre Pio, il carisma della profezia: guardava in faccia un uomo, e leggeva. Carisma che affascina e spaventa, come di uno che si muova su una terra di confine, tra ciò che è della terra e ciò che è del cielo.
E attorno al campanile della quieta innocente Ars si aggiravano ombre fugaci. C’è ancora, nella canonica, un vecchissimo portone con un catenaccio arrugginito. È a quello che, di notte, capitava di sentire battere pugni rabbiosi, in un vociare ostile; ma se il curato si alzava, lì fuori non c’era nessuno. I parrocchiani che lo accompagnarono a perlustrare non vollero tornare, intimoriti: giacché non è possibile che chi batte e impreca contro a un portone non lasci, in una notte di neve, un’impronta. Vianney non se ne preoccupò più che tanto. A difendermi, disse, mi basta il Rosario.
Ma non è, il marchio di pace di questo villaggio, il segno di una vita senza battaglia. La battaglia, il Curato ce l’aveva nel cuore. Confidò solo una volta a una parrocchiana che cosa lo tormentava, e che cosa arginava in quelle notti passate a pregare: «La mia tentazione, è la disperazione». A tratti, la battaglia è disperata. Per tre volte, sfinito dall’angoscia, il parroco cerca di abbandonare la sua trincea nell’Ain. La gente lo va a riprendere, fa le barricate, perché non se ne vada. Morirà ad Ars, con tutto un paese attorno a vegliarlo.
E oggi, benché tanto tempo sia passato, tutto qui pare così stranamente com’era. Tra le stanze della canonica fischia ancora il vento, e il crocifisso ne sembra il muto padrone. Lione è ad appena quaranta chilometri, con gli svincoli e le auto in coda ai caselli nei week end. L’anima di Ars è in questa pace salvata, come un ultimo regalo.
Arrivando da Lione al tramonto può succedere di perdersi, cercando Ars. Fuori dall’autostrada, avanzando tra le colline dell’Ain, le strade si fanno strette, e solitari gli incroci. E quando finalmente arrivi al campanile, scopri che Ars è tutta lì: la chiesa, la vecchia canonica del Curato, due trattorie e poche case attorno, nella quiete di una campagna intatta. Se ti avventuri appena oltre il seminario trovi le pecore, e cavalli liberi al pascolo. Annusi l’aria, stupita: sa di fieno, sa di terra bagnata. Strano, ti dici, che a pochi chilometri il Tgv per Parigi divori i binari con un boato di tuono, e qui sia rimasta questa pace – come un’isola salva. Entri in un bar, la padrona è gentile, ma alle sue spalle appeso c’è scritto: «Non si fa credito a nessuno», antica diffidenza di piccolo paese. La scuola è quasi davanti al cimitero: le voci dei bambini che escono, all’una, ne riempiono il silenzio. In una vecchia locanda con le tovaglie a quadretti si mesce vino scuro, e un gatto si aggira fra i tavoli.
Un posto singolare, rimasto come fermo nel tempo. Se immagini le strade senza asfalto e luce elettrica, non doveva poi essere molto diversa l’Ars in cui arrivò nel febbraio 1818 Jean Marie Vianney, fresco di ordinazione, magro e minuscolo nella sua tonaca nera. La leggenda vuole che anche il curato si perse, tra le foschie di questa zona allora paludosa, chiamata "la Siberia dell’Ain". Giusto il posto in cui un vescovo poteva mandare il più semplice dei suoi preti, quel ragazzo che il seminario di Lione aveva scartato perché non masticava il latino. Arrivò qui, e si chinò a baciare questa terra nera. Oltre cent’anni dopo, nel Dopoguerra, un giovane prete polacco passò pellegrino da Ars e, saputo di quel gesto, lo volle ripetere nella sua prima parrocchia, a Niegowicze. Si chiamava Karol Wojtyla.
Quarant’anni restò ad Ars don Vianney, quarant’anni in questo orizzonte perso nell’infinito; contadini e bovari, e più bestie che anime in paese; e quaranta umidi inverni, con il vento ad insinuarsi tra le fessure degli infissi, ad annientare il calore del focolare.
La canonica è intatta. Muri in pietra, poche cose essenziali. Il focolare annerito, il letto, e un crocifisso scuro che sembra, di quella stanza nuda, il padrone. Accanto al letto un paio di scarpe nere, grosse, sformate, che devono avere fatto molta strada sulle sterrate fangose dell’Ain, quando il giovane Vianney andava a sostituire un parroco malato nei paesi attorno, e lasciava sul registro di battesimi e morti la sua firma. Miserieux, Savigneux, Rancé, uno sciame di villaggi che oggi in macchina raggiungi in un minuto, ma che a piedi sotto il solleone o nella nebbia dovevano essere invece ben lontani.
E in questo orizzonte di campagna profonda ti immagini quel piccolo prete, all’apparenza un uomo da nulla, che investe Ars come una folata di vento. Accoglie orfani, sfama miserabili, richiama al catechismo i bambini che i genitori volevano tenere dietro alle greggi; predica, benedice, ma soprattutto prega. C’è un’immagine che emerge dalle carte della canonizzazione: i contadini dell’Ain si stupirono perché quando alle cinque del mattino andavano a mungere le vacche, dietro la finestra della canonica brillava già una candela. A notte ancora fonda, Vianney pregava. «Non deve essere uno come gli altri», cominciavano a sussurrare in paese. E allora una mattina molto presto ti alzi quando sta sorgendo il sole, per vedere com’è, come era, l’alba di Ars, centocinquant’anni fa.
La pace delle colline a quest’ora quasi intimorisce. I passi sulla strada, nel silenzio assoluto, risuonano secchi, sonanti. Un’eco di muggiti da una stalla, una campana lontana, mentre le ultime ombre della notte si dileguano ai margini dei boschi. Era così l’alba del curato, quando con le sue scarpe grosse andava a benedire un moribondo? Uno sbalorditivo silenzio è il marchio di questo borgo di una remota campagna francese.
Sulla facciata della chiesa è rimasta aperta una porta, più piccola di quella principale. Se entri sei subito accanto a un confessionale antico, col gradino smussato dalle ginocchia dei penitenti. Quella porta l’aveva aperta il Curato per chi voleva confessarsi, ma si vergognava a farsi vedere. Lui stava in quella cella scura anche per 17 ore al giorno, perché la gente, alla fine, veniva a migliaia, anche da Parigi per una sua parola di perdono. Aveva, come lo avrebbe avuto padre Pio, il carisma della profezia: guardava in faccia un uomo, e leggeva. Carisma che affascina e spaventa, come di uno che si muova su una terra di confine, tra ciò che è della terra e ciò che è del cielo.
E attorno al campanile della quieta innocente Ars si aggiravano ombre fugaci. C’è ancora, nella canonica, un vecchissimo portone con un catenaccio arrugginito. È a quello che, di notte, capitava di sentire battere pugni rabbiosi, in un vociare ostile; ma se il curato si alzava, lì fuori non c’era nessuno. I parrocchiani che lo accompagnarono a perlustrare non vollero tornare, intimoriti: giacché non è possibile che chi batte e impreca contro a un portone non lasci, in una notte di neve, un’impronta. Vianney non se ne preoccupò più che tanto. A difendermi, disse, mi basta il Rosario.
Ma non è, il marchio di pace di questo villaggio, il segno di una vita senza battaglia. La battaglia, il Curato ce l’aveva nel cuore. Confidò solo una volta a una parrocchiana che cosa lo tormentava, e che cosa arginava in quelle notti passate a pregare: «La mia tentazione, è la disperazione». A tratti, la battaglia è disperata. Per tre volte, sfinito dall’angoscia, il parroco cerca di abbandonare la sua trincea nell’Ain. La gente lo va a riprendere, fa le barricate, perché non se ne vada. Morirà ad Ars, con tutto un paese attorno a vegliarlo.
E oggi, benché tanto tempo sia passato, tutto qui pare così stranamente com’era. Tra le stanze della canonica fischia ancora il vento, e il crocifisso ne sembra il muto padrone. Lione è ad appena quaranta chilometri, con gli svincoli e le auto in coda ai caselli nei week end. L’anima di Ars è in questa pace salvata, come un ultimo regalo.
(fonte: Avvenire)
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