29 giugno 2011
Il 29 giugno 1951, festa di san Pietro e Paolo, nel duomo di Frisinga vennero ordinati oltre quaranta giovani sacerdoti. Nella Baviera cattolica del dopoguerra quaranta ordinazioni non erano una notizia; ne riferì, probabilmente, solo la stampa locale. Per il resto, quel venerdì era una splendida tranquilla giornata di sole. Il giorno dopo in Germania e in Europa la gente avrebbe letto distrattamente i giornali: il 29 giugno 1951 non era successo proprio niente. Tranne che uno dei quaranta di Frisinga, nel giorno di san Pietro e Paolo di sessant’anni fa, si chiamava Joseph Ratzinger. Il cardinale di Monaco, Faulhaber, li chiamò ad uno ad uno, e ciascuno rispondeva: «Adsum», eccomi. «Adsum», rispose anche, fra gli altri, un ignoto ragazzo di 24 anni.
E nessuno sapeva, nessuno poteva riconoscere, in quell’evento apparentemente ordinario, che a Frisinga prendeva forma quel mattino un altro pezzo di storia della Chiesa. Veniva ordinato sacerdote un futuro pontefice; ed era un figlio di quel popolo tedesco, da cui si era originata la più sanguinosa delle guerre che era ancora, nei pensieri di tutti in Europa, così aspramente recente e dolorosa.
29 giugno 1951, un giorno, all’apparenza, uguale nella lista oscura dei giorni di cui non ci ricorderemo. Perché la storia spesso non coincide con quella trama nascosta nella storia stessa, che i cristiani chiamano Provvidenza. Sotto alle torri di una cattedrale bavarese: «Joseph Ratzinger». «Adsum», eccomi. Era lo stesso ragazzo, matricola del “servizio lavorativo”, che un ufficiale delle SS aveva cercato, negli ultimi disperati giorni della guerra, di indurre a un arruolamento “volontario”; e che nel rispondere «io voglio farmi prete» era stato coperto di scherni. Era l’adolescente cui un ufficiale della Wehrmacht aveva detto sprezzante: «Lascia perdere, ragazzo: nella nuova Germania non ci sarà più bisogno di preti».
E invece ce n’era ancora – ce n’è sempre – bisogno; così che il seminario di Frisinga, adibito a ospedale militare, aveva dovuto già alla fine del 1945 riaprire i battenti, per ospitare centoventi seminaristi; uomini maturi, segnati dalla sofferenza del fronte, oppure nemmeno ventenni; come quel Joseph Ratzinger, appunto, che aveva allora 19 anni appena. E il rettore del seminario di Frisinga era un sacerdote reduce da cinque anni a Dachau; e i ragazzi lo amavano e lo chiamavano semplicemente “padre”, tanto era padre per loro davvero.
Che incrocio misterioso di destini, sotto a quello vistoso, chiassoso della cronaca e della storia. Da una parte i summit dei potenti, le dichiarazioni di guerra, gli eserciti che invadono o aprono il fuoco, le folle in tripudio; dall’altra gesti quotidiani di ignoti padri e madri, e scelte dapprima silenziose, e studi, e amicizie che compiono lentamente, come tessere, un mosaico. Accanto alla storia un’altra storia, profonda come un solco d’aratro nella terra, e oscura come i semi che ci vengono buttati a morire.
E a rinascere. Non era forse un giorno all’apparenza come tutti gli altri anche il 18 maggio 1920 a Wadowice, in Polonia? A saperlo, chi era quel bambino appena nato, Karol, ci sarebbe stato da fare una gran festa. Ma nessuno sapeva – tranne Dio, che tesse il suo disegno senza clamore.
Di modo che in certi giorni, e magari anche in questi nostri, in cui tutto sembra confuso e decadente e smarrito, altri destini, non visti, forse vedono la luce e si dipanano nel corpo della Chiesa.
Noi, ignari, scoraggiati, spesso, nel trarre quasi matematicamente le somme di ciò che vediamo, nel paventare il futuro dai titoli dei giornali: dove si annuncia ogni sciagura e violenza e vergogna, ma di quell’altra storia silenziosa non si può riferire. Come il 29 giugno di sessant’anni fa, giorno all’apparenza ordinario, banale; quando un ragazzo biondo in una cattedrale tedesca, chiamato, rispondeva: «Adsum». E, egli stesso ignaro, si incamminava verso il soglio di Pietro.
Il 29 giugno 1951, festa di san Pietro e Paolo, nel duomo di Frisinga vennero ordinati oltre quaranta giovani sacerdoti. Nella Baviera cattolica del dopoguerra quaranta ordinazioni non erano una notizia; ne riferì, probabilmente, solo la stampa locale. Per il resto, quel venerdì era una splendida tranquilla giornata di sole. Il giorno dopo in Germania e in Europa la gente avrebbe letto distrattamente i giornali: il 29 giugno 1951 non era successo proprio niente. Tranne che uno dei quaranta di Frisinga, nel giorno di san Pietro e Paolo di sessant’anni fa, si chiamava Joseph Ratzinger. Il cardinale di Monaco, Faulhaber, li chiamò ad uno ad uno, e ciascuno rispondeva: «Adsum», eccomi. «Adsum», rispose anche, fra gli altri, un ignoto ragazzo di 24 anni.
E nessuno sapeva, nessuno poteva riconoscere, in quell’evento apparentemente ordinario, che a Frisinga prendeva forma quel mattino un altro pezzo di storia della Chiesa. Veniva ordinato sacerdote un futuro pontefice; ed era un figlio di quel popolo tedesco, da cui si era originata la più sanguinosa delle guerre che era ancora, nei pensieri di tutti in Europa, così aspramente recente e dolorosa.
29 giugno 1951, un giorno, all’apparenza, uguale nella lista oscura dei giorni di cui non ci ricorderemo. Perché la storia spesso non coincide con quella trama nascosta nella storia stessa, che i cristiani chiamano Provvidenza. Sotto alle torri di una cattedrale bavarese: «Joseph Ratzinger». «Adsum», eccomi. Era lo stesso ragazzo, matricola del “servizio lavorativo”, che un ufficiale delle SS aveva cercato, negli ultimi disperati giorni della guerra, di indurre a un arruolamento “volontario”; e che nel rispondere «io voglio farmi prete» era stato coperto di scherni. Era l’adolescente cui un ufficiale della Wehrmacht aveva detto sprezzante: «Lascia perdere, ragazzo: nella nuova Germania non ci sarà più bisogno di preti».
E invece ce n’era ancora – ce n’è sempre – bisogno; così che il seminario di Frisinga, adibito a ospedale militare, aveva dovuto già alla fine del 1945 riaprire i battenti, per ospitare centoventi seminaristi; uomini maturi, segnati dalla sofferenza del fronte, oppure nemmeno ventenni; come quel Joseph Ratzinger, appunto, che aveva allora 19 anni appena. E il rettore del seminario di Frisinga era un sacerdote reduce da cinque anni a Dachau; e i ragazzi lo amavano e lo chiamavano semplicemente “padre”, tanto era padre per loro davvero.
Che incrocio misterioso di destini, sotto a quello vistoso, chiassoso della cronaca e della storia. Da una parte i summit dei potenti, le dichiarazioni di guerra, gli eserciti che invadono o aprono il fuoco, le folle in tripudio; dall’altra gesti quotidiani di ignoti padri e madri, e scelte dapprima silenziose, e studi, e amicizie che compiono lentamente, come tessere, un mosaico. Accanto alla storia un’altra storia, profonda come un solco d’aratro nella terra, e oscura come i semi che ci vengono buttati a morire.
E a rinascere. Non era forse un giorno all’apparenza come tutti gli altri anche il 18 maggio 1920 a Wadowice, in Polonia? A saperlo, chi era quel bambino appena nato, Karol, ci sarebbe stato da fare una gran festa. Ma nessuno sapeva – tranne Dio, che tesse il suo disegno senza clamore.
Di modo che in certi giorni, e magari anche in questi nostri, in cui tutto sembra confuso e decadente e smarrito, altri destini, non visti, forse vedono la luce e si dipanano nel corpo della Chiesa.
Noi, ignari, scoraggiati, spesso, nel trarre quasi matematicamente le somme di ciò che vediamo, nel paventare il futuro dai titoli dei giornali: dove si annuncia ogni sciagura e violenza e vergogna, ma di quell’altra storia silenziosa non si può riferire. Come il 29 giugno di sessant’anni fa, giorno all’apparenza ordinario, banale; quando un ragazzo biondo in una cattedrale tedesca, chiamato, rispondeva: «Adsum». E, egli stesso ignaro, si incamminava verso il soglio di Pietro.
Marina Corradi
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