Fonte: Corsia dei Servi
Di Mario Palmaro
Il rapporto fra diritto e morale ha appassionato generazioni di teologi e filosofi, che si sono confrontati con uno degli snodi più problematici del pensiero umano. Secondo alcuni, questo punto nevralgico del dibattito intellettuale sarebbe – con immagine colorita e invero molto efficace – il Capo Horn della filosofia del diritto. Un luogo concettuale dove, in altre parole, è necessario passare se si vuole navigare fino alla meta; ma allo stesso tempo, un posto dove molti se non tutti alla fine farebbero, inesorabilmente, naufragio.
In questa immagine vi è indubbiamente molta verità. Tuttavia, la consapevolezza della difficoltà non può indurre a imboccare facili scorciatoie. E per un motivo molto semplice: l’uomo deve necessariamente risolvere il problema del rapporto diritto-morale, perché altrimenti non è in grado di scrivere alcuna norma giuridica.
E senza norma giuridica, è impossibile la convivenza umana, il sorgere della società, lo sviluppo delle aspirazioni più profonde ed elevate della persona. Soltanto un sistema straordinariamente efficace come l’ordinamento giuridico romano poteva permettere la nascita e lo sviluppo di una delle più grandi civiltà della storia umana. Soltanto in quel sistema – governato da regole e disciplina - poteva prosperare la ricchezza culturale delle arti classiche, documentata dalla poesia, alla letteratura, all’architettura latina. E, aggiungiamo noi, soltanto dentro questo stupendo prodotto del genio umano poteva nascere e svilupparsi in quel modo straordinario l’avventura bimillenaria della Chiesa cattolica. Che è universale, ma insieme, indissolubilmente, “romana”.
Ricapitolando: l’uomo ha bisogno del diritto; il diritto ha bisogno di un criterio, di un metro di giudizio “metagiuridico” che consenta al legislatore di stabilire che cosa è lecito e che cosa è vietato; questo metro di giudizio è sempre il prodotto della risposta a una sola e unica domanda: quale rapporto esiste fra diritto e morale.
In questo breve studio cercheremo di toccare alcuni aspetti di questa enorme questione, mettendo in luce soprattutto i punti che legano il problema in oggetto alle più dibattute tematiche della bioetica, con particolare riferimento alle tecniche di fecondazione artificiale.
La scomparsa della morale e della legge naturale
E’ necessaria una premessa metodologica che ha anche una valenza storica. Nel nostro ragionamento terremo per valido un assunto, che ha la valenza di un assioma ragionevole: esiste una morale universale, cioè esiste un sistema di riferimento che è in grado di orientare l’azione umana, definendo in maniera assoluta – cioè non passibile di eccezioni – comportamenti che sono sempre e comunque non conformi alla natura dell’uomo e al suo bene. Questa premessa non sarebbe stata necessaria fino a qualche decennio fa, quando era pacificamente accettata l’idea che esistano degli “assoluti morali”, cioè dei principi validi sempre, inderogabili e immutabili, veri in ogni luogo e a ogni latitudine. Oggi lo scenario è stato sconvolto dalla diffusione di un pensiero debole, di forte impronta relativista e nichilista, che nega la possibilità di affermare in maniera assoluta che “uccidere l’innocente” è sempre e comunque un male morale grave. Questa premessa rende ragione di un fatto: e cioè che la società post moderna non solo fa fatica a definire il rapporto fra diritto e morale, ma si mette nelle condizioni di abolire, di fatto, uno dei due termini del confronto: la morale è morta.
Con la morale muore anche e soprattutto l’idea di una verità oggettiva, razionalmente conoscibili, che guida non solo le coscienze individuali, ma anche le scelte collettive, le decisioni assunte nell’ambito del bene comune. E’ il declino della dottrina del diritto naturale, che curiosamente sta evaporando soprattutto nell’ambito di una parte importante del mondo cattolico.
Il Novecento ha fatto registrare nell’ambito della teologia cattolica la diffusione di un pensiero impregnato di protestantesimo, nel quale l’attenzione alla “Parola”, cioè al libro sacro, ha spazzato via il legame tipicamente cattolico fra fede e ragione, immortalato dal genio di Tommaso d’Aquino e sviluppato pazientemente dalla Tradizione. Ne è scaturita una deriva fideistica, che ha cominciato a pensare e a insegnare che le verità morali non sono comprensibili al di fuori dell’ottica della fede in Cristo. Di conseguenza, muore una volta per tutte la speranza di riconoscere alcuni principi morali capaci di informare la struttura del sistema politico e giuridico. La morale diventa un fatto “di coscienza” e solo di coscienza, per cui niente e nessuno può pretendere di stabilire che una certa condotta è sempre e comunque reato. Tanto per essere chiari: abortire sarà anche una brutta cosa in termini morali “per chi è cattolico”; ma ciò non significa che la società civile debba vietare quel comportamento.
A pensarci bene, si tratta di un’eresia terribile. Che, da un lato, nega incredibilmente il valore oggettivo dei fatti e riduce la realtà a ciò che l’uomo percepisce. Così, il concepito diventa “uomo secondo me”, ma anche “grumo di cellule secondo un altro”. Dall’altro lato, questo fideismo offende profondamente l’uomo non credente, perché afferma che la sua è – razionalmente parlando – la condizione di un minus habens, che non è capace di riconoscere la verità morale che invece è concessa al credente. In realtà, la Chiesa fu sempre fieramente legata alla dottrina della legge naturale, alla ragionevolezza dei precetti morali, e alla possibilità di riconoscere il bene e il male usando la ragione. Da ultimo, è una malattia del pensiero che pecca contro la Provvidenza, perché presuppone che Dio non possa aiutare anche chi non possiede il dono della fede a ricercare con sincerità la verità di fronte, ad esempio, alle questioni scottanti dell’aborto o dell’eutanasia.
Come vedremo, in realtà non c’è Stato che non sia costretto, anche solo implicitamente, a stabilire delle verità inconfutabili come fondamento del proprio ordinamento. Pensiamo ai principi che di solito aprono le carte costituzionali. Proprio questo fatto – la inevitabilità di un confronto fra potere civile e legge morale – riporta continuamente al centro dell’attenzione il tema della legge naturale. E curiosamente, in questi anni, proprio a causa di quella crisi attraversata dal pensiero cattolico (non però dal Magistero) di cui abbiamo appena parlato, sono proprio i pensatori laici, i non credenti onesti, i cosiddetti “atei devoti” a pretendere la riapertura di un caso che sembrava chiuso. Il caso serio del rapporto fra morale e diritto.
Una domanda fondamentale
Quali sono le condotte che costituiscono reato? Potremmo rispondere: quelle che sono vietate e punite dal codice penale? La risposta è formalmente ineccepibile. Ma porta con sé una serie di questioni molto serie. Ad esempio: che cosa accade se il codice penale è quello voluto da un dittatore sanguinario? E ancora: che cosa accade se la scienza rende possibile un comportamento prima mai verificatosi – ad esempio la produzione dell’uomo in provetta – e il codice tace sulla materia, perché è stato scritto molti anni prima? E di più: se il codice penale ancora non esiste, perché stiamo parlando di uno Stato di nuova fondazione, che deve darsi le sue leggi, come accadde ad esempio quando nacquero gli Stati Uniti d’America; ecco, in simile caso, con quale criterio il legislatore compilerà la lista delle “cose proibite”?
Queste domande fanno comprendere a ogni uomo che non sia accecato dall’ideologia come la questione giuridica sia legata a filo doppio con la questione morale. Cioè con il patrimonio di valori e di verità che un popolo vuole porre a fondamento della sua convivenza ordinata.
A questo problema possono essere opposte soluzioni fra loro diversissime. Proviamo a riassumerle senza pretendere di esaurire l’elenco. Il legislatore può scegliere sostanzialmente fra questi criteri di giudizio:
a) La legge naturale
b) La legge positiva
c) Il consenso dell’opinione pubblica
d) L’utilità (efficienza)
e) L’autodeterminazione
f) L’efficacia (effettività)
a. la legge naturale
E’ la soluzione più antica e collaudata. Si parte dal presupposto che la legge eterna, formulata da Dio, indica la strada maestra all’uomo legislatore. Il quale riceve in sé l’inclinazione innata a ricercare la legge naturale, ma deve inoltre compiere un atto della sua volontà per orientare la ragione verso questa ricerca. Questo modello pone il legislatore umano in una condizione di limite: se la legge scritta dagli uomini contraddice la legge naturale, siamo di fronte a una legge ingiusta (non “imperfetta”, non “inadeguata”…), che non è nemmeno una legge in senso proprio, ma una sua corruzione (San Tommaso d’Aquino). E, dunque, questa legge ingiusta cessa di vincolare in coscienza l’uomo retto, che ha il dovere di fare obiezione all’ingiustizia legalizzata e a non darsi pace finchè questa ingiustizia sia tolta di mezzo. Questa dottrina presenta anche elementi problematici (ad esempio la conoscenza della legge naturale, in che cosa essa consista, quali siano i suoi contenuti) che vanno riconosciuti e approfonditi, ma che non scalfiscono l’idea originaria, forte e affascinante, che sta alla base dell’idea di diritto naturale. Il pensiero contemporaneo si è ribellato violentemente a questa dottrina, ma continua a farne ampio uso di contrabbando, come ad esempio quando definisce una lista di diritti inviolabili – i diritti dell’uomo – la cui fondazione non può che essere, appunto, nella legge naturale.
b. La legge positiva
E’ la dottrina del positivismo giuridico, che ha avuto molti padri, fra i quali spicca certamente il filosofo del diritto di origine boema Hans Kelsen. Per il positivismo, tutto esiste nel diritto positivo, e nulla esiste al di fuori del diritto positivo. La legge è solo la norma scritta, e al di fuori di essa per il giurista non vi è nulla di rilevante. La norma è vincolante in virtù del fatto che è stata posta formalmente in modo corretto nell’ordinamento giuridico. Se possiede tali requisiti, esiste e obbliga. E’ del tutto irrilevante quale sia il suo contenuto. Si può ben capire perché questa dottrina sia nata e si sia diffusa nel Novecento, il secolo che ha visto scatenarsi la più imponente mattanza di uomini innocenti sotto l’ombrello formale dei sistemi giuridici dittatoriali del socialismo reale e del nazionalsocialismo.
c. il consenso dell’opinione pubblica
Questa soluzione è oggi la più gettonata, e riscuote un successo enorme all’interno della diffusione che il sistema democratico sta conoscendo nel mondo. L’idea è semplice, perfino banale: è giusto per legge ciò che la maggioranza pensa sia giusto. E, di converso, anche l’ingiusto viene definito di volta in volta dal numero delle teste che scelgono di schierarsi dall’una piuttosto che dall’altra parte. Dunque, se ne ricava che non esistono comportamenti in sé stessi criminosi, sempre e comunque; ma esistono soltanto condotte che qui e adesso, secondo il sentimento comune, sono criminose. La società dei cannibali scriverà leggi che magari vietano di mangiare con la forchetta, ma consentono di cucinare un nostro simile. Allo stesso modo, la società occidentale del terzo millennio magari vieta di prendere a bastonate un mulo che non vuole muoversi; ma considera lecito uccidere un essere umano innocente, purchè non sia ancora nato. In questo scenario, non esiste alcuna relazione fra diritto e morale, poiché la morale non esiste più, se non come arredamento interiore delle singole coscienze. Per la verità, nemmeno il diritto esiste più. Esiste solo la forza, cioè la capacità di coercizione esercitata dalla maggioranza attraverso i canali formalmente puliti e rispettabili del sistema democratico.
d. l’utilità (efficienza)
La legge sarà qui il prodotto di ciò che è ritenuto più utile per la maggior parte delle persone che vivono all’interno di una comunità. Qui il diritto cessa di essere al servizio della persona, scompare il “primato del singolo” - per usare l’espressione del grande Soren Kierkegaard – in relazione con altri da sé, in vista di un bene comune. E sulla scena irrompe l’idea del primato non del bene comune, ma del bene della maggior parte dei consociati. In tale visione, la legge potrà ammettere la liceità di comportamenti che ledano i diritti fondamentali individuali. Potrà perfino legittimare atti di disposizione della vita altrui, quando si ritenga che questa scelta sia la migliore per la maggior parte dei consociati. Se un cittadino è ad esempio gravemente ammalato, è possibile che sia la cosa migliore per la maggior parte della società “eliminarlo”, quando la sua vita appaia ormai solo un peso insopportabile per la felicità e l’utilità dei suoi concittadini (eutanasia per motivi sociali ed economici). Concittadini che potranno così usare meglio i soldi risparmiati con le inutili cure nei confronti del malato nullafacente, godendo meglio la loro vita sana, almeno fino al giorno in cui, cadendo essi stessi malati, non verranno tolti di mezzo da altri sani. In una spirale non propriamente improntata alla solidarietà.
e. l’autodeterminazione
E’ il modello di maggior suggestione elaborato dalla società contemporanea. Fa leva sulla innata propensione dell’uomo a preferire modelli sociali nei quali egli possa fare di testa sua, piuttosto che modelli nei quali la volontà individuale sia costretta a confrontarsi con la categoria della responsabilità e del bene morale oggettivo. A ognuno di noi piace istintivamente di più un’autostrada nella quale non vi siano limiti di velocità, piuttosto che percorrerne una dove la polizia stradale pone delle condizioni alla circolazione e punisce i trasgressori. L’autodeterminazione si fonda sull’idea che l’uomo è il padrone della propria vita e deve poter scegliere. La scelta è già etica ed è del tutto indifferente quale sia il contenuto della scelta stessa. Questo mito della scelta è così potente da travolgere nel tempo non soltanto la propria sfera personale (ad esempio: scelgo di farmi uccidere perché non voglio più morire = eutanasia su richiesta), ma anche l’ambito dei diritti altrui (ad esempio: scelgo di non proseguire la gravidanza, cioè scelgo di sopprimere un altro-da-me = aborto procurato). Il principio di autodeterminazione si è così radicato nella società presente, da aver conquistato anche fette significative di società che in origine contestavano questa prospettiva. Capita così che la questione dell’aborto sia sempre più spesso considerata da tutti una questione di “scelta della donna”, che tutt’al più dovrà essere aiutata a “scegliere davvero”, offrendole una buona scorta di pannolini. Senza riflettere che, stando così le cose, si sta affermando che “uccidere un essere umano innocente è una questione di scelta”.
f. l’efficacia
Alcuni filosofi del diritto contemporanei hanno messo l’accento sul fatto che non basta scrivere le leggi e renderle pubbliche. Bisogna poi impegnarsi affinché esse siano effettivamente rispettate dai consociati. Giusto. Il problema concettuale nasce dal fatto che questi pensatori hanno preteso di trasformare l’indice di effettività della norma – cioè la sua incidenza reale nella vita di tutti i giorni – in criterio decisivo per il legislatore. In altre parole: se una certa condotta è vietata dall’ordinamento, ma tantissimi cittadini se ne infischiano, e non rispettano la norma stessa, allora è meglio che il legislatore ne prenda atto, e riformuli i suoi codici adattandosi a ciò che i più fanno. Anche questa dottrina ha riscosso nella società democratica un successo enorme, soprattutto sul terreno della bioetica e dei temi connessi alla famiglia e al matrimonio. L’aborto è stato legalizzato sostenendo che era ampiamente praticato in barba al divieto legale; la fivet viene regolamentata perché altrimenti – si dice – verrà comunque praticata in laboratori poco sicuri; l’eutanasia dovrà essere legalizzata per sconfiggere la pratica clandestina. Non rendendosi così conto che la legge scompare, perché abdica al suo ruolo intrinseco: porre una barriera coattiva alla inclinazione indubbiamente presente nell’uomo a tenere un certo comportamento deviante.
Un criterio veramente umano
Da quanto abbiamo pur sinteticamente scritto, appare evidente che i criteri alternativi alla dottrina della legge naturale appaiono ampiamente lacunosi, insoddisfacenti nei risultati storici, contraddittori nelle premesse logiche e concettuali. Certo, dobbiamo riconoscere che il pensiero contemporaneo, la dottrina giuridica prevalente, il senso comune della gente, sposano per lo più le teorie formalistiche, cioè quelle che negano la necessità di una legge naturale e di una subordinazione dell’ordinamento giuridico ad esso. Ciò non significa che non si debba al contrario rilanciare con forza la necessità di riscoprire il diritto naturale.
In questa sana e saggia prospettiva, rimane però aperto un problema: se è vero – come è vero – che l’uomo deve dipendere dalla legge naturale, e che ad essa devono riferirsi parlamenti quando legiferano; se è vero che esistono azioni riprovevoli in sé e per sé (rubare piuttosto che tradire la propria moglie); se è vero inoltre che la morale ha una sua ripercussione sulla norma giuridica (al ladro non diremo soltanto “bricconcello”, ma lo faremo arrestare dai gendarmi); se è vero tutto questo, allora quando una condotta immorale deve essere perseguita anche dal legislatore?
Ancora una volta, proveremo a rispondere in termini molto sintetici, per favorire la chiarezza espositiva.
Un atto umano immorale dovrà essere sanzionato anche dall’ordinamento giuridico pubblico quando:
- Appartiene alla categoria dei mala in se: è oggettivamente un male. Non “è male perché l’ha detto il legislatore”, ma al contrario “è sanzionato perché comporta un male per l’uomo”. L’omicidio è reato perché comporta un danno gravissimo per un innocente e per i suoi familiari e amici; e non, viceversa, è un male perché il codice lo vieta.
- Minaccia il bene comune: lede un diritto altrui o un diritto indisponibile. Se nel mio cuore progetto seriamente di uccidere mia suocera, sono moralmente censurabile. Ma il diritto si disinteressa di questo mio desiderio criminoso. E giustamente, perché non nuoce all’esterno della mia coscienza (all’interno nuoce moltissimo, perchè potrebbe dannarmi per l’eternità). Soltanto se dal progetto passo alla sua realizzazione c’è un reato. Questo ragionamento permette di comprendere perché vi sono peccati che non sono delitti (ad esempio pensare male del prossimo); illeciti civili che non sono peccati (ad esempio parcheggiare in sosta vietata perché si sta consegnando un medicinale a una vecchietta che non può muoversi di casa) e condotte che sono sia peccati che reati (ad esempio l’aborto volontario, l’eutanasia, la fecondazione artificiale).
- Educa i consociati a commettere il male: vi sono comportamenti che, se legalizzati, avrebbero l’effetto di promuovere il male come stile di vita. La legalizzazione del divorzio ha incentivato lo sfascio della famiglia; la legalizzazione dell’aborto ha aumentato la propensione all’aborto come soluzione al “problema” del figlio imprevisto; la legalizzazione dell’eutanasia – dove è già avvenuta – rende normale sopprimere un malato, anche senza il suo consenso.
La scelta della modernità
Non v’è dubbio che nei tempi in cui ci è toccato di vivere, i sistemi giuridici hanno in larga parte abbandonato questi criteri ragionevoli che ci erano stati affidati dalla tradizione classica, e che abbiamo rapidamente descritto. Oggi sono ampiamente predicati e praticati altri criteri, che possiamo così riassumere:
- “Amoralità” della norma giuridica
- Il “giuridico” non ha a che fare con il problema del “giusto” (bonum iustitiae)
- Laicità dello stato
- Il riferimento alla morale configura il ritorno allo “Stato Etico”
Si tratta di una nuova “mistica delle istituzioni”, di una mitologia minimalista che sostituisce quella classica, la quale a dispetto della sua asetticità e obiettività, contiene una clamorosa componente ideologica: vuole espellere a forza la domanda più umana che la persona si porta dietro, e che riemerge continuamente. E’ la domanda che fa dire all’uomo della strada: ma quello che sto vedendo è giusto? E’ giusta questa sentenza? E’ giusta questa condanna o questa assoluzione? E’ giusta questa aliquota fiscale? E’ giusto questo sussidio per questo povero? Ecco: basta girare lo sguardo sulla realtà, e la domanda di giustizia si prende prepotentemente la scena. Solo il furore giacobino e laicista può illuderci che possa esistere un modo per scrivere le leggi che prescinda da un confronto con la morale. Solo l’ignoranza e la dabbenaggine di un certo cattolicesimo democratico può credere e farci credere che si possa affermare i diritti delle donne senza affermare prima la natura ontologica della dignità della donna e dell’uomo; o che si possa tutelare i diritti umani, senza pretendere che essi siano riconosciuti a tutti, compresi innanzitutto i nascituri, o gli embrioni disgraziatamente prodotti in provetta.
Alcuni “rimedi” sbagliati
In un clima di diffusa confusione, e di tragica rimozione del concetto di legge naturale, non è raro constatare il ricorso a soluzioni e rimedi che si rivelano spesso - al di là delle buone intenzioni – toppe peggiori dello strappo che vorrebbero rammendare. Ecco in sintesi alcune di queste medicine sbagliate:
- Totale sovrapposizione diritto/morale: alcuni vagheggiano una impossibile identificazione dell’ambito morale con quello giuridico, offrendo così il destro a laicisti di ogni ordine e grado di infilzare tale prospettiva, tacciandola di “ritorno allo stato etico”. In verità, nemmeno durante la cristianità – cioè in quel periodo storico in cui la civiltà era un tutt’uno con la fede in Cristo Re e Signore della storia – la Chiesa ha mai preteso di punire con il braccio secolare tutti i peccati. Anzi, se ne guardò bene. La materia morale che ricade nella sfera del giuridico è sempre limitata, e va delimitata secondo alcuni criteri ragionevoli che abbiamo sopra descritto.
- Le leggi “cattoliche”: nel linguaggio corrente capita spesso che taluni utilizzino questa espressione, distinguendo le leggi dello stato in “cattoliche” e “non cattoliche”. Domanda: la norma che proibisce l’omicidio è cattolica o buddista? Evidentemente, è semplicemente giusta. Non è dato sapere che cosa si intenda con “legge cattolica”, espressione della quale si deve sempre diffidare e che è meglio abbandonare definitivamente.
- Totale ignoranza della dottrina della legge naturale: su questo punto, già abbiamo detto molto. E’ un fatto che oggi una parte non marginale del clero cattolico e degli studiosi, anche di diritto, cattolici, ignorano totalmente questa categoria e il suo peso decisivo nel dibattito con il mondo laico.
- Dottrina del male minore: è la madre di tutte le peggiori operazioni giuridico-politiche in campo bioetica. Essa si illude di compiere un bene, proponendo soluzioni legislative che tradiscono la verità e il bene comune. Con il passare del tempo, i fautori di una legge improntata al male minore si dimenticano di quale fosse il bene tutto intero, e difendono la legge (ingiusta) che hanno partorito come se si trattasse di una legge giusta e intoccabile. Esemplare di questa parabola, la vicenda italiana della legge 40/2004 sulla Fecondazione artificiale.
- Dottrina della “legge imperfetta”: parente stretta della dottrina del male minore, questa nuova categoria serve per trasformare per magia una legge ingiusta in una legge che, tutto sommato, non è poi così male. Significativo in tal senso il dibattito sulla legge 194 in Italia: vi sono alcuni che trent’anni fa la contestarono radicalmente, e che oggi la difendono perché, dicono, “basta applicarla tutta intera”.
La “legge reale” e la “legge percepita”: dalla legge 194 alla legge 40.
Talvolta, nella società dei mass media, vi è una profonda, radicale differenza fra le cose come stanno veramente, e le cose come sono percepite dall’opinione pubblica. Possiamo prendere due casi davvero esemplari per comprendere come vi sia talvolta una diversità enorme fra i fatti reali e i fatti percepiti.
Cominciamo dalla legge 194 del 1978 che ha regolamentato l’aborto nel nostro Paese. Nel comune sentire dell’opinione pubblica, anche più colta, la legge in questione è percepita – sinteticamente - in questo modo:
- Limita l’aborto a pochi casi drammatici
- Impedisce l’aborto selvaggio
- Il frutto di un compromesso
- a ridotto l’aborto clandestino
- Una legge ci vuole
- Risponde al problema delle “zone grigie”
Questa errata percezione provoca clamorosi abbagli anche in alcune frange del fronte culturale che un tempo si opponevano alla legge sull’aborto. Frange che oggi arrivano a trarre le seguenti, inquietanti conclusioni:
- La 194 impedisce l’uso della Ru486
- Contiene parti positive
- Un tempo la contrastavamo, oggi non più
- Non vogliamo cancellarla, semmai modificarla
- Va difesa
Nella realtà, le norme della legge 194 configurano un quadro completamente diverso da quello percepito, che ci inducono a formulare una valutazione di questo tenore:
- E’ una legge gravemente ingiusta
- Permette l’uccisione dell’innocente con molta ampiezza
- Non riconosce mai che l’aborto è un illecito e un male in sé
- Espunge l’uomo da ogni considerazione
- Introduce l’eliminazione eugenetica dei difettosi
Qualche cosa di molto simile si può osservare analizzando le vicende legate al dibattito sulla Fecondazione artificiale in Italia. La legge 40 è spesso così percepita:
- Una legge che difende il diritto alla vitaUna legge proibizionista
- Una legge cattolica
- Una legge che tutela la morale cattolica
- Una legge che impedisce la fivet
- Una legge che è buona (perché) non fa diminuire i figli della provetta
Ma la legge 40 vera, quella reale e non prodotta dai sogni degli idealisti, è un’altra cosa:
- Una legge di regolamentazione
- Una legge procedurale
I- l prodotto di una mediazione politica
- Una legge gravemente ingiusta
Per quali ragioni possiamo e dobbiamo affermare che la legge 40 è una legge gravemente ingiusta? Perché “non è una legge cattolica”? Come già detto, questo è un argomento grottesco e risibile, per la sua sgangherata insipienza concettuale. No. Qui occorre attingere a un ragionamento più rigoroso. Bisogna cioè chiedersi: le pratiche di fecondazione artificiale extracorporea appartengono alla categoria dei mala in sé? In altre parole: fare fecondazione artificiale lede qualche diritto fondamentale altrui? La risposta a questi quesiti netti è altrettanto semplice e netta: sì.
Sappiamo benissimo che le tecniche di FIV, anche nelle forme consentite dalla legge in vigore in Italia, accumulano una serie imponente di gesti che calpestano la dignità dell’essere umano. Non sapremmo da che parte cominciare, tante sono le questioni giuridicamente (e non solo moralmente!) sensibili: si producono esseri umani allo stato embrionale fuori dal luogo in cui essi si sono sempre trovati, cioé il grembo della donna; l’altissima abortività indotta dalla tecnica; l’inevitabile produzione di embrioni soprannumerari, che nemmeno la norma in vigore può scongiurare; l’aborto selettivo nel caso di impianti plurimi; l’approccio eugenetico al figlio perfetto, che si traduce nell’osservazione degli embrioni prima dell’impianto, limandone alcuni perché ritenuti non idonei (la legge lo consente); l’atteggiamento di dominio del tecnico e della coppia rispetto all’inesistente “diritto al figlio”?
Le sfide per il futuro
Il quadro che abbiamo appena dipinto lascia indubbiamente l’amaro in bocca. Soprattutto pensando alla mancanza di spazi pubblici liberi – laici o cattolici – nei quali portare il fermento di queste osservazioni e di questi giudizi di valore. La verità subisce persecuzione, è osteggiata, è silenziata. Non solo dai nemici storici della vita nascente. Ma non ci è lecito disperare o gettare la spugna. Ci attende un compito arduo ma esaltante, enorme ma appassionante. In primo luogo, contrastare le “leggende” sulla legge 40, e aiutare l’opinione pubblica a scoprire gli orrori di queste tecniche, anche quando sono attuate nell’alveo del diritto positivo vigente. Denunciare i casi di “compromissione” con la FIVET, cioè quelle situazioni di clamorosa contraddizione etica che si verificano in quegli ospedali di ispirazione cristiana, che da anni producono impunemente “figli in provetta”. E che pretendono di autoassolversi come fossero in linea con la dottrina cattolica e con le esigenze della legge naturale. In questo senso, dobbiamo pure promuovere l’obiezione di coscienza prevista dall’articolo 16 della legge 40, articolo sconosciuto praticamente alla totalità dell’opinione pubblica.
E ancora: siamo chiamati continuamente e senza sosta a denunciare il delitto di aborto, reso possibile anzi alimentato dalla legge 194 in vigore. Scongiurando il processo di omologazione e di assuefazione alla legge vigente, che colpisce livelli importanti dello stesso mondo cattolico.
Se lavoreremo su questa difficile ma entusiasmante frontiera, avremo fornito un contributo decisivo alla ricostruzione della dottrina della legge naturale, alla riconciliazione del mondo della morale con il mondo del diritto, al bene comune che tanto interessa a ogni persona di buon senso.
Mario Palmaro
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