Domplatz di Erfurt
Sabato, 24 settembre 2011
Solo un Papa ci può salvare. Un grande discorso non minimalista su ragione e politica in occidente S olo un Papa ci può salvare. Da tempo Benedetto XVI, regnante con ardente intelligenza e millenaria malizia sulla chiesa cattolica, parlava di Dio, e invitava a pregare e a espiare le colpe personali e della chiesa. Il Ratzinger teologico-politico, quello delle grandi battaglie di cultura e del discorso di Ratisbona, sembrava essersi immerso nelle profonde acque della sola fede. Faceva, il nostro amato Papa, quello che fecero i gesuiti all`inizio del Seicento, sotto il preposito Acquaviva, un geniale abruzzese, figlio del Duca d`Atri, che cercò di ricostruire in in, teriore Nomine e in nuove regole educative e di preghiera, la spiritualità dell`ordine che era messa in discussione dal multiforme contatto con il mondo, dopo la tempesta Luterana e il dramma del chiostro vissuto dal monaco agostiniano che aveva rotto l`unità del cristianesimo d`occidente con il suo tremendo genio religioso e la sua grandiosa eresia carica di modernismo. Ieri, nello splendido discorso tenuto al Bundestag, il Parlamene to della sua patria, è riemerso in chiara, mite e fulgidissima luce - la luce dell`intelligenza e della ragione - quel formidabile professor Ratzinger che fu eletto alla guida della chiesa di Roma su una piattaforma di lotta intellettuale ed etica alla deriva relativista e nichilista dell`occidente moderno. Che solo un Papa può salvare (altro che il Dio oscuro di Martin Heidegger). Benedetto ha sorpreso tutti. Niente affiato pastorale minimalista, niente catechesi ordinaria, e invece un energico, nitido e straordinario richiamo alla sostanza di ciò che è politico, pubblico, e alla questione filosofico-giuridica di come si possa fare la cosa giusta, condurre una vita giusta, reggere governi e stati giusti, fare leggi giuste in un mondo che non dipende più dalla tradizione, dall`autorevolezza intrinseca della fede, ma dalla democrazia maggioritaria. |
settembre 5, 2011
Dalle messe “talk-show”, alle chitarre in chiesa, per arrivare a tabernacoli e crocifissi relegati in un angolo, balaustre e altari demoliti, tavolini al posto dell’altare “vero” pur di celebrare verso il popolo, liturgia incentrata sul celebrante-attore, comunione sulle mani, proibizione di inginocchiarsi, cartelloni colorati, testimonianze-omelie di laici durante la messa: queste e tante altre novità sono state introdotte proprio “in nome del Concilio”. Ok, ma non è chiaro a quale concilio si riferiscano, dal momento che il Concilio Ecumenico Vaticano II non parla di tutte queste cose. Anzi, rileggendo la Costituzione conciliare “Sacrosantum Concilium” emergono alcuni orientamenti dei padri conciliari, che invece i nostri parroci sembrano aver dimenticato “in nome del Concilio” – il quale però diceva:
36.1L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
36.2 Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.
116. La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica, a norma dell’art. 30.
Insomma la “Messa del Concilio” sarebbe più o meno questa: