mercoledì 27 gennaio 2010

Relativismo e verità


Che cos’è questo “relativismo” di cui tanto si parla? La panacea per una società più libera e tollerante? O un pericoloso virus che mina le basi della convivenza democratica?

La dottrina del cosiddetto relativismo è molto seducente: non esistono verità, ogni ideale si equivale, ognuno ha il diritto di seguirlo senza alcun vincolo. Dal che deriverebbe automaticamente il rispetto assoluto per le idee degli altri, la rinuncia ad ogni tentazione di imporre le proprie con la forza: dialogo e concordia assicurati. Tutto facile, no? La mentalità “relativista” emerge anche nelle discussioni quotidiane: può capitare che chi sostiene con convinzione una tesi, chi parla di “verità”, si senta etichettare pregiudizialmente come "dogmatico" (termine che invece, più propriamente, dovrebbe indicare chi rifiuta di discutere le proprie tesi); o come "intollerante" (termine che dovrebbe, piuttosto, indicare chi pretende di imporre la propria visione, anziché proporla al dibattito comune). Emerge allora una certa carica aggressiva del relativismo, che vuole coprire la sua banalità e superficialità.

Il fatto è che il relativismo è una costruzione astratta, che non dà risposta ai problemi concreti della vita e della convivenza civile.

La tesi per cui unica bussola dell'agire umano - nella sua sfera personale - dovrebbe essere "fa' ciò che desideri", senza nessuna riflessione seria sul bene oggettivo della persona, è una tesi che sembra salvaguardare la libertà individuale, ma non dà risposta al naturale desiderio di felicità e di infinito dell'uomo.

Inoltre, le verità di cui si discute (e che il relativismo mette in discussione) sono anche gli ideali e i valori della sfera sociale e civile. Non si tratta di decidere se preferiamo andare a vedere un film comico o drammatico, se è più piacevole la vacanza al mare o quella in montagna. Non si tratta di questioni destinate a rimanere confinate tra le poltrone di un qualsiasi circolo culturale. Materia del contendere, piuttosto, diventa la misura in cui valori sociali, civili e politici possano diventare fondamento comune della convivenza, evitare i conflitti, favorire la crescita sociale.


L'ipocrisia del relativismo

Le tesi sostenute dai relativisti sono spesso espressione di una certa dose di ipocrisia, in quanto mirano a mascherare secondi fini.

Dovremmo infatti porci una semplice domanda: è davvero possibile, a qualunque persona, agire e fare scelte sulla semplice base degli istinti, senza far riferimento ad una - almeno personale - idea di "vero", di "giusto"?
Ed è possibile, in una qualsiasi società, una convivenza serena priva di princìpî (ovvero ideali, o - con una connotazione positiva - valori) comuni, reciprocamente riconosciuti, posti alla base delle convenzioni e delle norme?
E' praticabile, insomma, il cosiddetto relativismo?
Un sano realismo ci dimostra di no.

In tutte le attività umane (insegnare, lavorare, legiferare, amministrare, giudicare) è necessario continuamente scegliere tra diversi interessi quelli meritevoli di tutela, in base ad un criterio di selezione. Tale criterio non richiede semplicemente una competenza "tecnica", ma è anche un criterio "valutativo": non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”. Si sceglie, dunque, in base a principî, o valori. Valori che possono a loro volta entrare in conflitto, e richiedere una scelta in base ad una gerarchia, un ordine d'importanza.

Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei valori comuni (o che i valori siano tutti uguali) è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico
La trappola logica del relativismo

L'ipocrisia del relativismo può mascherarsi anche perché si inserisce in una prospettiva culturale più complessa, in una 'deriva' di pensiero prigioniera di trappole logiche a volte inconsapevoli.

La questione dell'individuazione di valori comuni si lega alla questione se esista una verità (e non ci riferiamo principalmente alla Verità di Fede), e se questa sia conoscibile: sono quelli che i filosofi chiamerebbero "problema ontologico" e "problema gnoseologico".

L'utilizzo del concetto di 'verità' od 'oggettività', inoltre, fa temere molti che sia sottratto spazio alla libertà umana, che ci si affidi ad un cieco dogmatismo, che qualcuno voglia imporre con la forza la propria ideologia. La questione della verità, quindi, diventa anche "problema morale" e "problema politico".

I relativisti sovrappongono tutti questi piani con un ragionamento fallace (quello che potremmo definire un "paralogismo"), che recita in sostanza: "L'idea di verità è dogmatica e pericolosa per la libertà. Quindi, la verità non esiste".

Ebbene, questo ragionamento è innanzitutto basato su premesse false.

L'idea di verità è espressione di cieco dogmatismo?
Si tratta di un'asserzione che muove da un'interpretazione distorta del concetto di verità. Suppone erroneamente che la ricerca della verità debba essere sottratta al dialogo o al ragionamento.

Ancora: l'idea di verità è pericolosa per la libertà, allorché si traduce in valori che animano la convivenza civile?
I valori non devono certamente essere imposizione arbitraria di una parte, di una cultura; devono essere oggetto di un dibattito trasparente, che garantisca il massimo del consenso possibile; non devono comprimere libertà fondamentali; devono essere capaci di dare risposte efficaci alle esigenze delle realtà sociali nelle quali sono calati (risposte adeguate secondo i contesti storici e sociali, senza pericolose rigidità). Esistono quindi preoccupazioni di metodo legittime. Ma il relativismo fa esplodere queste preoccupazioni, arrivando a negare in radice - contro ogni realismo - l'utilità e la necessità dei valori nelle realtà sociali.

Alle preoccupazioni di metodo si aggiungono sovente preoccupazioni derivanti da esperienze storiche negative, nelle quali si sono imposti il fanatismo o l'ideologismo violento.
Ma, anche qui, il relativismo si rivela incapace di analizzare correttamente e comprendere le radici di questi fenomeni, pensando che, per evitare il pericolo che qualcuno strumentalizzi l'idea di verità a proprio vantaggio, se ne debba trarre la conseguenza che questa idea sia di per sé pericolosa o inesistente (come chi pensasse di abolire il linguaggio per evitare gli insulti, o vietare il sesso per evitare gli stupri).
Il relativismo, insomma, ignora completamente il contenuto della verità proclamata: esistono verità che liberano (il primato stesso riconosciuto alla libertà è una "verità") e verità che schiavizzano.

Partendo da una premessa falsa, il ragionamento relativista abbandona ogni logica allorché opera un collegamento forzato e capovolto ("affermazione del conseguente"): se l'effetto mi preoccupa, debbo... ignorare la causa!

Ebbene: posso essere convinto che una determinata "verità" non esista, o che sia deformata, o che debba essere tenuta in considerazione insieme con altre verità. Posso - debbo - cercare di dimostrare razionalmente queste mie convinzioni.
Ma non posso fingere che qualcosa non esista solo per timore di un danno conseguente, o per trarne convenienza!

Il relativismo inquina il dialogo logico-razionale (come l'abbiamo conosciuto dai tempi di Aristotele), negando che dal confronto di tesi diverse si possa arrivare ad una tesi comune. Il suo approdo è il nichilismo, il non credere in niente.

Le aporie cui perviene il relativismo non sono altro che l'esito finale di una lenta deriva di una parte significativa del pensiero moderno. Un percorso che ha condotto dapprima a negare l'esistenza delle verità filosofiche e morali, togliendo dignità alla metafisica (la disciplina che si occupa appunto dell'Essere e dell'uomo nella sua complessità); e poi, in alcuni casi, addirittura a negare la possibilità di qualsiasi conoscenza, anche scientifica...

Scritto da Giovanni Martino

continua: Europa Oggi




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