ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica
PARTE SECONDA
Le Tre Vie
LIBRO I
La purificazione dell'anima
o la via purgativa
III. La malizia dell'orgoglio.
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica
PARTE SECONDA
Le Tre Vie
LIBRO I
La purificazione dell'anima
o la via purgativa
III. La malizia dell'orgoglio.
A ben giudicare questa malizia, si può considerar l'orgoglio in sè o negli effetti.
1° In sè: A) l'orgoglio propriamente detto, quello che coscientemente e volontariamente usurpa, anche solo implicitamente, i diritti di Dio, è peccato grave, anzi il più grave dei peccati, dice S. Tommaso, perchè non vuol sottomettersi al sovrano dominio di Dio.
a) Voler quindi essere indipendente e rifiutar d'obbedire a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti in materia grave, è peccato mortale, perchè in tal modo uno si rivolta contro Dio, legittimo nostro sovrano.
b) È pur peccato grave l'attribuire a sè ciò che viene chiaramente da Dio, massime i doni della grazia; perchè è implicitamente negare che Dio è il primo principio di tutto il bene che è in noi. Eppure molti lo fanno, dicendo, per esempio: io mi sono fatto da me.
c) Si pecca anche gravemente quando si vuole operare per sè, escludendo Dio; è infatti negargli il diritto d'essere l'ultimo nostro fine.
B) L'orgoglio attenuato, che, pur riconoscendo Dio come primo principio e come ultimo fine, non gli rende tutto ciò che gli è dovuto e implicitamente gli toglie parte della sua gloria, è peccato veniale qualificato. Tal è il caso di quelli che si gloriano delle loro buone qualità e delle loro virtù, quasi che tutto ciò fosse cosa di loro esclusiva proprietà; oppure di quelli che sono presuntuosi, vanitosi, ambiziosi, senza però far nulla che sia contrario a una legge divina od umana in materia grave. Questi peccati possono anche farsi mortali, se spingono ad atti gravemente riprensibili. Così la vanità, che in sè è solo peccato veniale, diventa peccato grave quando fa contrar debiti che non si potranno poi pagare, o quando si cerca di eccitare in altri amore disordinato. Bisogna quindi esaminar l'orgoglio anche negli effetti.
2° Negli effetti: A) l'orgoglio, non represso, riesce talora a perniciosissimi effetti. Quante guerre non furono suscitate dall'orgoglio dei governanti e qualche volta degli stessi popoli! E senza andar tanto lontano, quante divisioni nelle famiglie, quanti odii tra gli individui devono attribuirsi a questo vizio! I Padri giustamente insegnano che è radice di tutti gli altri vizi, e che corrompe pure molti atti virtuosi, facendoli fare con egoistica intenzione .
B) Se guardiamo la cosa sotto il rispetto della perfezione, che è quello di cui stiamo trattando, si può dire che l'orgoglio è il gran nemico della perfezione perchè produce nell'anima una desolante sterilità ed è fonte di numerosi peccati.
a) Ci priva infatti di molte grazie e di molti meriti:
1) Di molte grazie, perchè Dio, il quale dà liberalmente la grazia agli umili, la nega ai superbi: Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam. Pesiamo bene queste parole: Dio resiste ai superbi, "perchè, dice l'Olier, il superbo assale direttamente Dio e se la prende con la stessa sua persona, onde Dio resiste alle insolenti e orribili sue pretese; e poichè vuol conservarsi in ciò che è, abbatte e distrugge quanto si leva contro di lui".
2) Di molti meriti: una delle condizioni essenziali del merito è la purità d'intenzione; ora l'orgoglioso opera per sè, o per piacere agli uomini, invece di operare per Dio, e merita quindi il rimprovero rivolto ai Farisei che facevano le opere buone con ostentazione, per essere visti dagli uomini, onde non potevano aspettarsi di essere ricompensati da Dio: "alioquin mercedem non habebitis apud Patrem vestrum qui in cælis est.... amen, amen dico vobis, receperunt mercedem suam" .
b) È pure fonte di numerose colpe; 1) colpe personali: per presunzione uno si espone al pericolo e vi soccombe; per orgoglio non si chiedono istantemente le grazie di cui si ha bisogno e si cade; viene poi lo scoraggiamento e si corre pericolo di dissimulare i peccati in confessione; 2) colpe contro il prossimo: per orgoglio non si vuol cedere anche quando si ha torto; si è mordaci nelle conversazioni, si intavolano discussioni aspre e violenti che generano dissensioni e discordie; quindi parole amare e anche ingiuste contro i rivali per umiliarli, critiche acerbe contro i Superiori e rifiuti d'obbedienza ai loro ordini.
c) Finalmente è causa di disgrazie per chi si abbandona abitualmente all'orgoglio: l'orgoglioso, volendo grandeggiare in tutto e dominare il prossimo, non trova più nè pace nè riposo. Non è infatti tranquillo finchè non abbia potuto trionfar degli emuli; or ciò non riuscendogli mai intieramente, ne resta turbato, agitato, infelice. Convien dunque cercar rimedio a vizio così pericoloso.
IV. I rimedii dell'orgoglio.
c) Finalmente è causa di disgrazie per chi si abbandona abitualmente all'orgoglio: l'orgoglioso, volendo grandeggiare in tutto e dominare il prossimo, non trova più nè pace nè riposo. Non è infatti tranquillo finchè non abbia potuto trionfar degli emuli; or ciò non riuscendogli mai intieramente, ne resta turbato, agitato, infelice. Convien dunque cercar rimedio a vizio così pericoloso.
IV. I rimedii dell'orgoglio.
Abbiamo già detto (n. 207) che il grande rimedio dell'orgoglio sta nel riconoscere che Dio è l'autore di ogni bene, onde a lui solo spetta ogni onore e ogni gloria. Da noi non siamo che nulla e peccato e non meritiamo quindi che oblìo e disprezzo (n. 208)
1° Noi siamo un nulla. Di questo devono gl'incipienti ben convincersi nella meditazione, lentamente ruminando al lume divino i seguenti pensieri: io sono un nulla, io non posso nulla, io non valgo nulla.
A) Io sono un nulla: piacque, è vero, alla divina bontà di scegliermi tra miliardi di esseri possibili per darmi l'esistenza, la vita, un'anima spirituale ed immortale, e io ne lo devo quotidianamente benedire. Ma: a) io esco dal nulla e per mio peso tendo al nulla, ove infallantemente ricadrei se il Creatore con la incessante sua azione non mi conservasse: il mio essere dunque non appartiene a me ma è intieramente di Dio, e a lui ne devo far omaggio.
b) Quest'essere che Dio mi diede è una vivente realtà, un immenso beneficio di cui non potrei ringraziarlo mai troppo; ma, per quanto ammirabile, quest'essere, paragonato con l'Essere divino, è come un nulla, "Tanquam nihilum ante te", tanto è imperfetto: 1) è un essere contingente, che potrebbe sparire senza che nulla venisse a mancare alla perfezione del mondo; 2) è un essere mutuato, che non mi fu dato che sotto l'espressa riserva del supremo dominio di Dio; 3) è un essere fragile, che non può sussistere da sè, bisognoso ad ogni istante d'essere sorretto da colui che lo creò. È dunque un essere essenzialmente dipendente da Dio, la cui unica ragione di esistere è di rendere gloria al suo autore. Chi dimentichi questa dipendenza, chi operi come se le sue buone qualità fossero intieramente sue e se ne vanti, commette un inconcepibile errore, una follia e un'ingiustizia.
Quanto diciamo dell'uomo nell'ordine della natura è anche più vero nell'ordine della grazia: questa partecipazione della vita divina, che costituisce la mia nobiltà e la mia grandezza, è dono essenzialmente gratuito che ricevetti da Dio e da Gesù Cristo, che non posso conservare a lungo senza la divina grazia e che non può crescere in me senza il soprannaturale suo concorso (n. 126-128), onde è il caso di ripetere: "gratias Deo super inenarrabili dono ejus". Quale ingratitudine e quale ingiustizia l'attribuire a sè una minima particella di questo dono essenzialmente divino? "Quod autem habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis?".
B) Io da me non posso nulla: è vero che ricevetti da Dio preziose facoltà che mi fanno conoscere e amare la verità e la bontà; che queste facoltà poi perfezionate dalle virtù soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo; che non potrò mai ammirare abbastanza questi doni di natura e di grazia che si integrano e si armonizzano tra loro così bene. Ma da me, di mia volontà, io non posso nulla nè per metterle in moto nè per perfezionarle: nulla nell'ordine naturale senza il concorso di Dio; nulla nell'ordine soprannaturale senza la grazia attuale, neppure formare un buon pensiero salutare, un buon desiderio soprannaturale. Ciò sapendo, potrei inorgoglirmi di queste naturali e soprannaturali facoltà, come se fossero intieramente mie? Anche questa sarebbe ingratitudine, follia, ingiustizia.
C) Io non valgo nulla: se considero ciò che Dio ha posto in me e ciò che vi opera con la sua grazia, io sono certamente un essere di gran pregio e di grande valore: "empti enim estis pretio magno ... tanti vales quanti Deus: valgo quello che sono costato e sono costato il sangue di un Dio! Ma l'onore della mia redenzione e della mia santificazione spetta a me o a Dio? La risposta non potrebbe essere dubbia. -- Ma insomma, dice l'amor proprio vinto, io ho pur qualche cosa che è mia e mi dà valore, è il libero mio consenso al concorso e alla grazia di Dio. -- Certo qualche parte ve l'abbiamo ma non la principale: questo libero consenso non è che l'esercizio delle facoltà dateci gratuitamente da Dio, e nel momento stesso in cui lo diamo, Dio l'opera in noi come causa principale: "operatur in vobis et velle et perficere". E poi per una volta che consentiamo a seguir l'impulso della grazia, quante altre volte le abbiamo resistito! quante volte vi cooperiamo solo imperfettamente! Non c'è veramente di che vantarci ma piuttosto di che umiliarci.
Quando un gran maestro dipinge un capolavoro, a lui viene attribuito e non agli artisti di terzo o di quarto ordine che ne furono i collaboratori. A più forte ragione dobbiamo noi attribuire i nostri meriti a Dio che ne è causa prima e principale, tanto che, come canta la Chiesa con S. Agostino, Dio corona i doni suoi coronando i meriti nostri "coronando merita coronas dona tua".
2° Io sono un peccatore, e come tale, merito disprezzo, tutti i disprezzi che piacerà a Dio di addossarmi. A convincercene, basti richiamare quanto dicemmo del peccato mortale e del veniale.
A) Se ebbi la disgrazia di commettere un solo peccato mortale, merito eterne umiliazioni, perchè ho meritato l'inferno. Ho, è vero, la dolce fiducia che Dio m'abbia perdonato; ma non resta con ciò meno vero che ho commesso un delitto di lesa Maestà divina, una specie di deicidio, una sorta di suicidio spirituale, e che, per espiar l'offesa alla divina Maestà, debbo essere pronto ad accettare, a desiderare anzi tutto le umiliazioni possibili, le maldicenze, le calunnie, le ingiurie, gli insulti; perchè tutto ciò è assai al di sotto di quanto merita colui che offese anche una volta sola l'infinita Maestà di Dio. Che se ho offeso Dio moltissime volte, quale non dev'essere la mia rassegnazione, anzi la gioia, quando mi si presenti l'occasione d'espiare i peccati con obbrobri di cosi breve durata!
B) Abbiamo tutti commesso dei peccati veniali e veniali deliberati, volontariamente preferendo la volontà e il piacer nostro alla volontà e alla gloria di Dio. Or questo, come abbiamo detto al n. 715, è offesa alla divina maestà, offesa che merita umiliazioni così profonde da non poter mai da noi stessi, fosse pure con una vita passata tutta nella pratica dell'umiltà, restituire a Dio tutta la gloria di cui l'abbiamo ingiustamente spogliato. Se pare esagerato questo linguaggio, si pensi alle lacrime e alle austere penitenze dei Santi che non avevano commesso se non peccati veniali e che non credevano d'aver fatto mai abbastanza per purificarsi l'anima e riparare gli oltraggi inflitti alla divina maestà. I santi vedevano le cose meglio di noi, e se noi non la pensiamo come loro è perchè siamo accecati dall'orgoglio.
Dobbiamo dunque, come peccatori, non solo non cercar la stima altrui, ma disprezzarci e accettar tutte le umiliazioni che Dio vorrà mandarci.
1° Noi siamo un nulla. Di questo devono gl'incipienti ben convincersi nella meditazione, lentamente ruminando al lume divino i seguenti pensieri: io sono un nulla, io non posso nulla, io non valgo nulla.
A) Io sono un nulla: piacque, è vero, alla divina bontà di scegliermi tra miliardi di esseri possibili per darmi l'esistenza, la vita, un'anima spirituale ed immortale, e io ne lo devo quotidianamente benedire. Ma: a) io esco dal nulla e per mio peso tendo al nulla, ove infallantemente ricadrei se il Creatore con la incessante sua azione non mi conservasse: il mio essere dunque non appartiene a me ma è intieramente di Dio, e a lui ne devo far omaggio.
b) Quest'essere che Dio mi diede è una vivente realtà, un immenso beneficio di cui non potrei ringraziarlo mai troppo; ma, per quanto ammirabile, quest'essere, paragonato con l'Essere divino, è come un nulla, "Tanquam nihilum ante te", tanto è imperfetto: 1) è un essere contingente, che potrebbe sparire senza che nulla venisse a mancare alla perfezione del mondo; 2) è un essere mutuato, che non mi fu dato che sotto l'espressa riserva del supremo dominio di Dio; 3) è un essere fragile, che non può sussistere da sè, bisognoso ad ogni istante d'essere sorretto da colui che lo creò. È dunque un essere essenzialmente dipendente da Dio, la cui unica ragione di esistere è di rendere gloria al suo autore. Chi dimentichi questa dipendenza, chi operi come se le sue buone qualità fossero intieramente sue e se ne vanti, commette un inconcepibile errore, una follia e un'ingiustizia.
Quanto diciamo dell'uomo nell'ordine della natura è anche più vero nell'ordine della grazia: questa partecipazione della vita divina, che costituisce la mia nobiltà e la mia grandezza, è dono essenzialmente gratuito che ricevetti da Dio e da Gesù Cristo, che non posso conservare a lungo senza la divina grazia e che non può crescere in me senza il soprannaturale suo concorso (n. 126-128), onde è il caso di ripetere: "gratias Deo super inenarrabili dono ejus". Quale ingratitudine e quale ingiustizia l'attribuire a sè una minima particella di questo dono essenzialmente divino? "Quod autem habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis?".
B) Io da me non posso nulla: è vero che ricevetti da Dio preziose facoltà che mi fanno conoscere e amare la verità e la bontà; che queste facoltà poi perfezionate dalle virtù soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo; che non potrò mai ammirare abbastanza questi doni di natura e di grazia che si integrano e si armonizzano tra loro così bene. Ma da me, di mia volontà, io non posso nulla nè per metterle in moto nè per perfezionarle: nulla nell'ordine naturale senza il concorso di Dio; nulla nell'ordine soprannaturale senza la grazia attuale, neppure formare un buon pensiero salutare, un buon desiderio soprannaturale. Ciò sapendo, potrei inorgoglirmi di queste naturali e soprannaturali facoltà, come se fossero intieramente mie? Anche questa sarebbe ingratitudine, follia, ingiustizia.
C) Io non valgo nulla: se considero ciò che Dio ha posto in me e ciò che vi opera con la sua grazia, io sono certamente un essere di gran pregio e di grande valore: "empti enim estis pretio magno ... tanti vales quanti Deus: valgo quello che sono costato e sono costato il sangue di un Dio! Ma l'onore della mia redenzione e della mia santificazione spetta a me o a Dio? La risposta non potrebbe essere dubbia. -- Ma insomma, dice l'amor proprio vinto, io ho pur qualche cosa che è mia e mi dà valore, è il libero mio consenso al concorso e alla grazia di Dio. -- Certo qualche parte ve l'abbiamo ma non la principale: questo libero consenso non è che l'esercizio delle facoltà dateci gratuitamente da Dio, e nel momento stesso in cui lo diamo, Dio l'opera in noi come causa principale: "operatur in vobis et velle et perficere". E poi per una volta che consentiamo a seguir l'impulso della grazia, quante altre volte le abbiamo resistito! quante volte vi cooperiamo solo imperfettamente! Non c'è veramente di che vantarci ma piuttosto di che umiliarci.
Quando un gran maestro dipinge un capolavoro, a lui viene attribuito e non agli artisti di terzo o di quarto ordine che ne furono i collaboratori. A più forte ragione dobbiamo noi attribuire i nostri meriti a Dio che ne è causa prima e principale, tanto che, come canta la Chiesa con S. Agostino, Dio corona i doni suoi coronando i meriti nostri "coronando merita coronas dona tua".
2° Io sono un peccatore, e come tale, merito disprezzo, tutti i disprezzi che piacerà a Dio di addossarmi. A convincercene, basti richiamare quanto dicemmo del peccato mortale e del veniale.
A) Se ebbi la disgrazia di commettere un solo peccato mortale, merito eterne umiliazioni, perchè ho meritato l'inferno. Ho, è vero, la dolce fiducia che Dio m'abbia perdonato; ma non resta con ciò meno vero che ho commesso un delitto di lesa Maestà divina, una specie di deicidio, una sorta di suicidio spirituale, e che, per espiar l'offesa alla divina Maestà, debbo essere pronto ad accettare, a desiderare anzi tutto le umiliazioni possibili, le maldicenze, le calunnie, le ingiurie, gli insulti; perchè tutto ciò è assai al di sotto di quanto merita colui che offese anche una volta sola l'infinita Maestà di Dio. Che se ho offeso Dio moltissime volte, quale non dev'essere la mia rassegnazione, anzi la gioia, quando mi si presenti l'occasione d'espiare i peccati con obbrobri di cosi breve durata!
B) Abbiamo tutti commesso dei peccati veniali e veniali deliberati, volontariamente preferendo la volontà e il piacer nostro alla volontà e alla gloria di Dio. Or questo, come abbiamo detto al n. 715, è offesa alla divina maestà, offesa che merita umiliazioni così profonde da non poter mai da noi stessi, fosse pure con una vita passata tutta nella pratica dell'umiltà, restituire a Dio tutta la gloria di cui l'abbiamo ingiustamente spogliato. Se pare esagerato questo linguaggio, si pensi alle lacrime e alle austere penitenze dei Santi che non avevano commesso se non peccati veniali e che non credevano d'aver fatto mai abbastanza per purificarsi l'anima e riparare gli oltraggi inflitti alla divina maestà. I santi vedevano le cose meglio di noi, e se noi non la pensiamo come loro è perchè siamo accecati dall'orgoglio.
Dobbiamo dunque, come peccatori, non solo non cercar la stima altrui, ma disprezzarci e accettar tutte le umiliazioni che Dio vorrà mandarci.
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