di Mario Palmaro
02-03-2012
L’infanticidio è un diritto delle donne.
Lo sostiene, con qualche opportuna sfumatura dialettica, il Journal of Medical Ethics di Melbourne, che in un recente articolo spiega le buone ragioni che legittimano l’uccisione di un neonato, quando le sue condizioni di salute siano compromesse.
L’articolo rilancia una vecchia idea del vecchio bioeticista australiano Peter Singer, e ne ripropone il ragionamento di fondo. La nostra società – scrivono in sostanza gli autori della rivista di Melbourne – ha ormai legittimato la soppressione del concepito con l’aborto volontario, giustificandolo con le più svariate motivazioni. Ora, proseguono, non esiste alcuna differenza davvero sostanziale tra un concepito di uomo e un neonato. Dunque, se è legittimo per le leggi uccidere un feto di tre mesi, non si vede perché lo Stato non debba permette di fare lo stesso con un neonato handicappato.
Il caso australiano è un esempio perfetto di ragionamento che muove da premesse corrette per giungere a conclusioni coerenti, anche se aberranti. E’ infatti sacrosanto che nascituro e neonato non sono dissimili nelle loro qualità essenziali; ed è altrettanto logico che questa identità umana deve comportare un giudizio di valore pressoché identico. Logico, per concludere, che aborto e infanticidio siano parenti stretti, e che sia contraddittorio disciplinarli in maniera opposta fra loro.
L’errore sta nel teorizzare che la legittimazione diffusa dell’aborto dovrebbe allargarsi all’infanticidio, invece che invertire il percorso. E accorgersi che il rispetto della vita già nata dovrebbe essere estesa a tutela del non ancora nato. Ma per il resto, questi esponenti della cultura della morte contribuiscono, paradossalmente, a mostrare che “il re è nudo”. Dicono cioè, un po’ cinicamente, quello che talvolta gli stessi esponenti della cultura della vita si dimenticano: e cioè che l’aborto è uccidere un essere umano, tale quale lo si facesse morire dopo la nascita.
Chi si straccia le vesti per la proposta choc degli australiani, farebbe bene a ragionare per un momento: e a rendersi conto che la brutalità dell’infanticidio è del tutto analoga alla brutalità di ogni aborto legale. E a riflettere intorno alla assurdità di essere contro l’infanticidio (cose che, per ora, accomuna la gran parte della gente), ma a favore dell’aborto e delle leggi che lo regolamentano.
Di più: le società che accettano l’eliminazione eugenetica dei non ancora nati (e in questo, l’Italia non è seconda all’Australia), prima o poi sono costrette a scivolare verso l’infanticidio. Melbourne e Sparta non sono state mai così vicine: il Taigeto e le teorie eleganti e pulite sull’aborto praticato “per sconfiggere la talassemia” sono facce della stessa medaglia, smorfie della stessa Gorgone mostruosa.
E’ logico che l’idea di vedere davanti a sé un neonato, e di ammazzarlo sia pure “per motivi pietosi” disturba il sonno delle persone ben pensanti. Ma quello stesso sonno dovrebbe essere inquietato dal pensiero che già oggi, ogni giorno, con i soldi dei contribuenti e dello Stato, negli ospedali pubblici di mezzo mondo lo stesso trattamento viene riservato ai figli di donna non ancora nati.
Solo dosi da cavallo di ipocrisia possono rendere opaca questa verità. Gli studiosi australiani – epigoni della Rupe Tarpea – ci dicono che ogni uomo non vale niente, se non ha una qualità della vita accettabile: che sia nascituro, neonato, adulto o vecchio, poco importa. O siamo disposti a ribaltare il tavolo sul quale si gioca questa vergognosa partita – fatta di embrioni prodotti, usati, selezionati e gettati via e di ammalati morti di fame e di sete – oppure dobbiamo rassegnarci a vedersi sviluppare, inesorabile, una coerente striscia di orrori che renderanno dilettanteschi i protocolli artigianali del dottor Mengele.
E dovremo anche imparare a smetterla di dare lezioni di falsa moralità a cinesi, indiani, coreani che selezionano e uccidono prima della nascita i feti, solo perché sono femmine. Noi, gente per bene d’Europa e degli States, li selezioniamo e li uccidiamo, solo perché sono down.
fonte: La bussola quotidiana
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