LA CRISI ATTUALE NELLA CHIESA: CHE COSA E’ ANDATO STORTO?
“I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti [..] Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza. [..] Vie sbagliate [..] hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative” (J. Ratzinger in V. Messori, Rapporto sulla fede, Ed. Paoline 1985, 27 s.)
Che esista una crisi nella Chiesa a partire dagli anni Sessanta del Novecento è sotto gli occhi di tutti e non staremo ad indugiare su questo crudele fatto, attestato dal crollo subitaneo e fortissimo di tutti gli indicatori, come vocazioni, percentuali di persone che si dicono cattoliche, pratica religiosa, accesso ai sacramenti, e così via:
Giovanni Paolo II ha coniato in proposito l’espressione di apostasia silenziosa (Ecclesia in Europa, 9). Sono elementi, certo, quantitativi, ma ormai nessuno o quasi si azzarda più a sostenere la favoletta che in termini qualitativi vi sia stato progresso, dato che è difficile sostenere che siano migliori, più motivati e meglio formati, rispetto a ieri, i decimati frequentatori delle parrocchie, la cui età media tra l’altro è in costante aumento per assenza di trasmissione della fede ad ampi strati delle giovani generazioni.
La domanda che si pone spontanea è allora: vista l’oggettiva concomitanza temporale tra l’esplodere della crisi e la conclusione del Concilio Vaticano II, si deve ritenere quest’ultimo causa, ovviamente involontaria, di tanto disastro? Si può, in altri termini, applicare il principio, pur in logica fallace, post hoc ergo propter hoc? O dobbiamo invece ascrivere la frana ad elementi esogeni ed esterni, come la rivoluzione dei costumi degli anni Sessanta, il Sessantotto, il secolarismo o il marxismo, ecc., e magari cercare di perpetuare l’apologia del Concilio se non più (perché i dati impietosi e cocciuti rendono ormai risibili quelle definizioni) come nuova Pentecoste e primavera della Chiesa (già Paolo VI, in una famosa omelia, diceva che dopo il Concilio, anziché un giorno di sole, eran venuti tempesta, buio e incertezza), almeno come rimedio palliativo e “toppa” ad una tendenza antireligiosa che sarebbe stata ancora più devastante senza le aperture conciliari?
La questione è oggetto di studio in campo sociologico e si può ritenere che si sia giunti a conclusioni sufficientemente ferme e mature. Consigliamo vivamente di leggere in proposito il bellissimo contributo di uno dei più grandi sociologi delle religioni, Massimo Introvigne, «Il rumore confuso dei clamori ininterrotti», pubblicato dal sito Cesnur. Noi vogliamo in questa sede ripercorrere, in estrema sintesi divulgativa, le conclusioni di questo scritto, estratto di un più ampio lavoro.
In primo luogo,
dobbiamo chiarire che non ha molto senso “fare il processo” al Concilio. Ce lo vieta innanzi tutto la Fede, che ci impone di vedere in quell’evento un segno dello Spirito Santo e della Provvidenza: su un piano ultramondano, il Concilio può avere prodotto benefici di grazia o forse ne produrrà nel lungo, anzi lunghissimo termine (ché in effetti in questo lasso di 40 anni è arduo scorgerne). Vengono alla mente le parole di S. Basilio dopo il Concilio di Nicea, richiamate dal Papa nel suo discorso alla curia romana del 22.12.2005: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …”. Eppure nessuno dubita dell’importanza e provvidenzialità del Concilio di Nicea, nonostante le sue immediate conseguenze negative, deplorate da S. Basilio. Ma più ancora, il Concilio Vaticano è qui fuori discussione poiché, come sempre il Papa ha osservato nell’allocuzione appena citata, di esso è stata data un’interpretazione di rottura che è lontanissima dalla verità e dall’effettività dei testi conciliari, che per inciso l’allora perito Ratzinger conosce bene.
Quindi la nostra breve indagine è se non tanto il Concilio vero e proprio (i suoi documenti e l’evento in sé), bensì la sua percezione come momento di rottura e nuovo inizio, sia stato o meno la causa della crisi odierna della Chiesa; quanto al Concilio vero, essendo stato sopraffatto e sostituito da un’idea artefatta e modernista di esso, non può avere avuto efficienza causale proprio perché... mai messo veramente in pratica nei modi che i suoi stessi documenti richiedevano.
Orbene, al quesito che ci siamo posto la risposta dei sociologi è affermativa: causa della crisi del cattolicesimo è stato proprio il Concilio per come è stato recepito e percepito (non quindi, ripetiamo ancora, il Concilio in sé per come è, ma potremmo dire il Post-Concilio, la mentalità progressista ‘di rottura’ ispirata ad un abusivo Spirito del Concilio, che è divenuta maggioritaria negli anni immediatamente successivi al 1965).
Per giungere a tali conclusioni, gli studi citati da M. Introvigne si sono appuntati su dati statistici: ad esempio nel periodo 1965-1995 le vocazioni sacerdotali e quelle religiose femminili sono calate nei paesi nordeuropei e negli Usa in percentuali variabili tra il 50 e l’80 per cento; per contro in Spagna e Portogallo (che fino al 1975 furono soggetti a dittature di destra che si frapposero all’applicazione dell’aggiornamento postconciliare) il calo comincia solo dopo il ritorno alla democrazia e il recupero, da parte delle istanze ecclesiali iberiche, delle posizioni arretrate rispetto alle chiese più “avanzate” del resto d’Europa.
Allargando lo sguardo al di fuori del cattolicesimo, si nota inoltre come aumenti la diffusione delle religioni maggiormente integraliste e rigoriste, quali i pentecostali; senza considerare l’Islam, che conosce una spettacolare espansione in concomitanza con il ritorno a posizioni senza dubbio antemoderne (si pensi al velo femminile o all’applicazione della sharìa: pratiche quasi obsolete alcuni decenni fa, almeno nei centri urbani mediorentali, ed oggi sempre più all’ordine del giorno). Per contro le religioni più liberal, lassiste e ritenute “al passo coi tempi”, sono in gravissima crisi, anche peggiore del cattolicesimo: la chiesa luterana di Stato svedese, che da tempo prevede un rituale di benedizione di unioni omosessuali, conosce una pratica del 3%; la chiesa anglicana, poi, è sull’orlo del collasso e dello scisma per la questione dell’ordinazione di gay “in attività” oltreché, in misura minore, per l’ordinazione femminile: e anche qui è interessante notare la relativa maggior vitalità delle province anglicane africane, più rigoriste, rispetto all’ala più liberale rappresentata dagli episcopaliani americani, ridotti a poco più di due milioni (episcopaliano è il vescovo omosessuale Gene Robinson, divorziato dalla moglie e convivente con un uomo col quale si è da poco sposato civilmente, dichiarando di aver sempre sognato d’essere una june bride, qualcosa di analogo a una “sposa di maggio”: v. riferimenti qui).
Insomma: pare evidente che sussista una proporzione inversa tra le posizioni “moderne” e al passo coi tempi rispetto agli indicatori di vitalità di una religione. Ossia,
in altri termini, se una fede è severa e rigorista, attira più fedeli. Eppure si sente spesso ripetere l’opinione secondo cui il Cattolicesimo perde colpi perché non è in sintonia col mondo attuale e mantiene posizioni anacronistiche e premoderne, soprattutto in tema di morale sessuale (si pensi alle tematiche del divorzio, dell’aborto, dei mezzi anticoncezionali, in cui effettivamente ben pochi, anche tra i cattolici dichiarati e praticanti, seguono fino in fondo il magistero). Come si spiega questa apparente contraddizione, che sembra manifestare una sorta di “masochismo” dei fedeli, contenti solo quando la loro religione li costringe a posizioni conflittuali con l’orientamento permissivo maggioritario della società?
A questo paradosso dà una spiegazione razionale la sociologia delle religioni. Mentre alcuni decenni fa si pensava che il successo di una religione dipendesse dalla mentalità dei fedeli, sicché in una società secolarizzata avrebbero retto meglio quelle religioni che agli imperativi della secolarizzazione, e quindi alle opinioni della gente, si fossero in qualche modo adattate o aggiornate, successivamente tale tesi, denominata vecchio paradigma, è stata superata e perfino rinnegata dal suo primo propugnatore (Harvey Cox, il quale la propose in un influentissimo testo del 1965 intitolato La città secolare, ma trent’anni dopo riconobbe l’infondatezza delle premesse sociologiche e fattuali su cui la sua tesi era fondata).
Si è scoperto infatti che, dal lato dei fedeli, la domanda di senso religioso resta sostanzialmente costante, mentre quel che cambia è, sul lato dell’offerta, quanto una Chiesa o religione organizzata è in grado di proporre (cosiddetto nuovo paradigma); ed è precisamente questo che determina la crescita o la crisi di una religione. Infatti nell’ultimo mezzo secolo non è diminuita globalmente la percentuale di persone credenti: semplicemente, molte hanno cambiato fede (alle perdite della Chiesa cattolica e delle denominazioni protestanti storiche, e ormai liberaleggianti, ha corrisposto non l’aumento di atei ma la speculare crescita di denominazioni più fondamentaliste come i pentecostali, gli evangelici, i Testimoni di Geova e i Mormoni). Se fosse invece vera la tesi del ‘vecchio paradigma’, tutte le religioni indistintamente avrebbero dovuto soffrire per la secolarizzazione, e semmai resistere con minori perdite proprio le religioni più aperte alle evoluzioni permissive della società.
Ma se queste constatazioni descrivono la situazione per come è, esse non individuano ancora il meccanismo per cui guadagnano le religioni che si pongono contro le tendenze generali della società. La spiegazione è nella teoria delle nicchie: la domanda religiosa si indirizza verso una di queste cinque ‘nicchie’, distinte a seconda del loro grado di conflittualità decrescente con la mentalità secolarizzata:
ultra-rigorosa, rigorosa, centrale, progressista e ultra-progressista. La sociologia (stiamo sempre seguendo lo studio di M. Introvigne) ha verificato che la distribuzione dei fedeli nelle varie nicchie è diseguale: mentre nelle due nicchie estreme si collocano in pochissimi (quella ultra-rigorosa è di solito la nicchia di una nuova religione nel suo stadio iniziale, tendenzialmente ‘settario’), il grosso dei fedeli rientra nei due segmenti “rigoroso” e “centrale”. Relativamente pochi si collocano invece nella nicchia “progressista” e pochissimi, come detto, in quella ultra-progressista. Verrebbe allora da chiedersi come mai la società moderna sia così progressista e secolarizzata, allorché la corrispondente nicchia religiosa è poco frequentata: il fatto si spiega semplicemente perché i fautori di tale mentalità ‘moderna’ nella maggior parte dei casi sono del tutto a-religiosi e non rientrano perciò in alcuna delle nicchie elencate; sono i cosiddetti “laici” (ma sarebbe meglio dire laicisti), privi di affiliazione con qualsiasi chiesa e in genere molto influenti, anche se minoritari, nella società e nei “salotti buoni” dei mezzi di comunicazione, sì da poter determinare l’orientamento generale verso un sempre maggior secolarismo. E’ un dato di fatto inoltre che le nicchie progressista e ultra-progressista subiscono una continua erosione verso l’esterno, ossia molti di coloro che le componevano finiscono con l’abbandonare del tutto la dimensione religiosa ed escono dal “sistema delle nicchie” (si pensi ad esempio a quanti preti, laici e religiosi “impegnati” e progressisti hanno lasciato la Chiesa negli anni ’70 e ‘80).
Evidentemente la domanda di senso religioso delle persone si accompagna maggioritariamente con la ricerca di una risposta totalizzante ed impegnativa, che renda la fede degna d’esser vissuta, e questo provoca l’affollamento delle nicchie rigorosa e centrale; invece chi si accontenta di un sistema religioso più lassista e con credenze più vaghe od ambigue (i cosiddetti cafeteria catholics, quelli intenti a scegliere nella religione solo quel che loro aggrada), è maggiormente esposto al rischio di cadere nell’indifferentismo e quindi alla fine nell’abbandono tout court della dimensione religiosa (con conseguente uscita dalle “nicchie”).
La conseguenza di queste constatazioni sociologiche è che una religione prospera finché la sua offerta di senso religioso è in grado di soddisfare i fedeli rientranti nelle nicchie rigorosa o centrale; entra in crisi se invece l’offerta diviene appetibile piuttosto per la nicchia progressista o, peggio ancora, per quella ultraprogressista.
Secondo una convincente ricostruzione sociologica, sempre riportata da M. Introvigne nello studio qui compendiato,
la Chiesa cattolica subito prima del Concilio si collocava in un’area “rigorosa”, in movimento verso quella “centrale”. Il Concilio avrebbe voluto e dovuto completare tale evoluzione riformista portando la Chiesa nella nicchia centrale, che come si è visto è quella di maggior successo.
Ma il problema è che il movimento è difficilissimo da governare e richiede una gradualità non di decenni, ma di secoli; il rischio è quello che, una volta messo in moto il processo, si verifichi, come già avvenuto in precedenza con altre denominazioni (anglicani, metodisti, presbiteriani), un’accelerazione, alimentata dalla mentalità secolare dominante, che porta irresistibilmente in direzione delle nicchie progressista e ultra-progressista. Ed è precisamente quanto accaduto col Postconcilio. In particolare i sociologi americani considerano come emblematici del superamento dei confini verso le fasce progressiste, due riforme particolarmente gravide di conseguenze, perché in grado di essere immediatamente percepite dalla gran massa dai fedeli (meno toccati, invece, da innovazioni più squisitamente dottrinali e quindi estranee alla percezione dei più): l’abbandono della liturgia in latino e l’abolizione dell’astinenza dalle carni il venerdì (quest’ultimo elemento, che a noi può sembrare molto secondario, è invece sempre stato un forte elemento identitario nei paesi non interamente cattolici; questo ci ricorda che si dice abbia fatto più, per la diffusione del movimento pitagorico nell’antichità, il divieto di mangiar fave, che tutte le teorie geometriche e numerologiche del grande Pitagora).
Ecco, quindi, la conclusione: qualcosa è andato veramente storto ed ha portato alla crisi attuale della Chiesa: non una presunta ritrosia nell’abbracciare i nuovi valori dominanti della società secolarizzata (come vogliono certe datate ricostruzioni, come quella della Scuola di Bologna di Alberigo, che rimproverano a Paolo VI di avere, specie con la Humanae Vitae sulla morale sessuale, contenuto e limitato l’anelito rinnovatore del Concilio), bensì tutt’al contrario “
uno slittamento dell’offerta cattolica verso una nicchia del mercato, quella progressista, dove ci sono meno consumatori di beni religiosi”; e tutto questo non per effetto del Concilio in sé, sibbene
di come è stato percepito ed applicato, ossia “precisamente come un mutamento dell’offerta inteso a diluire la specificità del cattolicesimo rispetto sia ad altre offerte religiose sia alla cultura dominante”.