Le rotte della disperazione
DI CAMILLE EID
È un prezzo altissimo quello che ha pagato la comunità cristiana in Iraq nei cinque anni e mezzo seguiti alla caduta di Saddam Hussein. Si stima che dal 2003 un migliaio di fedeli abbiano perso la vita, tra cui otto sacerdoti e un vescovo (monsignor Boulos Faraj Rahho), senza dimenticare le centinaia di uomini e bambini sequestrati a scopo di estorsione e le decine di ragazze violentate. I danni materiali sono ingenti: circa 500 negozi sono stati dati alle fiamme e 52 chiese hanno subito attentati. Ma c’è un altro dato allarmante che tocca la stessa sopravvivenza di questa Chiesa millenaria, quello che riguarda l’esodo, interno ed esterno, di migliaia di cristiani. Qualche rassicurazione sul loro futuro è arrivata di recente. Di ritorno dalla sua recente visita a Baghdad, il ministro Franco Frattini ha detto di aver inoltrato al premier iracheno Nouri al-Maliki un «messaggio chiaro». «L’Italia – ha detto il capo della Farnesina – fa tanto e farà ancora di più per l’Iraq, ma la nostra attenzione alla comunità cristiana sarà sempre più forte». E l’altroieri in un’intervista ad Avvenire il vicepresidente del Consiglio di sicurezza iracheno affermava che la questione dell’esodo rappresenta una priorità per il suo governo, il quale ha studiato un piano per favorire il ritorno degli sfollati nelle loro abitazioni. Ma quanti sono oggi i cristiani costretti a riparare in altre zone dell’Iraq, ritenute più sicure, e quanti sono quelli fuggiti all’estero? Impossibile dirlo con esattezza, ma le numerose testimonianze raccolte aiutano a farsi un’idea. Dei 600mila che risiedevano fino a dieci anni fa in Iraq (costituiti principalmente da assiro-caldei, ma anche da siriaci, armeni e latini), una buona metà ha raggiunto una nuova patria in America, in Australia o in Europa, oppure spera di raggiungerla presto aspettando il visto in qualche Paese del Medio Oriente. Gli altri 300mila rimasti in Iraq risultano per lo più concentrati nella Piana di Ninive, una fertile zona stretta tra il Tigri e il Grande Zab, considerata un vero e proprio «homeland » da molti iracheni cristiani. Una concentrazione, questa, che rischia, secondo alcune autorità ecclesiali, di portare i cristiani a chiudersi in un grande ghetto. La campagna di terrore scatenatasi il mese scorso a Mosul ha portato, secondo le nostre fonti, all’esodo di 2.350 famiglie cristiane da questa città a maggioranza sunnita, per un totale di almeno 13mila persone. La maggior parte di questi sfollati ha trovato asilo a Bakhdida, Bartela, Tellsqof, Telkaif, altri a Baashiqa e Alqosh. Il massiccio flusso di famiglie ha messo in crisi diversi centri urbani e villaggi che si sono trovati spiazzati dall’emergenza. A Batnaya, per esempio, nel 2003 si contavano 650 famiglie residenti, poi il numero è salito alla fine del 2006 a 1050 famiglie con la fuga da Baghdad e da altre città di numerosi fedeli. E ora, nell’ultimo esodo forzato dei cristiani di Mosul, vi si sono aggiunte altre 68 famiglie. Lo stesso vale per la località di Bakhdida (detta anche Qaraqosh) dove alle cinquemila famiglie originali se ne sono aggiunte 1050 da Baghdad e dintorni e ora altre 697. Circa la responsabilità di questi esodi forzati le affermazioni divergono. I curdi, che controllano militarmente la città, accusano le bande sunnite legate ad al-Qaeda, mentre i partiti sunniti chiamano in causa proprio i peshmerga curdi. Durante un incontro con alcune famiglie sfollate da Mosul, un generale americano ha chiesto di indicargli gli autori della violenza anti-cristiana per punirli immediatamente. Retorica la risposta di un sacerdote presente: «Se la tua casa è protetta da una guardia e poi subisce un furto, chi è la prima persona che ti viene in mente di interrogare?
(fonte: Avvenire - foto dal web )
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