lunedì 24 novembre 2008

Esodo Iraq, cristiani in fuga



Le rotte della disperazione



DI CAMILLE EID


È un prezzo altissimo quello che ha pagato la comunità cristiana in Iraq nei cinque anni e mezzo seguiti alla caduta di Saddam Hus­sein. Si stima che dal 2003 un migliaio di fedeli abbiano perso la vita, tra cui otto sacerdoti e un vescovo (monsignor Boulos Faraj Rahho), senza dimenticare le centinaia di uomini e bambini se­questrati a scopo di estorsione e le decine di ra­gazze violentate. I danni materiali sono ingenti: circa 500 negozi sono stati dati alle fiamme e 52 chiese hanno subito attentati. Ma c’è un altro da­to allarmante che tocca la stessa sopravvivenza di questa Chiesa millenaria, quello che riguarda l’e­sodo, interno ed esterno, di migliaia di cristiani. Qualche rassicurazione sul loro futuro è arrivata di recente. Di ri­torno dalla sua recente visita a Baghdad, il ministro Franco Frat­tini ha detto di aver inoltrato al premier iracheno Nouri al-Ma­liki un «messaggio chiaro». «L’I­talia – ha detto il capo della Far­nesina – fa tanto e farà ancora di più per l’Iraq, ma la nostra at­tenzione alla comunità cristiana sarà sempre più forte». E l’al­troieri in un’intervista ad Avveni­re il vicepresidente del Consiglio di sicurezza ira­cheno affermava che la questione dell’esodo rap­presenta una priorità per il suo governo, il quale ha studiato un piano per favorire il ritorno degli sfollati nelle loro abitazioni. Ma quanti sono oggi i cristiani costretti a ripara­re in altre zone dell’Iraq, ritenute più sicure, e quanti sono quelli fuggiti all’estero? Impossibile dirlo con esattezza, ma le numerose testimo­nianze raccolte aiutano a farsi un’idea. Dei 600mi­la che risiedevano fino a dieci anni fa in Iraq (co­stituiti principalmente da assiro-caldei, ma anche da siriaci, armeni e latini), una buona metà ha raggiunto una nuova patria in America, in Au­stralia o in Europa, oppure spera di raggiungerla presto aspettando il visto in qualche Paese del Medio Oriente. Gli altri 300mila rimasti in Iraq ri­sultano per lo più concentrati nella Piana di Ni­nive, una fertile zona stretta tra il Tigri e il Gran­de Zab, considerata un vero e proprio «home­land » da molti iracheni cristiani. Una concentra­zione, questa, che rischia, secondo alcune auto­rità ecclesiali, di portare i cristiani a chiudersi in un grande ghetto. La campagna di terrore scatenatasi il mese scor­so a Mosul ha portato, secondo le nostre fonti, al­l’esodo di 2.350 famiglie cristiane da questa città a maggioranza sunnita, per un totale di almeno 13mila persone. La maggior parte di questi sfol­lati ha trovato asilo a Bakhdida, Bartela, Tellsqof, Telkaif, altri a Baashiqa e Alqosh. Il massiccio flus­so di famiglie ha messo in crisi diversi centri ur­bani e villaggi che si sono trovati spiazzati dall’e­mergenza. A Batnaya, per esempio, nel 2003 si contavano 650 famiglie residenti, poi il numero è salito alla fine del 2006 a 1050 famiglie con la fu­ga da Baghdad e da altre città di numerosi fedeli. E ora, nell’ultimo esodo forzato dei cristiani di Mosul, vi si sono aggiunte altre 68 famiglie. Lo stesso vale per la località di Bakhdida (detta an­che Qaraqosh) dove alle cin­quemila famiglie originali se ne sono aggiunte 1050 da Bagh­dad e dintorni e ora altre 697. Circa la responsabilità di que­sti esodi forzati le affermazioni divergono. I curdi, che control­lano militarmente la città, ac­cusano le bande sunnite lega­te ad al-Qaeda, mentre i parti­ti sunniti chiamano in causa proprio i peshmerga curdi. Durante un incontro con alcune famiglie sfollate da Mosul, un generale americano ha chie­sto di indicargli gli autori della violenza anti-cri­stiana per punirli immediatamente. Retorica la ri­sposta di un sacerdote presente: «Se la tua casa è protetta da una guardia e poi subisce un furto, chi è la prima persona che ti viene in mente di inter­rogare?


(fonte: Avvenire - foto dal web )

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